Il paradosso del paragone tra animalist*e pro-life: una riflessione

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Andy Warhol era un profeta.

Davvero molto interessante osservare lo tsunami di commenti che si sono avvicendati sui social, a velocità frenetica, in seguito alla mediatizzazione del caso di Caterina (la nostra riflessione in merito è qui). Quello che colpisce è la quantità di preconcetti, frasi fatte, inesattezze ripetute come mantra a qualsiasi interlocutore, possibilmente farcite di aperto disprezzo, dileggio, ostilità e violenza verbale. Mantenere toni pacati quando qualcun* ti grida in faccia di essere “estremista” – peraltro ignorando qualsiasi tuo tentativo di stabilire una connessione, un dialogo che ristabilisca la possibilità di una riflessione pacata – è davvero un’impresa ardua. Riflettere dunque è quello che cerchiamo di fare qui, e riflettere costa certo più tempo e fatica che insultare e pontificare in 150 parole, ma dal nostro punto di vista, è sicuramente più interessante e produttivo.

Da dove partire dunque? Beh, la tentazione di riprendere per filo e per segno le tante assurdità speciste lette o ascoltate in questi giorni è forte: essendo tutt* nat* e cresciut* in un milieu specista, sarebbe divertente – se non fosse tragico negli esiti per gli animali non umani – rilevare come la mente addestrata ad essere specista dall’infanzia infarcisca di giustificazioni pseudomorali, pseudoevoluzionistiche e financo pseudocreazioniste la realtà dell’uso della violenza che sottende il dominio, il potere, l’assoggettamento schiavistico e utilitaristico dei cosiddetti ‘animali’ (non umani, aggiungiamo noi). L’acriticità con cui si usano i più svariati argomenti, spesso contraddittori, allo scopo di giustificare l’uso della violenza e il mantenimento del privilegio specista è davvero aberrante, di una malafede senza fine e caratterizzato da un dogmatismo raro (un esempio per tutti, nello stesso dialogo si pone la radicale differenza tra ‘umani’ e ‘animali’ (schiacciando in un calderone informe zanzare e scimmie antropomorfe che condividono il 90% del patrimonio genetico con noi, che a questo punto dobbiamo, per mantenere le distanze, elevarci al parnaso dei semidei), per poi usare invece l’esempio dei carnivori obbligati e le attività di predazione come giustificazione dell’uso della violenza  -ah, ma allora siamo animali? – e stabilire quindi che anche se siamo così indubitabilmente divers* non lo siamo poi davvero nel momento in cui ci serve utilizzare gli animali per la sperimentazione a beneficio umano… i quali insomma, sarebbero uguali a noi quando ci fa comodo, ma diversi da noi quando gli interessi da salvaguardare sono i loro, e che passano continuamente in uno stesso discorso dallo status di simili a quello di dissimili, senza che nessun* alzi un sopracciglio).

Un vero insulto a quel carattere di intelligenza, moralità ed etica che si presuppone alla radice di tutta questa ‘differenza innata’ tra ‘noi’ e gli altri animali. A volte un sincero “sarà come dite, ma in sostanza me ne frego” sarebbe molto più dignitoso, anche perché le pseudo-giustificazioni ricordano tanto le dinamiche di potere che opprimono le donne su basi ugualmente false e arbitrarie (in bocca a quegli uomini che usano allo stesso modo il proprio potere e privilegio a proprio vantaggio, giustificandolo affermando ad esempio che le donne ‘se la sono cercata’ quando vengono stuprate, che le donne sono ‘naturalmente materne’ pertanto da ricacciare nell’ambito domestico e di cura senza se e senza ma, ecc.ecc.)

A proposito di donne, e a proposito di femministe.

Dal mio punto di vista situato – di donna e femminista antispecista – sento l’esigenza di focalizzare l’attenzione su di un aspetto particolare, nel quale sono incappata diverse volte in questi giorni, per lo più in ambito femminista: il paragone tra animalist* e pro-life, sul quale vorrei spendere qualche parola in più.

Prima di tutto, è interessante notare come le uscite inqualificabili di alcuni individui, identificati come animalist*, ma che non esiterei a definire persone psicologicamente disturbate, siano state usate a pretesto per definire in senso negativo un’intera categoria di persone (e, ancor peggio, ricacciare gli animali nel loro inferno senza ripensamenti o dubbi): una generalizzazione funzionale alla creazione del ‘mostro antispecista’, essere umano che ha voltato le spalle alla propria specie per una forma di perversione o odio di sé o masochismo, che ne fa un essere pericoloso e distruttivo, per sé e per gli altr*. Questa dinamica ha generato una fiumana di reazioni parimenti odiose o anche più estremiste da parte di specist* che però non avrebbero potuto essere messe in discussione nemmeno da un Gandhi redivivo, in virtù di un appiattimento e di una polarizzazione del discorso che ha realizzato un conflitto cieco e violento al pari di quello tipico delle curve di uno stadio alla domenica pomeriggio.

Questa dinamica ha caratterizzato gli scambi anche all’interno di contesti che avrei reputato meno inclini a facili generalizzazioni, come quello femminista, il quale, apparentemente aperto all’intersezionalità – quando parla di relazione inscindibile tra antisessismo e antirazzismo, per dirne una – spesso rinsalda il proprio muro difensivo dogmatico di fronte a qualsiasi tentativo di problematizzazione in senso antispecista, anche di fronte a persone appartenenti allo stesso contesto che, in altre situazioni, non si è esitato a definire “compagne” o “sorelle”… alla faccia della sorellanza!

La dinamica probabilmente dipende da fattori complessi, che passano anche attraverso la difficoltà di esperirsi non solo in quanto categoria oppressa ma anche oppressiva (risulta difficile farlo anche tra diversi femminismi!), dalla ancora relativa invisibilità dell’oppressione specista (un’oppressione è tanto più invisibile quanto più è considerata ‘normale’ dalla maggior parte della persone appartenenti alla categoria che detiene il privilegio), dalla paura tutta femminista di essere ricacciat* in un animalità che, da tempi immemori, è stata la cifra caratterizzante di tutto un discorso volto a dominare i corpi e le vite di donne, persone di colore, diversamente abili, comunità deboli in generale.

Il fatto che lascia perpless* però, è che invece di smascherare i meccanismi che stanno alla base dell’oppressione – ad esempio la creazione arbitraria di una supposta distinzione di valore, atta a dare ad alcuni soggetti diritto di esistenza e di qualità dell’esistenza, a scapito dell’esistenza e della qualità dell’esistenza di altri soggetti – squalificati per le proprie differenze da un ‘esemplare tipo’, di volta in volta ricalcato su chi in quel momento è il dominante (il maschio bianco eterosessuale occidentale in un caso, l’essere umano generico nell’altro) – si cerca semplicisticamente di rientrare nell’insieme privilegiato, senza andare a sradicare il sistema di dominio basato sull’imposizione del proprio potere, perlopiù coercitivo, su altri individui.

Tra le strategie che sono state utilizzate in questo senso, una merita particolare attenzione, ed è quella di paragonare l’atteggiamento animalista (o antispecista, parola che andrebbe conosciuta meglio negli ambiti di attivismo sociale e che è invece altezzosamente ignorata) a quello dei militanti pro-life: un tasto dolorosissimo e sensibile per tutte le femministe, che ha come risultato una chiusura difensiva a riccio, ma a ben vedere un paragone completamente erroneo, come cercherò di far intendere a chi ha avuto la pazienza di leggere fino a qui.

Quello che le femministe faticano a vedere è che, nei fatti, è proprio l’elevazione arbitraria della vita umana a valore insuperabile e inarrivabile tipica dello specismo,  una sacralizzazione che va a braccetto con la foga religiosa anch’essa da sempre propugnatrice di privilegi impossibili da scalfire in virtù dell’adesione ad una fede aprioristica (che stabilisce il primato di dio sull’essere umano, dell’essere umano maschile su quello femminile, dell’essere umano in generale su tutti gli altri animali – tutte categorie e ‘caste’ presenti e ricorrenti in tutto il testo biblico a cui si rifanno la maggior parte dei pro-life) a proteggere il feto e ad elevarlo persino al di sopra della donna che lo porta in grembo, che è ridotta a contenitore di ‘vita in potenza’.

Il biopotere, che penetra nelle nostre vite e nei nostri corpi, sottostà alle stesse dinamiche e non fa grosse differenze, che si tratti di animali umani o non umani: anzi, spesso i non umani sono il ‘banco di prova’ di pratiche poi inevitabilmente utilizzate anche in ambito umano.

Pattrice Jones, attivista femminista antispecista, allarga la riflessione ulteriormente, e scrive in proposito:

Esiste in merito una corrispondenza superficiale, perché entrambe le controversie si focalizzano sul disaccordo fondamentale circa le prerogative delle persone in relazione a classi specifiche di organismi. Ma le somiglianze finiscono qui.  Diciamo che “la carne è assassinio” perché il mangiatore di carne non ha giustificazioni nell’uccidere un altro essere vivente al solo scopo di provare la sensazione piacevole che può derivare dal mangiar carne. Chi sostiene il carnivorismo offre ogni sorta di giustificazione alla pratica, ma nessuno può mettere in discussione il fatto che l’animale ucciso non è la stessa entità rispetto a chi si nutre della sua carne. La discussione verte quindi sul fatto se sia o meno giustificata l’uccisione, piuttosto che sul decidere se l’animale sia o meno un’entità separata. All’opposto, coloro che si definiscono attivist* “pro-life” definiscono l’aborto omicidio, mentre chi si definisce pro-choice risponde: “i nostri corpi, le nostre vite, il nostro diritto a decidere”.  Il fulcro del conflitto risiede perciò nel considerare l’entità abortita un individuo o meno. La maggior parte delle persone concorda nell’affermare che tutt* hanno il diritto di disporre dei propri corpi, fintantoché nel farlo non si nuoccia ad altr*. Allo stesso modo, quasi tutte le persone sono d’accordo nell’affermare che nessuno ha il diritto di uccidere un’altra persona salvo la giustificazione dell’autodifesa. Il problema qui, è il disaccordo che esiste sul quando una donna incinta e il feto che si sta sviluppando diventano entità separate. Non possiamo raggiungere un consenso sull’aborto perché la gravidanza è un processo misterioso.  All’inizio del processo esiste una sola persona che ha il diritto di disporre del proprio corpo, mentre alla fine del processo le persone esistenti sono due, e ognuna ha il diritto di non subire violenze da parte di altr*. Dunque nel corso del processo, l’organismo madre-figlio è precisamente il tipo di paradosso che la cultura occidentale non può tollerare: una persona e due individui allo stesso tempo. […] Per questo non sorprende che sia difficile trovare un punto di contatto […] anche tra donne.  In questo momento di empasse, sarebbe sicuramente più produttivo se i pro-life e i pro-choice, invece di passare il tempo a dibattere sull’aborto, focalizzassero la propria attenzione su quelle pratiche che sappiamo ridurre le gravidanze indesiderate, quali la contraccezione garantita per tutt*,  fare in modo che le persone, specialmente giovani, conoscano i diecimila modi di fare buon sesso che non includono la penetrazione, problematizzare e mettere in discussione quell’idea culturale che vede l’attività sessuale penetrativa alla base di una relazione sentimentale, ponendo la parola fine allo stupro e al sesso non consensuale caratteristico di molte relazioni eterosessuali, e allo sfruttamento sessuale. Se ci concentrassimo su questi aspetti, suppongo che la necessità di aborti diventerebbe così insignificante che smetterebbe di costituire una controversia di tali proporzioni […] Siamo onest*: a nessuna piace abortire. Non è orribile come una gravidanza indesiderata portata a termine, ma non è piacevole. La vera libertà riproduttiva  passa attraverso la libertà dalle gravidanze indesiderate.  Pertanto, mentre non ritengo la controversia sull’aborto in alcun modo analoga a quella riguardante la liberazione animale, credo che la libertà riproduttiva sia un tema centrale rispetto alla liberazione animale. Che cos’è esattamente il processo di domesticazione? Riduzione in schiavitù combinata a controllo della riproduzione. Come si perpetua l’allevamento? Attraverso il controllo totale delle vite riproduttive degli animali dominati. […] Dobbiamo approfondire e chiarire la nostra comprensione del ruolo centrale che ha il controllo della riproduzione nello sfruttamento, degli animali non umani e delle donne.

Ritornando perciò al concetto di biopotere.

Ribaltando il paragone erroneo tra animalist* e pro-life, ho cercato qui di dimostrare come la difesa del feto attuata dai pro-life scaturisca proprio da quell’idea di unicità inarrivabile e distanza tra l’umano e tutto ciò che non lo è; e di converso, che la biopolitica attuata sui corpi degli animali non umani anche in merito al controllo della riproduzione, è lo specchio e l’anticamera del controllo sempre più pervasivo che viene attuato anche sui corpi umani e la loro riproduzione (in merito perciò all’aborto, alla fecondazione assistita, ma allargando il discorso anche, ad esempio, su eutanasia e fine vita). Lo stringersi delle maglie del controllo da parte del sistema passa attraverso il corpo degli animali non umani, e lo specismo, discorso fondante della nostra società, ha avallato pratiche di dominio vergognose, che in realtà possono ritorcersi contro qualsiasi essere, umano e non.

Finché non abbracceremo un’idea davvero libertaria e rivoluzionaria che sostenga ‘senza se e senza ma’ la libertà e dignità di animali umani e non, finché non la smetteremo di disprezzare nel profondo ‘gli animali che dunque siamo’, non potremo che abbracciare, consapevolmente o meno, le dinamiche di dominio e di potere del sistema che diciamo di voler abbattere il quale sceglie, arbitrariamente e di volta in volta, le categorie da privilegiare e da opprimere.

Ignorare la sofferenza degli animali non umani, in sostanza, fa il gioco di quel potere che opprime da sempre non solo i non umani, ma anche innumerevoli e incolpevoli animali umani, ovvero… noi stess*. E’ ora di aprire gli occhi e rendersene conto.

Diversity management: una critica anarcofemminista e trans

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Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management, in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato (evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione. Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi. Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici, anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi, innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine – sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale, ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze, quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi. Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza? nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e «violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata, ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta» sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera» ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla «sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza, genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans? è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.

Perché ci piace il postporno

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Di Lafra

“C’è vita al di là del mondo normalizzato”
Beatriz Preciado

Nella storia della lotta delle donne per la liberazione sessuale alcune problematiche hanno sempre provocato difficoltà di analisi e grandi imbarazzi. Tra queste la più controversa è indubbiamente quella sulla pornografia.

L’industria pornografica contemporanea, caratterizzata da una produzione seriale e una distribuzione su larga scala, nasce negli anni ’50 negli Stati Uniti. Nel 1953 Hugh Hefner lancia una rivista nuova, dedicata agli uomini. Nel primo numero di questa rivista compare la foto a colori di una giovane donna seminuda destinata a diventare una diva erotica del XX secolo. La ragazza è Marilyn Monroe, la rivista Playboy.

In piena guerra fredda Playboy, trasformandosi nella rivista maggiormente distribuita negli Stati Uniti (alla fine degli anni ’60 era arrivata ad avere un pubblico maschile di più di sei milioni di lettori), apportò un contributo eccezionale al cambiamento del panorama culturale e dell’immaginario sessuale maschile. Nascono con Playboy nuovi miti erotici: la ragazza della porta accanto, la coniglietta, la cameriera, la segretaria… Lo sguardo dell’uomo si insinua in una artificiosa intimità per spiare le vite surreali di donne giovanissime, chirurgicamente rimodellate e apparentemente prive di una ricerca del piacere non funzionale a quello maschile. I corpi nudi che vengono mostrati sono frutto di una ricercata architettura di genere, i canoni estetici rappresentano l’esasperazione di ciò che è considerato “femminile”: il risultato è un paradosso. Il mondo dell’immaginario pornografico è popolato di superfemmine che svolgono azioni quotidiane, come passare l’aspirapolvere o battere a macchina, e che con espressione di sorpresa e accondiscendenza soddisfano le voglie del maschio di turno.

E’ proprio questo immaginario sessuale, che ha popolato le fantasie degli uomini per decenni, ad aver contribuito alla costruzione di un modello sociale fortemente eteronormativo, ossia di imposizione della eterosessualità come norma, dove la divisione tra il maschile e il femminile era stabilita e rappresentata da corpi esasperatamente sessualizzati e da ruoli ben definiti.

Inoltre, la pornografia era, e prevalentemente rimane, un prodotto di uomini per gli uomini. La ricerca del piacere, che non sia quella del maschio, non è immaginata, tagliata fuori da ogni narrazione e rappresentazione. Sebbene l’industria pornografica si sia con gli anni allargata, cercando di aprirsi a nuovi mercati, come al pubblico omosessuale, il punto di vista che prevale è sempre quello dell’uomo. E con uomo intendo quello che è stato definito il grado zero di normalità nella società eteropatriarcale capitalista: il maschio bianco occidentale eterosessuale di classe media. Con queste premesse è comprensibile la critica mossa da molte femministe all’industria pornografica, accusata quindi di commercializzare i corpi delle donne, svilirne la sessualità e creare stereotipi e modelli lontani dalle persone reali con ripercussioni violente sulle loro vite. Meno comprensibili sono alcune scelte politiche di alcuni gruppi femministi che, soprattutto negli Stati Uniti degli anni ’80, hanno mosso una guerra alla pornografia in quanto tale.

L’oscenità della pornografia sta nel collocare al centro ciò che è considerato intimo e privato. La sessualità è infatti considerata un fatto personale. L’industria pornografica rompe questo tabù, non con l’intento di liberare la sessualità degli individui ma imponendogli un modello e arruolando un esercito di maschi addestrati a “marciare a tempo”. Il meccanismo funziona così bene che non è un caso che televisione e pubblicità ci bombardino di corpi e ammiccamenti a sfondo sessuale. L’allusione viene recepita perfettamente da sensibilità sovrastimolate e sovraeccitate. In questo panorama a dir poco inquietante, nascono nuovi progetti e nuove forme di lotta. Se la sessualità è un fatto personale allora, come ha teorizzato Kate Millet, è anche una questione politica. E altrettanto è la sua rappresentazione. Dal rifiuto alla pornografia mosso dal femminismo degli anni ’70-’80, si stanno aprendo nuovi orizzonti nella lotta alla normalizzazione sessuale agita dall’industria pornografica. Nasce il postporno nelle sue molteplici forme e pratiche. Tra le anticipatrici di questo movimento c’è indubbiamente Annie Sprinkle, che da attrice porno diventa regista e performer, con l’intento di smascherare il maschilismo della pornografia fino ad allora realizzata. A lei si deve l’inizio del Do it Yourself postporno. Iniziano a circolare lavori realizzati da donne per un pubblico femminile, si girano i primi “porno per donne”, e i video porno femministi come la più attuale raccolta di cortometraggi Dirty Diaries della svedese Mia Engberg o i film della regista Erika Lust. Progetti ancora legati al circuito commerciale ma che inseriscono comunque elementi di rottura all’interno dell’industria pornografica. Nascono laboratori di postporno creati da gruppi e collettivi queer o femministi, completamente autogestiti, dove alla riflessione teorica si affianca la pratica di produzione e sperimentazione di nuove forme di desiderio.

Il postporno non vuole togliere la rappresentazione della sessualità dalla scena pubblica, quindi dal piano politico, ma vuole intervenire per sovvertire e dare voce all’immaginario di tutti quei soggetti esclusi, marginalizzati, umiliati dalla pornografia maschilista funzionale al mercato e alla riproduzione della divisione binaria dei generi. Il postporno si rivolge alle persone e le sprona a smettere di subire i modelli sessuali imposti e diventare le proprie personali pornostar. La sua azione non è semplicemente dare voce (e gemiti) a chi non si considera il pubblico della pornografia mainstream, ma quella di inventare nuove forme condivise, collettive, visibili, aperte. Il postporno è il copyleft della sessualità che supera le barriere imposte dalla rappresentazione pornografica dominante e il consumo sessuale normalizzato. Il suo obiettivo è modificare la sensibilità e la produzione ormonale attraverso un movimento politico che costruisca in maniera liberata e partecipata ciò che è considerato privato e vergognoso. Perché ci piace? Perché scardina le dinamiche di genere, è insubordinazione, divertimento e desiderio. È la nostra rivoluzione sessuale.

Per approfondimenti puoi cliccare qui.

 

Una veglia non è abbastanza

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Un po’ di giorni fa, ho deciso di partecipare, assieme ad un amico, al mio primo Transgender Day Of Remembrance.

Nella mia vita mi è capitato diverse volte di partecipare a manifestazioni e commemorazioni per-ricordare, in-onore-di e via discorrendo, e la sensazione è sempre stata, più o meno, di tenere in mano un bel pacchetto regalo di rabbia, infiocchettata con senso di impotenza, con tanto di bigliettino allegato contenente aperto disprezzo per chi, nelle circostanze in questione, avesse osato sfoggiare un sorriso. Con un sottile margine di tolleranza per i sorrisi nervosi, così, per non disprezzare proprio tutti tutti.

Questa volta no, e non ci trovo nulla di particolarmente strano. Per quelle e quelli come noi l’incazzatura è quotidianità, e personalmente mi incazzo così spesso che una volta l’anno credo di essermi preso la licenza di non sentirmi in dovere di farlo: ogni tanto è bene che se ne occupi qualcun altro.

Non intendo certamente dire che di queste persone, morte suicide o morte ammazzate, non mi importa niente. Nient’affatto. La rabbia di cui mi parlo è qualcosa che mi tappa la vena. E questo succede ogni volta che apro un articolo del solito giornalista da due spicci bucati che declina una donna trans al maschile, quando sono sulla metro e sento imbecilli prendere in giro qualcuno dalla presentazione di genere androgina, tutte le volte che c’è chi fa misgendering (ovvero sbaglia i pronomi di una persona trans), e tutte quelle violenze e microaggressioni presenti in una gamma pressoché illimitata di situazioni assortite; in strada, a scuola, al lavoro, nella ricerca di un impiego. Praticamente quasi sempre e quasi ovunque.

Quello che mi piacerebbe dire è questo: con quale ipocrisia sfilze di attivisti partecipano a questa giornata, con che coraggio tanti prendono le distanze dalla transfobia un giorno all’anno, quasi a fare ammenda per i restanti 364 giorni di passività? Non basta. No, non basta assolutamente. A maggior ragione se quegli stessi attivisti in separata sede lamentano la scarsità di partecipazione trans alle loro attività, non rendendosi conto né del maggior stigma presente sulla popolazione trans, né delle maggiori difficoltà di una persona trans a intraprendere un percorso militante per molti motivi, ad esempio un livello di disoccupazione preoccupante (nonché la necessità di mantenere un lavoro quando lo si ha) e la discriminazione transfobica all’interno della stessa comunità LGBTQIA+. In che misura è possibile pensare a collettivizzare i propri sforzi se non ce la si fa a tenere in piedi neanche sé stessi? Me lo chiedo.

La morte di tutte queste persone mi rende furioso. Con tutte le fiammelle del candle light vorrei mettere a ferro e fuoco le città. Quando ci picchiano, ci fanno del male, ci uccidono, ci stuprano, ci minacciano io voglio la lotta, voglio vendetta, voglio urlare fino a rimanere senza voce. Ci tengo troppo a tutte e tutti noi, per reputare lo stare in un silenzio ad una veglia qualcosa di sufficiente. Non voglio ricordare i miei morti col dolore, voglio che il periodo in cui sono stati in vita non sia vano. E voglio lottare affinché i vivi rimangano tali. Troppe e troppi di noi sanno cos’è la depressione, hanno pensato almeno una volta al suicidio o l’hanno tentato, soffrono di transfobia interiorizzata e non considerano la propria come una condizione esistenziale, bensì una malattia. Io voglio promettere a ogni persona transessuale e transgender che l’esistenza piena di miserie che ci è riservata non è né meritata, né ineluttabile e che insieme possiamo distruggerla; che la sofferenza è privata, ma il privato è sociale, e il sociale è privato. Non voglio sottovalutare l’importanza del ricordo. Ma la memoria è qualcosa di più del ricordo: è rendergli giustizia. E non legalità, ma giustizia sociale.

Io voglio che si arrivi ad un giorno in cui non bisognerà più preoccuparci per la sicurezza e in cui non ci servirà mai più abituarci all’idea di dover essere pronti a difenderci da qualcuno ogni volta che usciamo di casa, ma finché quel giorno non arriverà, terrò il coltello fra i denti. Ma non lo desidero, quel giorno: lo pretendo.

25 Novembre – Una violenza enorme che ne oscura tante (più o meno) piccine

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25 Novembre, e non so cosa dire.

Ogni volta che leggo gli articoli, le riflessioni, i post scritti in  occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della  violenza contro le donne, mi sembra di guardare la Terra da  Plutone. Di più, mi sento ammutolire: perché sento parlare di  femminicidio, di botte e stupri, e io, seppur femminista, di queste  cose non so parlare. Non ne so parlare perché non le conosco, o  meglio non le conosco direttamente, sulla mia pelle o sulla pelle di  chi mi è più vicin@ – e non ho mai assistito (fortunatamente) ad  episodi di violenza estrema e brutale.

Eppure, mentre mi apprestavo a seguire il filo dei pensieri e degli  eventi legati a questa importante giornata da spettatrice, mi sono  resa conto che la violenza sulle donne la vedo agita ogni giorno, da  sempre. Non è una violenza eclatante, da prima pagina dei  giornali, non si chiama femminicidio, né botte, né stupro. Eppure  esiste, è pervasiva, è quotidiana, è come la goccia che scava, scava  e attraversa l’anima, annichilisce persone con costanza e pazienza nell’arco di una vita, in molti casi trasformando chi la subisce in maniera radicale.

Quella agita su tante donne che ho conosciuto e conosco, intrappolate per una vita in rapporti coniugali impari, alla mercé di mariti i quali, seppure non platealmente ‘violenti’, sono quasi sempre freddi, distratti, economicamente e psicologicamente abusanti e inclini ad approfittare di qualsivoglia privilegio patriarcale sia a portata di mano per trattarle come colf, badanti, mammine di ricambio e sex workers, al bisogno e, ovviamente, gratis.
Quella su colleghe di lavoro precarie come me, mandate via alla prima gravidanza in quanto non più pienamente produttive e in alcun modo tutelate – le stesse che, alla notizia della gravidanza, ricevevano il plauso patriarcale della dirigenza maschile per aver ottemperato ai propri impliciti ‘doveri biologici’ di femmine – rispedite prontamente al mittente del lavoro di cura e della dipendenza economica, senza vergogna né rimorso.
E poi c’è quella ubiquitaria che ho sentito sulla mia pelle, su quella di amiche o semplici conoscenti continuamente sottoposte a controllo, giudicate e condannate dall’inquisizione patriarcale che agisce in ognun@ di noi, uomini e donne – sempre troppo puttane, troppo suore, troppo maschiacci, troppo loquaci, troppo sciacquette, troppo serie, arriviste, pazze, stupide, instabili, fragili, grasse, magre, aggressive, audaci, passive, indolenti, indipendenti o dipendenti… sempre troppo o troppo poco di qualsiasi cosa, perennemente fuori posto o talmente al loro posto da meritare in ogni caso solo disprezzo.

Ecco, questa è la violenza che io conosco. E mi spaventa pensarla così ‘normale’, così quotidiana, così pervasiva da diventare invisibile, persino a volte ai nostri stessi occhi. Perché di fronte al femminicidio, di fronte alle botte, di fronte allo stupro, io ammutolisco. Qualcun@ mi direbbe persino che io, ‘al confronto’, sono una donna fortunata. Eppure anche io conosco la violenza, una violenza che accompagna i miei giorni, da sempre: e non mi sento fortunata, proprio no, quando penso a quante volte ho dovuto incassare i colpi di un sistema che mi discrimina in quanto donna.

E allora quello su cui rifletto oggi, in una giornata così importante e simbolica, è che la violenza contro le donne non si riduce al suo estremo, e la violenza brutale non cancella tutte le altre, ma va inserita – concettualmente e politicamente – in un contesto più ampio, quello che richiede un’azione culturale e sociale che nessun provvedimento emergenziale e securitario potrà in alcun modo sostituire.

Auguro a tutte le donne di trovare la forza – in sé stesse e in amic@,compagn@, sorell@ – di riconoscere e opporsi a qualsiasi forma di violenza, anche le più piccole, anche quelle considerate insignificanti, che le riguardi in quanto donne. Perché dalla nostra personale dose di violenza quotidiana, nasca la forza di una resistenza che è anche e soprattutto politica.

Procreazione politicamente assistita

Abbiamo trovato questo bell’articolo su Lavoro Culturale e felicemente  lo ripostiamo. Buona lettura!


Un articolo di Beatriz Preciado apparso su Libération del 27 settembre 2013 a margine del dibattito francese sull’estensione della procreazione medicalmente assistita alle coppie e agli individui non-eterosessuali. La traduzione del testo e le note sono a cura di Federico Zappino.

Sostenere che il rapporto sessuale tra un uomo e una donna sia necessario alla riproduzione è così poco scientificamente autorevole, in termini biologici, almeno quanto in passato lo era dire che la riproduzione potesse avvenire solo tra due soggetti che condividono lo stesso credo religioso, lo stesso colore della pelle o la stessa classe. Di conseguenza, se oggi siamo perfettamente in grado di riconoscere in quelle affermazioni precise prescrizioni politiche intrise di ideologie religiose, di razzismo o di classismo, dovremmo esserlo altrettanto quando si tratta di smascherare l’ideologia eteronormativa scandagliando quegli argomenti che rendono l’unione sessuale/politica tra un uomo e una donna la conditio sine qua non della riproduzione.

Dietro alla difesa dell’eterosessualità come unica forma di riproduzione naturale, sostengo, si cela la confusione fallace tra “riproduzione sessuale” e “pratica sessuale”. La biologa Lynn Margulis, ad esempio, ci insegna che la riproduzione sessuale umana è meiotica: la maggior parte delle cellule del nostro corpo è diploide, e ciò significa che sono composte da due serie di ventitre cromosomi ciascuna. Al contrario, gli ovuli e gli spermatozoi sono cellule aploidi: hanno, cioè, solo ventitre cromosomi a testa. La riproduzione sessuale, pertanto, non richiederebbe di per sé l’unione – né sessuale, né politica – di un uomo e di una donna. La riproduzione non è né eterosessuale né omosessuale: è un semplice processo di ricombinazione del materiale genetico di due cellule aploidi.

Le cellule aploidi, va da sé, non si incontrano mai per caso. Tutti noi esseri umani ci riproduciamo in maniera “politicamente assistita”. La riproduzione umana continua infatti a presupporre la socializzazione del materiale genetico dei corpi attraverso pratiche più o meno irreggimentate: la tecnica eterosessuale (l’eiaculazione, cioè, di un pene dentro una vagina), o l’amichevole scambio di fluidi corporei, o mediante un’iniezione in ospedale, o su di una piastra di Petri in laboratorio.

Nel corso della storia, d’altronde, forme tra loro assai diverse di potere hanno tentato di esercitare uno specifico controllo proprio sui processi riproduttivi. Fino al ventesimo secolo, ad esempio, quando ancora non era possibile intervenire a livello molecolare, la forma di controllo più pressante era proprio quella esercitata sui corpi delle donne, i quali erano declassati a meri uteri potenzialmente ingravidabili. Da un lato, l’eterosessualità veniva veicolata culturalmente come tecnologia sociale di riproduzione politicamente assistita. Dall’altro, il matrimonio costituiva l’istituzione patriarcale necessaria a garantire un mondo privo di anticoncezionali o di test di paternità: qualsiasi prodotto uterino era considerato legittima proprietà del pater familias. È in quanto parte integrante di un progetto biopolitico in seno al quale l’intera popolazione è resa oggetto di calcoli demografici, dunque, che l’eterosessualità assurge a dispositivo di riproduzione nazionale.

Tutti quei corpi la cui sessualità non potrebbe dar luogo a una riproduzione vengono esclusi dal “contratto eterosessuale” (per dirla con Carole Pateman[1]
o con Judith Butler[2]) che fonda le democrazie moderne. Il carattere asimmetrico e profondamente normativo di tale contratto, d’altronde, farà dire a Monique Wittig, negli anni Settanta, che l’eterosessualità non è solo una tra le tante pratiche sessuali, ma costituisce piuttosto l’essenza di uno specifico regime politico[3].

Per le persone omosessuali, per alcune persone transessuali, per alcune persone eterosessuali, per le persone asessuali e per alcune persone con diversità funzionali, lo scambio dei propri materiali genetici non può avvenire secondo il format collaudato “pene-vagina-eiaculazione”. Ma ciò non significa che esse non siano fertili o che non abbiano il diritto di trasmettere il proprio patrimonio genetico. Omosessuali, transessuali, asessuali: noi non siamo soltanto delle minoranze sessuali (beninteso: uso l’espressione “minoranza” non in termini statistici, ma alla Deleuze, per indicare un segmento sociale politicamente oppresso). Siamo anche delle minoranze riproduttive.

Fino a questo momento abbiamo pagato il prezzo della nostra dissidenza sessuale anche con il silenzio genetico dei nostri cromosomi. Non ci è stata sottratta solo la possibilità di trasmettere il nostro patrimonio economico: ci è stato confiscato anche quello genetico. Omosessuali, transessuali, e tutti noi corpi considerati come “handicappati”, siamo stati politicamente sterilizzati o messi di fronte al vicolo cieco di accedere alla riproduzione avvalendoci di tecniche esclusivamente eterosessuali. L’attuale battaglia per l’estensione della procreazione medicalmente assistita ai corpi non-eterosessuali è pertanto una battaglia politica ed economica per la depatologizzazione delle nostre vite e per l’autodeterminazione nella gestione dei nostri materiali riproduttivi. Il rifiuto del governo francese di estendere la procreazione medicalmente assistita alle coppie e agli individui non-eterosessuali, mi sembra, supporta le forme egemoniche di riproduzione e ci conferma che il governo di Hollande perpetua la politica dell’eterosessualità obbligatoria di Stato.

Note

[1] Cfr. Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. or., The Sexual Contract, Stanford University Press, Stanford 1988).

[2] Cfr., in particolare, Atti performativi e costituzione di genere: saggio di fenomenologia e teoria femminista, trad. it. a cura di F. Zappino in Canone inverso. Antologia di teoria queer, a cura di E. A. G. Arfini e C. Lo Iacono, ETS, Pisa 2012 (ed. or., Performative Acts and Gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, in “Theatre Journal”, The Johns Hopkins University Press, 40, 4, December 1988); Ead., Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013 (ed. or.,Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York 1990); Ead., La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. or., Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000).

[3] Cfr. The Straight Mind, letto per la prima volta alla Modern Language Association Convention nel 1978 e poi pubblicato in “Feminist Issues”, 1, Summer 1980.

Proposte per una rivolta trans

Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.

Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina – trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.

Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i partner, il lavoro. Ma se queste tutte cose – fatta eccezione per il lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.

Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia, nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia. Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un impiego.

È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto conflitto con il mio desiderio.

Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per non vivere in maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è  buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra vita.

Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans  non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il movimento femminista fornisce a questa espressione. 

Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante bagaglio umano, politico e culturale e  un punto di vista  politico ed iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto  quelle. Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia, rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.

Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i  cui ingredienti principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di disprezzo e  una tolleranza  non troppo diversa da quella che si ha nei confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici, contenti… e miserabili.

Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che fin’ora abbiamo accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente è indispensabile.

Nancy Fraser, you lose!

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Ovvero, perché Nancy Fraser ha toppato alla grande e la responsabilità degli ‘intellettuali’ nella divulgazione delle idee.

Nei giorni scorsi abbiamo partecipato con interesse al dibattito scatenatosi a seguito della traduzione dell’articolo di Nancy Fraser dal titolo COME IL FEMMINISMO DIVENNE ANCELLA DEL CAPITALISMO – E COME RISCATTARLO.

Essendo particolarmente interessat* – e sentendoci in qualche modo parte,con tutti i limiti del caso, in quanto bianch* occidental* – a femminismi altri rispetto a quello descritto nell’articolo, è venuto spontaneo sottolineare gli errori di prospettiva e soprattutto le lacune e omissioni che l’articolo in questione mostrava… Questo ha avuto diversi effetti, tra i quali quello di vederci posta una domanda assolutamente fuori luogo, ma interessante come esempio di ‘reazione difensiva’ che ha la potenzialità di ‘porre il veto’ alle critiche costruttive.

La domanda è la seguente: “Gli intellettuali, o i pensatori, di turno, hanno diritto di parlare?”
Domanda alla quale, di primo acchito e senza troppo riflettere, ho risposto: “Certo che sì, ma prendendosi la responsabilità delle proprie parole (dato che purtroppo in una società verticale quelle parole hanno un certo peso) e tenendo comunque conto di avere un approccio situato e per molti versi privilegiato, in nessun modo ‘super partes’”.

In un secondo momento però, mi sono accorta di essere caduta in una trappola doppiamente infida: prima di tutto perché il “diritto di parlare degli intellettuali” non solo non è mai stato in discussione, ma anzi ha sempre avuto un peso e una valenza assai più grande di quello dei “comuni mortali” – ed anche maggiori possibilità di essere ascoltato e divulgato dai mass-media in generale. Anche in conseguenza di questa realtà, dagli ‘intellettuali’ mi aspetto, proprio in virtù della loro posizione, un approfondimento e una prospettiva assai più articolata (e forse questo caso esemplifica come questa “aspettativa” sia una presunzione infondata).

E invece, il privilegio di molti intellettuali di poter parlare di più e in maniera più visibile (o meglio, ascoltabile) dei ‘comuni mortali’ non sempre è così meritato: già solo il rendersi conto di far parte di una casta dovrebbe essere messo in discussione dagli stessi intellettuali, e questo raramente avviene. Inoltre, mentre si lavora su questo aspetto del privilegio, capire come utilizzare in maniera responsabile questo vantaggio sarebbe il minimo che ci si possa aspettare da loro.

La mia contro-domanda è un’altra: “posso io comune mortale – benché dotata di intelletto e perciò in qualche modo ‘intellettuale’ pure io, seppure senza stellette di merito nell’Accademia – criticare il verbo dell’intellettuale, senza sentirmi rimessa “al mio posto”, senza venire accusata di “invidia” (apertamente o tramite allusioni più o meno evidenti)? Altrimenti si entra in un loop nel quale, se voglio esprimere una ragionevole critica in merito alle parole del “sommo” di turno, devo aspettare che un altro, riconoscibile come pari rango, si esprima in merito.

A questo proposito, mi è stata segnalata la traduzione di un contro-articolo dal titolo La sindrome del fardello della femminista bianca di Brenna Bhandar, che sostanzialmente sostiene le stesse cose che abbiamo notato io e altr* del collettivo Intersezioni in merito all’articolo della Fraser. Per carità, bell’approfondimento, e siamo content* di sapere che non abbiamo vaneggiato, ma perché dobbiamo legittimare il nostro pensiero sempre e solo attraverso chi ha maggiore credito in virtù di ‘stellette accademiche’ o di visibilità?

La nostra critica è semplice ma puntuale: la Fraser ha toppato alla grande!

Sarebbe bastato aggiungere al titolo di quell’articolo una parola, ad esempio: “come CERTO femminismo divenne l’ancella del capitalismo… ecc.ecc.” E sforzarsi di inserire anche un solo paragrafo sui femminismi altri (magari facendo qualche nome, e aggiungendo qualche link ad esperienze di grande valore e ingiustamente ignorate), per dare un taglio tutto diverso al pezzo.
Ma invece no, il focus resta su quel certo femminismo che da sempre, invisibilizzando tutti gli altri, si è arrogato il diritto di essere riconosciuto dalla maggior parte delle persone come il ‘Femminismo’ tout court.

Fraser si rende colpevole anche di appropriazione nel momento in cui, da femminista bianca e accademica, ripete critiche al femminismo bianco e interclassista (anche se lo addita solo in quanto interclassista senza riconoscerne la bianchezza) già note e popolari presso altri femminismi (quelli di bell hooks, Angela Davis, Patricia Hill Collins, Gayatri Spivak e Gloria Anzaldúa, per dire), senza citare neanche *una* personalità di questi femminismi… Questo è colonialismo. Che i bianchi si approprino del duro lavoro – intellettuale e non – delle persone di colore* è storia. E la storia si ripete: quando le stesse cose le dice la femminista di colore non se la fila nessuno e rimane ai margini, se lo dice Fraser viene acclamata – e tra l’altro malinterpretata da alcun* e utilizzata, in parte, come ‘l’utile idiota’ per delegittimare i femminismi in toto, anche se lei parla di riappropriazione.

Da questo punto di vista l’articolo è davvero pessimo, ma pare dar credito alla regola del ‘bene o male, l’importante è che se ne parli’. E infatti la Fraser solo di quel femminismo parla, degli altri femminismi non fa nemmeno il nome, e questo fatto è casomai ancora più grave se consideriamo che, come intellettuale, le sue parole hanno un potere di gran lunga superiore a quello di tant* di far penetrare concetti ed esperienze altre all’interno del dibattito mainstream. Cosa altro potremmo aggiungere per far capire ai nostri interlocutori quale grande occasione si sia – di nuovo – persa?

Conosco uno stupratore

ph Bernard Plossu – 1970/1974
ph Bernard Plossu – 1970/1974

Mentre cercavo notizie sullo stupro della sedicenne violentata dagli ‘amici’, durante una festa, ho scoperto il tumblr Je connais un violeur [Conosco uno stupratore].
Un progetto francese, partito ad agosto 2013, che raccoglie già tantissime storie di stupro, al fine di spezzare quella falsa narrazione che ci vuole esposte al pericolo solo quando ci avventuriamo fuori dalle mura domestiche, vittime solo quando ci esponiamo allo sguardo degli estranei o incrociamo un ‘pazzo’, ribadendo chiaramente che la maggior parte delle violenze sessuali avvengono a opera di conoscenti e in famiglia.

Come si legge nell’about del tumblr:

L’immagine dello stupratore psicopatico che vive ai margini della società, è un mito che riguarda solo una piccola minoranza di loro. Nel 67% dei casi, la violenza ha avuto luogo presso la casa della vittima o del carnefice, che è un amico o una persona cara. Nel 80% dei casi, l’autore dello stupro era noto alla vittima. Uno stupro su 3 è commesso dal marito o dal partner abituale.

Quanto alle “false accuse” di cui sentiamo parlare quando si tratta di uno stupro, le statistiche parlano chiaro: sono estremamente rare. Al contrario, solo uno stupro su 10 è riferito alla polizia e il 97% degli stupratori non sconta nemmeno un giorno in carcere.

Erano i nostri amici, i nostri partner, i nostri familiari o membri della nostra cerchia di conoscenti. Conosciamo degli stupratori: permetteteci di mostraveli.

I racconti delle vittime vengono resi in forma anonima da Pauline, 27 anni, attivista femminista, ex studentessa di Scienze Politiche.

Autori degli stupri sono padri, fratelli, amici, amanti, cugini, zii. Uomini appartenenti a tutti i ceti sociali. Solo in pochi casi conoscenti o estranei. Attraverso i racconti si percepisce la vergogna, la paura e il senso di colpa generati dallo stupro nelle vittime. Secondo la psichiatra Muriel Salmona, che figura tra i link del blog stesso, la condivisione di queste storie è terapeutica in sé, perché dà alle vittime la sensazione di non essere sole nella difficoltà di comunicare ciò che è loro accaduto, anche a distanza di anni e nell’incredulità di chi le circonda[1].

Se uscire di casa è ritenuto pericoloso, lo è anche restarci, allora tanto vale andare fuori a reclamare il diritto ad essere in ogni posto, in ogni momento.

 


[1] Le Point.fr, Je connais un violeur : C’est mon père, mon mari, mon oncle…, «http://www.lepoint.fr», 29/09/2013 ore 09:45.

 

Femminismo: la prospettiva di un anarchico

Di seguito potete leggere un articolo di Pendleton Vandiver, “Feminism: a male anarchist’s perspective“, presente su The Anarchist Library e tradotto in lingua italiana da Su Macumeresu. Buona lettura!

 

“Io stessa non ho mai capito cosa sia il femminismo: so solo che mi chiamano femminista quando esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino”

Rebecca West, The Clarion 1913

Lawrence Textile Strike

La maggior parte delle persone nel mondo anarchico attuale – femmine o maschi – non condividerebbero, almeno in principio, molte delle seguenti affermazioni: ci sono due categorie immutabili e naturali sotto le quali gli umani sono classificati: maschio e femmina. Un umano maschio è un uomo, e un umana femmina è una donna. Le donne sono intrinsecamente inferiori agli uomini. Gli uomini sono più intelligenti e forti delle donne; le donne sono più emozionali e delicate. Le donne esistono per il beneficio dell’uomo. Se un uomo chiede del sesso a sua moglie, è suo dovere obbedire, volente o nolente. Un uomo può costringere una donna a fare sesso con lui, se ha una buona ragione per richiederlo. Gli umani devono essere concepiti, in senso universale, come maschi (“uomini”), e solo parlando di particolari individui come femmine. Le donne sono una forma di proprietà. Chiedere diritti per le donne è come chiedere diritti per gli animali ed è altrettanto assurdo.

Per quanto ridicole possano sembrare queste affermazioni, ognuna di loro è stata ovvia e naturale per buona parte dell’occidente in diversi momenti storici, e molte al giorno d’oggi sono più una regola che un’eccezione. Se molte di queste sembrano un po’ strane, stridenti o semplicemente sbagliate, non è perché contraddicano qualche vaga nozione di giustizia o senso comune con la quale siamo nati. Al contrario, il cambiamento di atteggiamento, che ci permette di affermare un punto di vista più illuminato e apparentemente naturale, è il risultato concreto di una continua lotta che ha visto sacrificarsi onorabilità e relazioni personali e vite umane negli ultimi 200 anni e che, come tutte le lotte di liberazione, è stata screditata, calunniata, e marginalizzata fin dal suo concepimento. Sebbene questa lotta sia stata, e ancora sia, strategicamente varia e concettualmente molteplice, e per questo difficile da definire, non è altrettanto difficile chiamarla col suo nome: mi riferisco, naturalmente, al femminismo.

Il femminismo ha cambiato la nostra cultura, se non altro rendendo di senso comune l’idea che le donne sono propriamente degli esseri umani. Se la maggior parte della gente condivide questa idea, non è perché la società sia diventata più buona, o stia evolvendo naturalmente verso una situazione più egalitaria. Chi ha il potere non decide semplicemente di concedere l’uguaglianza a quelli che non ce l’hanno; semmai, cede il potere solo quando vi è costretto. Le donne, come ogni altro gruppo oppresso, hanno dovuto prendere tutto ciò che hanno ottenuto, attraverso un duro percorso di lotta. Negare questa lotta è perpetuare un mito simile a quello dello schiavo felice. Ed è precisamente ciò che facciamo quando parliamo di femminismo come di un qualcosa che perpetua il divario di genere, o che ostacola il nostro progressivo abbandono delle politica identitaria. Il femminismo non ha creato il conflitto tra i generi; la società patriarcale lo ha creato. Ed è importante non dimenticare che l’idea che le donne siano esseri umani non è senso comune, ma in tutto e per tutto un concetto femminista. Appoggiare formalmente la liberazione delle donne, mentre si nega la loro lotta storica per ottenerla per sé stesse è paternalista e insultante.

Non solo la società occidentale ha apertamente relegato le donne a un ruolo subumano, ma, fino a poco tempo fa, molti movimenti di liberazione hanno fatto lo stesso. Spesso, è stato fatto in parte senza saperlo, come riflesso automatico dei costumi della cultura dominante. Altrettanto spesso, però, è stato in modo consapevole e intenzionale (come la famosa affermazione di Stokely Carmichael [leader studentesco statunitense e in seguito Black Panther, ndt], per cui l’unica posizione per le donne nel Comitato Coordinamento Studenti Nonviolenti fosse “in ginocchio”). Comunque sia, molti tra quelli che dicevano di lavorare per l’emancipazione di tutti gli umani stavano in realtà lavorando per l’emancipazione dell’uomo, e fino a poco tempo fa la definizione era proprio questa. Alle donne che si lamentavano di questo veniva (e viene tuttora) detto in modo accondiscendente di aspettare finché la battaglia più importante venga vinta, prima di chiedere la loro propria liberazione. Questo è stato per l’abolizionismo [della schiavitù], i diritti civili, il movimento contro la guerra, la Nuova Sinistra [americana], il movimento contro il nucleare, l’ambientalismo radicale e, ovviamente, l’anarchismo. Le donne sono state criticate per aver perseguito obiettivi femministi come se fossero nella direzione sbagliata, controrivoluzionari, o non importanti. Gli anarchici non si sono semplicemente svegliati una mattina con una visione più illuminata delle donne, e il patriarcato non si è rivelato improvvisamente come “un’altra forma di dominazione”. Sono state la teoria e la pratica femminista a portare alla luce l’oppressione delle donne, che l’hanno spesso manifestata in ambiti rivoluzionari differenti.

Questo non vuol dire che tutte le femministe fossero e siano anarchiche, o che tutti gli anarchici non fossero e non siano femministi. Ma il femminismo è spesso criticato nell’ambiente anarchico, da diversi punti di vista. Proverò a discutere le più comuni critiche che ho sentito fare, pubblicamente e privatamente, nei circoli anarchici. E’ stato detto che il femminismo è essenzialista. E’ stato anche detto che il femminismo, mantenendo le sue visioni essenzialiste, è una filosofia che afferma la superiorità, in un modo o nell’altro, delle donne sugli uomini. Infine, si accusa il femminismo di perpetuare le categorie di genere, mentre l’obiettivo rivoluzionario sarebbe andare oltre il genere. In altre parole, il femminismo è accusato di essere un’ideologia identitaria, di perpetuare ruoli sociali dolorosi ed escludenti che in ultima analisi opprimono tutti.

Ciò che queste accuse hanno in comune è che stabiliscono un’entità singola e più o meno univoca chiamata “femminismo”, mentre chiunque studia il femminismo impara subito che c’è sempre stata molta varietà nella teoria femminista, e che questo è vero soprattutto adesso. Nessun singolo insieme di idee sul sesso e sul genere rappresenta il femminismo; anzi, il femminismo è una categoria aperta, che comprende praticamente tutte le forme di pensiero e azione che riguardano esplicitamente la liberazione delle donne.

Sebbene il femminismo sia stato spesso accusato di essenzialismo, quest’ultimo è fortemente criticato all’interno del movimento femminista. L’essenzialismo è l’idea che ci sia una sostanza o essenza immutabile che costituisce la vera identità delle persone e delle cose. In questa visione, una donna sarebbe in qualche modo obiettivamente, profondamente identificabile come donna; essere una donna non sarebbe semplicemente il risultato di differenti attributi e comportamenti. Questa è spesso letta come un’affermazione politicamente arretrata, perché implicherebbe che le persone siano limitate da certe capacità e comportamenti dettati dalla natura.

Quando esaminiamo il campo delle idee emerse dalla seconda ondata del femminismo (più o meno post-1963), invece, viene fuori un’immagine diversa. La citazione forse più famosa del ‘Secondo sesso’, l’opera seminale di Simone de Beauvoir del 1940, è: “donne non si nasce, lo si diventa”. Il libro prosegue argomentando che il genere è una categoria sociale, che gli individui possono rifiutare. L’influenza del ‘Secondo sesso’ è stata enorme, e Beauvoir non fu l’unica femminista a mettere in dubbio la naturalità della categoria di genere. Molte scrittrici femministe iniziarono a tracciare una distinzione tra il sesso e il genere, asserendo che il primo descrive il corpo fisico, mentre il secondo è una categoria culturale. Per esempio, avere un pene appartiene al sesso, il modo in cui uno si veste, e il ruolo sociale che sceglie, appartiene al genere.

E’ una distinzione che alcune femministe ancora fanno, ma altre hanno messo direttamente in dubbio l’uso di categorie apparentemente pre-culturali come il sesso. Colette Guillamin ha suggerito che il sesso (come la razza) è un sistema arbitrario di “marchi” che non ha alcun fondamento in natura, ma serve semplicemente gli interessi di chi ha il potere. Sebbene varie differenze fisiche esistano tra le persone, è politicamente che si decide quali siano importanti per ‘definire’ una persona. Per quanto gli individui siano divisi in categorie ‘naturali’ sulla base di questi marchi, non c’è nulla di naturale nelle categorie: sono puramente concettuali.

Basandosi sul lavoro di de Beauvoir e Guillamin, tra le altre, Monique Wittig ha affermato che l’obiettivo del femminismo è eliminare il sesso e il genere come categorie. Come il proletariato nella filosofia marxista, le donne devono costituirsi in classe per rovesciare il sistema che permette l’esistenza delle classi. Non si nasce donna, se non nello stesso senso in cui si nasce proletari: essere donna denota una posizione sociale, e certe pratiche sociali, più che un essenza o un’identità ‘vera’. Il fine politico ultimo di una donna, per Wittig, è non esserlo. Più di recente, Judith Butler ha elaborato un’intera teoria di genere basata sulla radicale espulsione dell’essenza.

Naturalmente, ci sono state femministe che, disturbate da quella che vedevano come tendenza assimilazionista nel femminismo, hanno asserito una nozione di femminilità più positiva che è stata, a volte, indubbiamente essenzialista. Susan Brownmiller, nel suo importante libro ‘Contro le nostre volontà’, ha scritto che gli uomini possano essere geneticamente predisposti allo stupro, una nozione che è stata ripresa da Andrea Dworkin. Femministe marxiste come Shulamite Firestone cercarono la base materiale dell’oppressione di genere nel ruolo riproduttivo femminile, e molte teoriche femministe – Nancy Chodorow, Sherry Ortner, Juliet Mitchell tra le altre – hanno esaminato il ruolo della maternità nel creare ruoli di genere oppressivi. Femministe radicali come Mary Daly hanno abbracciato certe nozioni tradizionali di femminilità e hanno cercato di dar loro un senso positivo. Sebbene le radicali abbiano, a volte, preso posizioni essenzialiste, questo tipo di femminismo ha compensato alcuni degli squilibri di questo ambito del pensiero femminista che rifiutava la femminilità tout court come identità da schiava. La dicotomia che ha arrovellato le pensatrici femministe è sempre stata questa: asserire una forte identità femminile, e rischiare di legittimare i ruoli tradizionali e alimentare chi impiega l’idea di una differenza naturale per opprimere le donne, o rifiutare il ruolo e l’identità data alle donne, e rischiare di eliminare la base propria della critica femminista? L’obiettivo del femminismo contemporaneo è trovare un equilibrio tra punti di vista che rischiano, da una parte, l’essenzialismo, e dall’altra l’eliminazione delle donne come soggetto della lotta politica.

L’obiettivo del femminismo, quindi, è la liberazione della donna, ma cosa questo significhi esattamente è aperto a ogni discussione. Per alcune, questo significa che le donne e gli uomini debbano coesistere equamente; per altre, che non ci saranno più persone viste come donne e uomini. Il femminismo fornisce un ricco panorama di vedute sul problema di genere. Una cosa su cui possono accordarsi, comunque, è che i problemi di genere esistono. Sia come risultato di differenze naturali o di costruzioni culturali, le persone sono oppresse per motivi di genere. Per andare oltre al genere, questa situazione deve essere risolta; il genere non può semplicemente essere battezzato come sorpassato. Il femminismo può forse essere meglio definito come il tentativo di andare oltre la situazione in cui le persone sono oppresse in base al genere. Quindi, non è possibile andare oltre il genere senza il femminismo; l’accusa che il femminismo perpetui le categoria di genere è palesemente assurda.

Poiché l’anarchismo si oppone a tutte le forme di dominazione, l’anarchismo senza femminismo non è anarchismo. Poiché l’anarchismo si dichiara opposto a tutte le ‘archie’, tutti i governi, il vero anarchismo è per definizione opposto al patriarcato, quindi è, per definizione, femminista. Ma non è abbastanza dichiararsi contro tutte le dominazioni; si deve cercare di conoscere la dominazione per opporsi ad essa. Le autrici femministe dovrebbero essere lette da tutti gli anarchici che si considerano contro il patriarcato. Le critiche femministe sono sicuramente rilevanti quanto i libri contro l’oppressione governativa. L’eccellente ‘Agenti di repressione’ di Ward Churchill è considerato una lettura essenziale da molti anarchici, anche se Churchill anarchico non è. Molti lavori femministi, d’altra parte, sono snobbati anche da chi appoggia formalmente il femminismo. Se la repressione della polizia è una vera minaccia per gli anarchici, il modo in cui interpretiamo i nostri ruoli di genere deve essere considerato ogni giorno della nostra vita. Quindi, la letteratura femminista è più importante per la lotta quotidiana contro l’oppressione di molta della letteratura che gli anarchici leggono regolarmente.

Se l’anarchismo ha bisogno del femminismo, il femminismo ha sicuramente bisogno dell’anarchismo. Il fallimento di alcune teoriche femministe nel combattere il dominio oltre il ristretto frame delle donne vittimizzate dagli uomini ha impedito loro di sviluppare un’adeguata critica dell’oppressione. Come ha scritto un importante scrittore anarchico, un’agenda politica basata sul chiedere agli uomini di rinunciare ai loro privilegi (come se fosse davvero possibile) è assurdo. Femministe come Irigaray, MacKinnon e Dworkin sostengono riforme legislative, senza criticare la natura oppressiva dello Stato. Il separatismo femminista (specie quello di Marilyn Frye) è una strategia pratica, e forse necessaria, ma solo nella cornice di una società ampia che si assume stratificata sulla base del genere. Il femminismo è davvero radicale quando cerca di eliminare le condizioni che rendono inevitabile l’oppressione di genere.

Anarchismo e femminismo chiaramente hanno bisogno l’una dell’altro. E’ tanto bello dire che una volta che la fonte primaria di oppressione (qualunque essa sia) sarà eliminata, tutte le altre oppressioni saranno spazzate vie, ma che prove abbiamo che sia davvero così? E in che modo questo dovrebbe impedirci di opprimerci l’uno con l’altro, mentre aspettiamo questa grande rivoluzione? Allo stesso modo, è importante riconoscere che l’oppressione della donna non è l’unica oppressione. Discutere di quale sia quella più importante è sciocco e senza uscita. Il valore e la pericolosità dell’anarchismo sta proprio nel fatto che cerca di eliminare tutte le forme di dominazione. L’obiettivo ha valore perché non si distrae con battaglie riformiste dimenticando la sua traiettoria verso la liberazione totale. Ma, in un altro senso, è ‘pericoloso’ perché corre sempre il rischio di ignorare le situazioni concrete, sottovalutando o escludendo movimenti che lottano per obiettivi specifici.