Sii adipositiva!

1011069_586580584709826_611827284_nGrassa. Chiattona. Balena. In quanti modi si può dire mi fai schifo a una persona grande/grossa/grassa? (Beneinteso che anche la magrezza, percepita come estrema, benché sia più accettata, diviene oggetto di disprezzo. Sbagliata, in ogni caso, è il nostro nome.) Tutti quei modi che conosciamo bene perché li abbiamo sentiti, diretti a noi o ad una nostra amica, milioni di volte.
I giudizi negativi sui nostri corpi si nascondono spesso dietro consigli salutistici, alimentari e medici. Ma chi può giudicare il nostro stato di salute meglio di noi stesse? Ad una persona grassa non si chiede “Come stai?”, le si dice direttamente: dovresti perdere peso. Certe volte sono state le nostre stesse mamme o nonne o zie a farci sentire inadeguate, perché lo spazio che occupiamo è troppo, perché il cibo che mangiamo è troppo, perché siamo pericolosamente strabordanti rispetto alle regole della buona continenza femminile.  C’è, nelle nostre vite, un padre o un fratello per il quale risultiamo impresentabili. Molto spesso sono stati i nostri amanti a suggerirci con un gesto o una frase casuale, quando non volutamente cattiva, che queste cosce grosse e queste braccia adipose andrebbero coperte, nascoste. “Hai il seno troppo grande” è una frase che in tempi di silicone non crederesti mai di sentire, invece…
Può sembrare che da certi discorsi gli uomini siano esclusi, non è così. Un uomo grasso subirà probabilmente una minore pressione, in quanto uomo e quindi giusto di per sé, ma non significa che non ne subirà.
Se ciò per cui la società ti definisce viene percepito come sbagliato, allora hai solo due strade: il rifiuto di te stessa o la rivendicazione. Scegli.

adipositivity.my-expressions.com
adipositivity.my-expressions.com

Mostrare un immaginario positivo attorno ai corpi grossi (adipositività) è il mezzo attraverso il quale “The Adipositivity Project, si propone di cambiare la definizione di bellezza fisica della società. Letteralmente. (…) Ambisce a promuovere l’accettazione della propria taglia, senza elencare i meriti delle persone grosse o dettagliando esempi di eccellenza (queste cose si vedono facilmente attorno a noi), ma, piuttosto, attraverso la rappresentazione visiva dei corpi grassi. Qualcosa che di solito non si vede”.

Il progetto è promosso dalla fotografa Substantia Jones, e si arricchisce di nuove immagini continuamente.

adipositivity.my-expressions.com
adipositivity.my-expressions.com

“Qualche volta le fotografie sono strette sul dettaglio delle forme femminili grasse, spesso senza l’inclusione dei volti. Uno dei motivi di questa scelta è quello di spingere gli osservatori ad immaginare che stiano guardando le donne grasse nella loro vita, idealmente quindi accettarle come detentrici di appeal estetico che, bene o male, spesso si traduce in forme più complete di accettazione.

Le donne che vedete in queste immagini sono educatrici, dirigenti, madri, musiciste, professioniste, artiste, performer, attiviste, impiegate e scrittrici. Forse sono anche le donne alle quali hai fischiato in metropolitana, che ti hanno fatto girare gli occhi al mercato, o che hai preso in giro con gli amici.

Questo è quello che sembrano senza i loro vestiti.

Alcune vi mostrano con orgoglio i loro corpi. Altre timidamente. E alcune molto a malincuore. Ma tutte hanno l’obiettivo di modificare le nozioni comunemente accettate riguardanti un ristretto e specifico ideale di bellezza.

adipositivity.my-expressions.com
adipositivity.my-expressions.com

Aggiungete ai preferiti adipositivity.com e controllatelo spesso, siccome nuove fotografie vengono aggiunte regolarmente. E, per favore, aiutateci a diffondere il messaggio. The Adipositivity Project: cambiare gli atteggiamenti sul valore estetico delle donne grosse, una fica grassa alla volta. “

Le parti originali qui tradotte si trovano su adipositivity.my-expressions.com

Traduzione e adattamento dall’inglese di Serbilla.

Sulle calze antistupro

1013028_10200818236012304_753841265_n

Riportiamo con piacere la segnalazione fattaci da Mina sulla notizia delle “calze antistupro” che, aldilà del fatto che sia vera o meno, alimenta uno degli stereotipi peggiori che riguardano lo stupro: la bellezza. Alcuni anni fa lo stesso Berlusconi disse “servirebbe un militare per ogni bella donna” come se le molestie e gli stupri avvenissero per una questione di estetica.

Leggi tutto “Sulle calze antistupro”

Considerazioni lampo su sessismo e omotransfobia nella musica hip hop

le1f2-682x1024
Vi presento Le1f!

Mi capita con una certa frequenza di sentir parlare dell’hip hop come di un genere musicale particolarmente disastroso dal punto di vista della giustizia sociale, e  mi rendo conto che  indubbiamente scorgere una quantità considerevole di aspiranti rapper che si comportano da carogne non aiuta certo a sfatare questo mito.
In effetti, basta fare una passeggiata digitale sui canali Youtube di alcune ragazze rapper per leggere una marea di insulti sessisti. E nelle battaglie di rap, non è affatto infrequente l’utilizzo di frasi e concetti omofobici e transfobici per sminuire l’avversario, colpendolo dove fa più male a un maschio etero (e non, visto che gli omosessuali misogini non mancano, purtroppo) che non tenta di disertare il patriarcato: nella sua mascolinità.

Mi si permetta però di spezzare una lancia a favore di questo tipo di musica: laccusa monogenere non regge.  Ci sono canzoni e autori (perfino autrici, qualche volta) altrettanto sessisti, misogini e omotransfobici nel rock, nel metal,  nel punk, nell’indie,  nell’elettronica: pressoché ovunque. Tuttavia, nessuno di questi riceve condanne, e anche quando ciò succede, non sono mai così esplicite e feroci come quelle dirette contro l’hip hop. Perché? e perché così tante persone si ricordano dell’esistenza della violenza di genere selettivamente, stigmatizzando (com’è giusto che sia) Chris Brown che picchia Rihanna ma non la violenza domestica di Sean Penn nei confronti di Madonna?

Non è un mistero che questa cultura sia una delle poche ad aver mantenuto una dominanza nera anche sfondando nel mainstream, quando sistematicamente buona parte della cultura black ha subito un’appropriazione da parte bianca e non di rado schernita, umiliata, resa uno scherzo: per fare un semplice esempio, quanti scherzano sullo stereotipo cinematografico della donna nera che gesticola molto? con questi precedenti, possiamo dire che si tratta di razzismo. Sì, proprio razzismo: implicito, ma pur sempre tale.

Esistono assolutamente rapper, nere/i e non solo, che parlano (con continuità e senza) di tematiche affini a quelle lgbtqia e femministe: il punto è che non ricevono alcuna visibilità. C’è addirittura un intero sottogenere a sè stante, che si chiama homo hop, e mi vengono in mente Melange Lavonne, Big Dipper, Mykki Blanco, Katastrophe, Deep Dickollective, Le1f, Yo Majesty, Tori Fixx, Queen Latifah, Immortal Technique. Giusto per nominarne un po’.
Eppure indovina chi è che riceve gli elogi della critica per aver scritto una canzone contro l’omofobia? Macklemore e Ryan Levis. Entrambi maschi, bianchi, etero.

La dinamica che si verifica in questi casi  dovrebbe dar da pensare anche a chi di musica (e di hip hop) frega nulla o relativamente poco, perché è l’espressione palese di come i propri privilegi influiscano negativamente su chi è oppress* anche cercando più o meno di combatterli. Si può essere antisessist* e antirazzist* e attuare inconsapevolmente sessismi e razzismi, e questo è il caso. Come combattere tutto questo? i due avrebbero potuto rifiutare i complimenti e dare spazio mediatico a qualcun* de* rapper queer e nere/i, ma non l’hanno fatto.  Non gliene sto  facendo un peccato capitale, beninteso, ma il primo privilegio che si ha è proprio quello di non accorgersene. E all’occorrenza, quello di negarne l’esistenza.

Dalla razzista alla fascista: questa la scelta del governo italiano contro la violenza di genere

ImmagineNon è trascorso neanche un mese dalla delega come sottosegretario alle Pari Opportunità di Michaela Biancofiore, scelta che ha indignato molte persone dato che, la Biancofiore, era nota per le sue frasi razziste e omofobe. A causa, dunque, di tanto dissenso il governo decide di revocarle la delega e spostarla alla pubblica amministrazione, perché mandarla  a casa pare brutto – in fondo al governo abbiamo interi partiti razzisti, una in più che male può fare?

Dopo neanche 31 giorni il governo, che ha ampiamente dimostrato in tutti questi anni quanto tenga alla lotta contro la violenza sulle donne (valga uno per tutti il taglio ai finanziamenti dei centri antiviolenza), nomina come consigliere per le politiche di contrasto della violenza di genere e del femminicidio Isabella Rauti, persona che, secondo le dichiarazioni di Alfano, sarebbe stata “individuata per l’alta professionalità e per il costante impegno nel settore”.

Ma chi è Isabella Rauti e di quale impegno parla Alfano? Partiamo con le notizie che probabilmente saprete tutt@: la signora è figlia di Pino Rauti, sì quello del MSI, e moglie di Alemanno, sempre sì, l’ex sindaco di Roma (lui perde il posto e la moglie lo trova.. lo so, lo hanno già detto tutt@, ma dovevo sottolineare questa tempistica dato che per noi precar@ non è mai così).  Imbevuta di cultura fascista, capiamo fin da subito come questa nomina sia sbagliata a priori, ma la Rauti ha anche delle qualifiche non da poco.

Innanzitutto è antifemminista. Lo ha dichiarato lei stessa in un’intervista che vi invito a leggere, per capire con chi abbiamo a che fare e quanta ignoranza vi sia in questa donna. Vi dico solo che per lei, uno dei grandi errori del femminismo è stato il voler eliminare i ruoli di genere e cancellare l’identità maschile e femminile. Capito? Tanti anni a discutere sull’origine culturale della violenza di genere, che si basa su quei fottutissimi ruoli di genere, dove per genere si intende un costrutto sociale spacciato per naturale, ed arriva la Rauti a dire che so minchiate e che le ragioni saranno altre. Del resto mica ci educano fin da bambin@ a esser da una parte “maschi che non devono chiedere mai” e dall’altra “angeli del focolare”? Ma Rauti crede fermamente nella biopolitica, tant’è vero che dichiara che sarebbero state loro, le donne antifemministe di destra, a inventare un primo “pensiero della differenza” dove, per chi non lo sapesse, tra le tante cose si incatena la donna al suo ruolo di utero.

Sull’utero delle donne, concordo con Alfano, la Rauti ha un’attenzione quasi maniacale. Ricordiamo, infatti, che è la seconda firmataria della ddl Tarzia nel Lazio con cui si voleva permettere ai pro-life l’ingresso nei consultori, e che era in prima fila alla Marcia per la Vita. Quindi, facendo un primo sunto, la Rauti è fascista, antiabortista e non ritiene i ruoli di genere un problema, anzi, se li rivendica con forza, tanto che per lei la donna DEVE esser utero. Se questo non è sessismo cosa lo è? Se il fascismo non è violenza, violenza anche di genere, cosa lo è? Se una donna che sfila accanto a chi vuole decidere per le altre donne, che vuole obbligare tutte noi ad esser uteri per una patria ed un Dio su cui pisceremmo volentieri sopra, che si è macchiato [chi?] di omicidi come quello di Giorgiana Masi, che alimenta una cultura violenta e sessista ogni giorno, cosa è violento?

Lo abbiamo ripetuto fino alla noia in questi anni, la lotta alla violenza di genere non può che essere antifascista, antirazzista e declinata per classe. Ma la cultura del calderone, che ha dilagato in questi ultimi periodi, ha permesso a tante donne, fasciste e razziste, di ripulirsi la faccia e proporsi come paladine di una lotta contro una violenza che loro stesse, insieme ai loro partiti, hanno alimentato continuamente.

E parlando di calderoni come non ricordare il fatto che la Rauti è stata tra le promotrici del gruppo del One Billion Raising? Ve lo ricordate quell’evento mondiale che in tanti paesi ha generato discorsi seri e molto acuti sulla violenza di genere e in Italia e stato ridotto a qualunquismo e ad un balletto sincronizzato? Si sono fatte tante prove per andare tutte all’unisono, ma il tempo per farsi una domanda su chi promuoveva questo evento in Italia non lo avete trovato? Preciso che non sono contro la forma in sé, ballare piace anche a me che mi muovo malissimo, ma sono i contenuti che mancavano. Le parole qualunquiste , i discorsi nazionalpopolari che parlano di una lotta alla violenza senza mai nominare chi e cosa la genera (Stato, chiesa, cultura, media), non solo non servono a nulla ma sono nocivi perché da un parte consentono a persone come la Rauti di spacciarsi come paladina delle donne, mentre dall’altra affossano il lavoro che molt@ di noi fanno quotidianamente e che punta ad una lotta radicale (o tutt@ saremo liber@ o non lo sarà nessun@).

Alla Rauti quindi vanno queste mie domande:

  • Come intende affrontare la violenza che le leggi razziste operano nei confronti delle migranti? Conosce le condizioni in cui vivono le donne e le trans rinchiuse nei CIE? Sa che in quei lager si violano numerosi diritti umani? E’ consapevole che è una violenza l’esser rinchiuse per non aver commesso nessun reato ma perchè  si è sprovviste di un permesso di soggiorno che lo stato italiano rende in ogni modo impossibile da ottenere? Crede che le donne che scappano da guerre, condanne a morte, padri o famiglie violente, da matrimoni combinati, dalla miseria, debbano ricevere accoglienza e sostegno? Oppure appoggia le leggi che le costringono alla clandestinità e quindi ad ulteriore violenza?
  • Come intende tutelare tutte le donne vittima di lesbofobia? Ritiene giusto che una donna debba essere discriminata per il suo orientamento sessuale? Come si pone rispetto ai matrimoni lesbici? E sulla transfobia? Come crede di contrastare la discriminazione che le persone trans subiscono? Quali azioni crede che si debbano intraprendere per supportare il loro percorso di transizione? Sulla possibilità di adozione da parte di persone trans o lesbiche cosa crede si possa fare?
  • Crede che esista un solo tipo di famiglia? Pensa sia giusto tutelare giuridicamente solo la famiglia considerata “tradizionale”? Sulle coppie di fatto che opinione ha? E sulle coppie che convivono? Sul poliamore e tutte le altre forme di famiglia non convenzionale? Crede che debbano restare discriminate o intende fare qualcosa per cambiare lo status quo?
  • Come intende affrontare il problema della violenza domestica? Crede anche lei, come suo marito, che non sia un problema dei sindaci? Sa che uno dei problemi su cui si fonda tale violenza è la mancanza di autonomia economica da parte delle donne? La precarietà in cui i governi precedenti insieme a quest’ultimo ci hanno destinate impedisce a molte donne di denunciare e quindi abbandonare una situazione violenta, cosa pensa si debba fare? Come pensa di affrontare il problema di classe che dilania il paese e colpisce due volte le donne? Lo sa che la pillola del giorno dopo può venire a costare 45 euro (tra ricetta più pillola) cifra che per alcune di noi, me in primis, è proibitiva?
  • Lo sa che molte donne non vogliono esser madri? Sa che è una violenza imporglielo? Sa che l’unico modo per diminuire gli aborti è informare i/le ragazz@ sul sesso e sulle precauzioni che devono prendere per limitare i rischi di gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili? Sa che gli aborti clandestini esistono ancora? Sa che in alcune regioni l’obiezione di coscienza è così alta da impedire alla legge 194 di essere attuata? Pensa che la disinformazione clericale sulla pillola del giorno dopo, che non è abortiva ma viene spacciata come tale, e sui metodi da usare invece del preservativo (coito interrotto o calcoli di temperatura o giorni) non solo non proteggono dalle malattie ma mettono a rischi le ragazze a maternità indesiderate? Non crede che questa sia violenza perché con la disinformazione si cerca di controllare i corpi e la sessualità altrui esponendo giovani ragazze a rischi che potrebbero benissimo evitare? Non crede che lottare contro la possibilità di aborto sia una violenza contro l’autodeterminazione delle donne? Inoltre, per  chi invece vorrebbe avere dei figl@ ma non può, cosa ne pensa della legge 40? Non crede sia ora di porre fine a questa violenza che ha come obiettivo il controllo del corpo femminile?
  • Lo sa che uno dei problemi del nostro paese è la cultura moralista-cattolica? Cosa risponde a chi divide le donne in sante e puttane? Pensa che una donna debba avere il diritto ad una libera vita sessuale senza che essa sia a scopo riproduttivo? Non crede sia ipocrita una società che tappezza le città e le tv di corpi femminili erotizzati (a scopo eteronormativo) e poi censura tutto ciò che è considerato pornografico (cazzi e fighe messi in mostra)? Non pensa che i corpi delle donne e la loro sessualità siano usati come strumenti per eteronormatizzare la società? Non crede che bisognerebbe liberare i desideri censurati e i corpi dalla strumentalizzazione a cui sono sottoposti? La libertà sessuale per lei è stata raggiunta o c’è ancora tanta strada da fare? Crede che esista un effettivo immaginario fascista di bellezza? E se sì, come intende contrastarlo?
  • Come si pone contro la violenza che le forze dell’ordine e lo stato operano rispetto alle donne? Considera lecite le cariche della polizia rispetto a quei soggetti, quindi anche donne, che decidono di autodeterminarsi? Pensa sia giusto ricevere manganellate in ogni dove, essere insultate con epiteti come “puttana” o “troia” dai tutori dell’ordine, diventare il bersaglio di lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo perché si vuole difendere un diritto, quale esso sia (per una casa, per la salvaguardia di un territorio, per l’aborto libero e gratuito)? Pensa che alle donne servano tutori che le proteggano e che le menino appena disobbediscono al padre-padrone-stato?
  • Reputa fondamentale l’ingresso delle donne in luoghi di potere? Non crede che la cultura del potere sia nociva? Che differenza ci sarebbe tra una donna al potere rispetto ad un uomo? Pensa che il problema delle donne sia la mancanza di potere o l’esistenza del potere? Non sarebbe meglio lavorare sull’autorganizzazione e non alimentare una cultura basata sulla competizione? Pensa che sia un bene per le donne avere l’opportunità di entrare nell’esercito,  nelle forze dell’ordine e perpetuare le violenze che conosciamo tutt@? Pensa che permettere alle donne di divenire corresponsabili delle brutalità che qualunque istituzione autoritaria compie sia da considerarsi un passo in avanti verso l’autodeterminazione della donna?
  • Reputa giusto che le donne facciano del loro corpo ciò che credono? Crede che il lavoro di sex worker vada riconosciuto come tale? Cosa ne pensa delle leggi proibizioniste? E delle norme che in nome di una “maggiore sicurezza” e “decoro” espongono le sex worker a maggiori violenze? Cosa farà per contrastare la tratta? Lo sa che c’è differenza tra tratta e prostituzione autodeterminata?
  • Crede che la conciliazione sia un obbligo della donna? Non pensa che la donna dovrebbe condividere con il proprio compagno, ed entrambi essere supportati a livello della società, rispetto al ruolo di cura che oggi invece le viene completamente scaricato addosso? Non crede sia una vera e propria violenza far basare l’intero sistema di ammortizzatori sociali sul lavoro gratuito delle donne?
  • Reputa fondamentale la presenza nelle scuole della religione cattolica? Crede nel concetto di laicità dello stato? Sa che la Chiesa, da secoli, propone una visione della donna sottomessa all’uomo?  Sa che la religione cattolica è profondamente sessista?
  • In poche parole, crede che la lotta alla violenza di genere vada attuata a suon di leggi e maggiore militarizzazione, oppure con un’operazione di rivoluzione culturale?

La lista può continuare all’infinito, e se volete potete farlo nei commenti e appena posso li aggiungo alla lista. Intanto, penso sia chiaro che considero questa nomina l’ennesima beffa ad una lotta che per me e tante altre persone è fondamentale. Spero che queste scelte vi palesino la necessità di smetterla di chiedere, a chi ci violenta in ogni modo, di trovare modi per contrastare la violenza di genere e iniziare a delegittimare ogni forma di istituzione. Questo governo, fondato su un partito unico, è fascismo e non può, ne mai potrà, debellare la violenza di genere. La dittatura che stiamo vivendo e che si paleserà nella sua brutalità quest’autunno, dato che i segnali sono chiari, non dovrebbe ricevere da nessun@ di noi credibilità né riconoscimenti: chiedereste mai al vostro stupratore di fare qualcosa per smetterla di stuprarvi oppure resistereste con tutte le forze e con ogni mezzo? La risposta la sappiamo tutt@ e, anche se i calderoni di ogni sorta fanno da tappo ad una rabbia che agita diverse generazioni, forse la Turchia non è tanto lontana come sembra. La violenza di genere non può essere affrontata se non in maniera intersezionale, legandola ad altre lotte senza le quali ogni azione sarebbe vana. Non c’è lotta contro la violenza di genere senza antifascismo, antirazzismo e antispecismo e viceversa. Non smetteremo mai di dirlo: la Rivoluzione o è di e per tutt@ o non è rivoluzione!

CORPI REAGENTI – MySlut Walk e qualche considerazione a margine

corpireagenti

Questo weekend segnaliamo, per chi si trova a Torino, un appuntamento imperdibile… anzi due!

A conclusione del progetto ‘What’s Body?’ che il collettivo Sguardi Sui Generis ha portato avanti nel corso dell’anno con diversi incontri, il discorso sul corpo verrà approfondito attraverso due giornate dedicate alla sperimentazione e alla performatività.
CORPI REAGENTI sarà articolato in due giornate:

– SABATO 15 GIUGNO @ csoa ASKATASUNA (corso Regina, 47)
alle ore 15: laboratorio MY SLUTWALK a cura del collettivo femminista Le Ribellule Collettivo Femminista (leribellule.noblogs.org)
…a seguire aperitivo danzante in compagnia de Le Elettrosciocchine!

– DOMENICA 16 GIUGNO @ circolo Maurice (via Stampatori, 10)
alle ore 15: MASCHILITA’ DI CHI? laboratorio di Kinging a cura del Lab. Sguardi Sui Generis
…a seguire merenda queer!

Rimandiamo al post pubblicato da Sguardi Sui Generis per maggiori info sull’argomento.

A prescindere da questa bella iniziativa, alla quale speriamo aderiate numeros*, vorremmo con questo post dare l’avvio ad una riflessione più generale sulla SLUT WALK, sui suoi significati (e contraddizioni) e sulle sue prospettive future.
Abbiamo in proposito tradotto parte di un articolo scritto da Yasmin Nair, che riflette su alcune delle zone d’ombra della Slut Walk: lo abbiamo scelto perché alcune delle questioni sollevate risuonano dei dubbi che a volte ci attanagliano, e perché vorremmo con tutte le nostre forze evitare ciò che la Nair prefigura, quando si chiede:

La Slutwalk rappresenta la fine del femminismo?

‘Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.’

[…] Nel 2011, mentre sfilavo con migliaia di persone radunatesi in una splendida giornata estiva, e mi trovavo in piedi sopra una tribuna improvvisata a declamare un breve discorso, non ho potuto fare a meno di sentirmi eccitata alla prospettiva di assistere a ciò che per me rappresentava il riaffacciarsi, pieno di significati e importanza, del femminismo, un movimento che consideravo agonizzante – per non dire quasi scomparso.

Ho nuovamente tenuto un discorso alla Slut Walk di quest’anno, e mi sono trovata a chiedermi dove fosse finita tutta quell’energia. I travestimenti erano sempre quelli, così come i cartelli, provocatori e spesso molto divertenti, anche se le persone presenti erano molte meno. Nell’osservare la folla per la seconda volta, mi sono chiesta perché così poco fosse cambiato, e se questa volta, la Slutwalk rappresentasse non l’inizio ma la fine del femminismo.

La Slutwalk è nata a causa di un poliziotto di Toronto, il quale disse che “le donne dovrebbero evitare di vestirsi come puttane, se non vogliono diventare vittime”. Queste parole sarebbero state già gravi di per sé, ma il venir proferite durante un forum di prevenzione della criminalità fu molto peggio, perché implicava che le donne che si vestono in un certo modo meritano quello che capita loro. Tali parole ebbero l’effetto di provocare innumerevoli discussioni, e le donne marciarono in massa per rivendicare e decostruire il termine “puttana.”
La popolarità della Slutwalk, lo scorso anno, ha portato alcun* ad asserire che essa rappresenti il futuro del femminismo.

[…] “Femminista” non è un’etichetta che mi piaccia utilizzare. Mi sono trovata spesso in disaccordo con quello che solitamente viene definito femminismo, soprattutto negli Stati Uniti, dove il termine è purtroppo associato a quelle donne bianche privilegiate i cui interessi sono principalmente il controllo delle nascite e il diritto d’aborto, e oltre a questo poco altro. In realtà, anche il linguaggio dei diritti, nella sua problematicità insita nel privilegiare il singolo soggetto invece di compiere un’analisi sistemica dei rapporti di potere, è stato soppresso dalle femministe americane tradizionali. […] Nonostante tutte questi aspetti problematici, e il fatto che io spesso rabbrividisca quando mi viene chiesto se sono una femminista, di solito rispondo di sì, perché penso ancora che questo termine, così come la parola “queer”, abbia una qualche potenzialità – forse non di rottura, ma che in ogni caso detenga in sé ancora una qualche promessa spettrale o minaccia di cambiamento.

La prima Slutwalk dunque, ha rappresentato la piattaforma necessaria per discutere pubblicamente – e ricominciare a combattere – il sessismo e la misoginia profonda che pervade la nostra vita pubblica e privata, anche nei mondi apparentemente più illuminati della sinistra.

Nei mesi successivi, la Slutwalk è stata sia lodata che criticata. I/le critic* hanno sottolineato che rivendicare la parola “puttana” è problematico, in quanto il termine è spesso usato per sminuire e infantilizzare le donne di colore. Trovo la critica in sé offensiva, poiché presuppone che le donne di colore siano impotenti e passive, per sempre intrappolate nel ruolo delle vittime. E’ anche un argomento essenzialista, che dà per scontato che tutte le donne di colore abbiano le stesse opinioni. Mi sento di affermare inoltre che il privilegio, come ad esempio il privilegio di definirsi una puttana, non è un’esclusiva delle persone bianche; troppa cultura di sinistra sostiene erroneamente che le comunità di colore non vogliano o non possano riprodurre dinamiche di privilegio o non siano in qualche modo influenzate dal capitalismo/neoliberismo.

[…] Molte delle discussioni emerse nell’ambito della Slutwalk sono centrate su narrazioni fortemente personali, che ignorano i modi in cui il femminismo si sia storicamente impegnato a resistere anche contro gli squilibri strutturali, quali la politica ed economia dell’ineguaglianza. Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.

La richiesta delle persone di non essere molestate – o peggio – in virtù di come si vestono non è per nulla una questione insignificante: ma rivendicare la parola “puttana” deve essere solo l’inizio. Esiste una forma particolarmente insulsa di attivismo che ha invaso il mondo della sinistra progressista, dove persone di colore e  altri gruppi oppressi diventano narratrici/tori di un “racconto”. Questa pratica funziona come i cerchi di tamburi, un lamento infinito dei propri guai personali che ignora le componenti strutturali del capitalismo, e consente la realizzazione di un neoliberismo più feroce e più potente, che sfrutta l’ambito del personale per cancellare in noi la consapevolezza della distruzione delle nostre risorse sociali, politiche ed economiche.

Se il femminismo vuole rimanere sostanziale, deve dunque conservare il proprio carattere di rottura, non perderlo, e deve continuare a mettere in discussione anche ciò che esiste oltre al personale.

Mujeres Libres: S-corporati dalla norma!

adesivo

Dalle meravigliose Mujeres Libres di Bologna rilanciamo la loro campagna: Schifosa pubblicità sessista!

Buona lettura!

<<<—–>>>

Circa un anno fa ci siamo ritrovate ad affrontare, nel nostro percorso di autocoscienza, il tema dei corpi e dei modelli di donna che ci vengono quotidianamente riproposti dalle pubblicità e dai mass media.

Ci siamo ritrovate a raccontarci i nostri corpi, a chiederci cosa ci piace e cosa non ci piace di loro, a mettere in luce quanto il nostro giudizio sia assoggettato ai modelli di bellezza femminile che esaltano unicamente corpi magri, aggraziati, glabri, profumati, abbronzati e con le forme giuste al posto giusto. Da qui è scaturita la volontà di analizzare uno tra gli strumenti principali attraverso i quali vengono veicolati questi modelli: la pubblicità. Perciò è nata l’idea di lanciare la campagna “Schifosa pubblicità sessista” che incita tutt* ad attaccare un adesivo di denuncia sopra tutte le pubblicità sessiste che ci circondano per le strade (tutte le info le trovate qui ). Leggi tutto “Mujeres Libres: S-corporati dalla norma!”

Di violenza di genere e media. Basta indignazione, incominciamo con la rabbia!

violenza-donne-nuovo_page_4

Femminicidi. Così li chiamano i giornali quando non sono omicidi passionali.
Avrei potuto inserire qui il nome di una vittima e scrivere un lungo piagnisteo ricco di morbosità sulla vita della lei di turno. Perché per saziare la voglia di morbosità di chi apre il giornale per sbraitare e chiedere repressioni a casaccio, è importantissimo parlare degli hobbies, dei calzini, delle gonne e delle relazioni di quella lì. E invece no, perché a me non interessa stuzzicare le più basse voglie narrative dell’italiano medio.

Un sacco di persone vedono la stampa come qualcosa di più o meno neutrale, o perlomeno non prettamente politico, ma così non è. La stampa ha la precisa funzione politica di fornire pornografia emotiva di massa. Non mi aspetto che si forniscano grandi analisi sul tema della violenza di genere: non l’otterrò mai e se anche l’ottenessi, sarebbe inevitabilmente sbagliata, perché i complici di una lunga serie di nefandezze non confessano, e se lo fanno, sono pentiti; non innocenti. Cosa ci si può aspettare di buono da chi piazza la vittima nel corteo funebre mediatico dei fatti di cronaca? Già trattarlo come un fatto casuale e non come questione politica nasconde una visione dei fatti ben precisa. Per non parlare del fatto che probabilmente quello stesso giornale annovera nella sua sezione scientifica mille pseudoricerche neurosessiste atte a giustificare ruoli di genere, nonché banner pubblicitari che strabordano maschilismo da ogni pixel.

Il padre lacrimante dice: non volevo che frequentasse quel tipo lì. Smania di controllo, ma molti la leggeranno come premurosità genitoriale e come tentativo di garantire sicurezza alla vittima – sì, ma a che prezzo, aggiungo io. Del fidanzato mi dicono che è geloso da morire. Che non le concedeva nessun tipo di libertà, che la picchiava a sangue. Quella doveva chiedere il permesso perfino per un gelato. Per avere un profilo facebook. E tutti sanno, proprio tutti. Ma nessuno s’è degnato di far qualcosa. Padri, padroni, padreterni: mi rintontiscono col paparino possessivo che piange, col moroso possessivo che però in fondo è un ragazzino, oppure è giustificato perché quella era una poco di buono e anche se non lo era sticazzi: le giustificazioni si sprecano. Ecco il prete che benedice quella povera donna uccisa, perché la violenza sulle donne dev’essere una sorta di piaga divina per non si sa cosa. E poi frotte di poliziotti, a difesa delle italiche femmine, gli stessi che stuprano le migranti nei CIE. Chissà che sicurezza possono offrire dei soggetti simili.

E io sono incazzato. Non indignato: gli indignati sono quelli che dopo la chiusura del browser o la cestinazione del quotidiano vivono un tabula rasa che consente loro di vivere più o meno serenamente e sbattersene. In fondo riguarda loro? No. E si sentono giustificati nell’ignorare. Salvo poi riaprire il browser/quotidiano. Indignarsi. E ovviamente lasciar stare tutto quanto di nuovo.
Gli indignati sono quelli che non ti guardano nemmeno se ti stanno spaccando la faccia, ma che hanno sempre le energie per richiedere forche a gran voce.
C’è chi li chiama femminicidi, per poter dare adito a politiche emergenziali e securitarie in nome di un termine che racchiude soltanto donne bianche, cisgender, quelle che non sono lavoratrici sessuali e quelle dalle vite più o meno regolari e racchiudibili nel modello dell’angioletto del focolare inoffensivo, della schiava uccisa per sbaglio (e i vari padroni s’arrabbiano, certo. Per spreco).
C’è chi toglie i fondi ai centri antiviolenza e toglie reddito alle donne, per poi meravigliarsi del fatto che queste non riescano a ottenere indipendenza per scappare dall’aguzzino-del-mulino-bianco.
C’è chi ne fa una battaglia politica propria. Col sangue altrui sulle mani.
C’è chi nega l’esistenza stessa di una violenza di genere.
C’è chi semplicemente non si pone il problema.
E poi c’è chi si incazza. Si prende le denunce. Fa le slutwalk e protesta per tutte, ma proprie tutte, senza esclusioni.
Non chiede permesso proprio a nessuno, non mendica e lotta. Ma quella gente si incazza.
Mica si indigna.

Le donne abortiscono perché restano incinte.

NUL118364

“Il concepimento dunque è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà d’aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna.”

“Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile, che fa del concepimento un problema di chi possiede l’utero e non di chi DETIENE LA CULTURA DEL PENE”. (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta Femminile)

E’ di ieri questo articolo e questa intervista

La legge 194 – più o meno mia coetanea – da quando è diventata realtà è sempre stata sotto attacco dei catto-fascisti-ipocriti, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare a quel potere incontestato che sentono di avere avuto, per millenni, sul corpo delle donne.

Il diritto ad un aborto libero, sicuro e garantito è un diritto fondamentale per tutte le donne, che va difeso senza se e senza ma. Eppure la questione non può fermarsi qui: “Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, ed a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo, cioè ricostruire tutto quello che è legato sostanzialmente all’aborto, perché se noi tagliamo fuori solo questa cosa rischiamo di dare solo una risposta parziale che si rivolta magari contro di noi o comunque non è una soluzione per noi, è un’altra ripiegatura che ci fanno fare per sanare quelle contraddizioni più evidenti.” (“Sottosopra”, fascicolo speciale Sessualità contraccezione maternità aborto, Milano 1975)

Lo scritto è di 40 anni fa, siamo ancora a questo punto, pare.

Sono femminista, ed a mio modo detesto l’aborto, perché è una pratica medica con una sua dose di rischio agita sul corpo delle donne, che sarebbe non necessaria nel 99% dei casi, ad esempio se l’accesso alla contraccezione e l’educazione ad una sessualità libera, gioiosa, consenziente e multiforme fosse all’ordine del giorno.

L’aborto non è sicuramente una passeggiata per chi lo vive sulla propria pelle – non parliamo poi dei casi in cui è attuato in clandestinità, o anche solo nella segretezza, a fronte dello stigma sociale che sovente inevitabilmente ne deriva. Ma è un’irrinunciabile opportunità in extremis, quando ci si trova a vivere all’interno di una cultura che dimostra, in maniera più o meno celata, il suo odio per le donne, che le usa come oggetti (sessuali, procreativi, di cura), le usa e le butta via senza ritegno alcuno – con la benedizione della chiesa tutta, naturalmente, che santifica la vergine sofferente, che si fa oggetto e veicolo di compimento di un altro soggetto (maschio).

Quante vite di donne sono state spezzate dal pugno di ferro del patriarcato! L’aborto è figlio della sessuofobia, è figlio dell’ignoranza, è figlio – anche – del welfare inesistente. Ma è tanto odioso quanto necessario, grazie a tutti coloro che condannano i contraccettivi di fronte agli altri (e poi magari, li usano pure), che non parlano di sesso con gli adolescenti  – consapevoli che tanto lo faranno lo stesso, e con esiti a volte disastrosi – che li abituano alla menzogna, alla vergogna del proprio corpo, al senso di colpa per la propria sessualità.

A tutti quei parassiti della gioia di essere viv* (che per quante volte si confessino, avranno sempre l’animo putrido) dico: l’aborto non cesserà mai, grazie a voi! Del resto, di fronte a persone del genere, l’aborto diventa una benedizione… l’avessero messo in atto le vostre madri, che liberazione!

Tempo fa, avevo tradotto e pubblicato su Femminismo a sud questo video: https://vimeo.com/37850266
Queste storie terribili non possono e non devono ripetersi.

Le donne abortiscono perché restano incinte, e forse, oltre a reclamare a gran voce il sacrosanto diritto all’aborto e all’uso degli anticoncezionali (a proposito, a quando quelli maschili?) dovremmo spingerci su altre vie, ancora tutte da scoprire, per agire il nostro piacere in modo disgiunto da quell’atto eterosessuale normato e normativo, nel quale uno degli attori è spesso un uomo che svuota le gonadi all’interno del corpo di una donna, fregandosene delle conseguenze (e nel caso ne risulti una gravidanza, impedendole di prendere decisioni sul proprio corpo che solo a lei spetterebbero).

“Proviamo a pensare a una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalla donna: essa si manifesterà come sviluppo di una sessualità non specificatamente procreativa, ma POLIMORFA, e cioè sganciata dalla finalizzazione vaginale.” (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta femminile)

“La donna non è la Grande Madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione.” (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel: La Donna Citoridea e la Donna Vaginale)

Rivendichiamo nuovi modi di godere!

Piselli, patate e altri ortaggi: brevissima guida alla sessualità trans*

il_fullxfull.334859494

Intanto, mi presento: scrivo quanto segue per chiarire le idee su argomenti molto poco discussi, in particolare in un paese dove di transessualità, transgenderismo, genderqueer e compagnia bella non si parla praticamente mai. e Questo intende essere il primo di tanti altri scritti, ognuno su tematiche e stereotipi relativi al mondo trans*.

Si dà per scontato che ad un genere corrisponda un determinato set di caratteristiche perché abbiamo una cultura fortemente binaria: non vediamo oltre l’Adamo macho virile cazzomunito ed Eva femmina fertile vaginadotata. Per questo, di fronte all’ipotesi di avere una relazione con una persona trans* o esserne attratt@, solitamente vengono sfoderate delle risposte del tutto assurde, inerenti soprattutto la mancanza dei genitali solitamente collegati alle persone del genere che attrae l’interlocutore. Queste non sono altro che frutto di pregiudizi, sì, ma quali?

La prima grossa supposizione è che tutte le persone trans* abbiano delle determinate caratteristiche comuni, fatta eccezione per la disforia. Esistono persone trans* che prendono ormoni e quelle che non; quelle che si operano e chi sta bene così com’è, persone alte, basse, magre, grasse, glabre, pelose, etero, gay, bisessuali, pansessuali, asessuali, sessuali, monogam*, poliamoros*, sadomasochist*, vanilla, binari@ e genderqueer, con più generi, senza generi, con corpi diversi e transizioni diverse: sono tutt@ divers@, esattamente come il resto del pianeta. Bisognerebbe farsene una ragione.

La seconda grossa supposizione è che l’avere un determinato set di caratteristiche legate al sesso di nascita significhi automaticamente “utilizzarle” nella stessa maniera in cui lo si farebbe se si fosse stati cisgender. Una persona trans* potrebbe  volere che le persone si rapportino ai suoi genitali con dei nomi e approcci differenti da quelli che pensavate, avere dei limiti che non vogliono oltrepassare o non averne affatto. Inoltre, la genitalità di una persona trans* può e spesso è diversa da quella di una persona cisgender, in particolar modo se si sottopone a ormoni/chirurgia/eccetera. Mai dare niente per scontato, dialogare è indispensabile a capire come agire.

La terza grossa supposizione è che essere attratt* da una persona trans* comporti automaticamente l’attrazione per il suo sesso genetico. Peccato che ciò non tenga in considerazione un uso, appunto, alternativo dei genitali discordanti che si hanno oppure la presenza di nuovi genitali. Prendiamo ad esempio il famoso stereotipo per cui chi va con una prostituta transessuale non operata è segretamente omosessuale, oppure ha in sè una qualche componente di fluidità sessuale e bisessualità. Si sottintende in questo stereotipo che quella donna sia un uomo (grazie car*, ma di transfobia ne abbiamo abbastanza). Direste lo stesso di un tale che si fa penetrare con qualcosa di diverso da un pene dalla fidanzata ma rifugge totalmente gli uomini, oppure una ragazza cisgender che si masturba? il piacere meccanicamente ottenuto da parti del proprio corpo non è intrinsecamente connesso all’orientamento sessuale: la clitoride non sta mica a guardare chi ci gioca, la prostata non fa differenze fra pelle e silicone.  Ad ogni modo, se c’è chi crede seriamente che un uomo gay che si fa penetrare da un ftm stia sperimentando l’amore per la vulva solo in virtù del fatto che il suo partner con la vulva c’è nato, deve essere davvero imbecille. E per contrastare ciò, credetemi,  non c’è acculturamento che tenga.

Per approfondimenti, consiglio assolutamente la lettura di questo opuscolo.

 

Una risposta alla Boldrini

Sono giorni che rimugino sulla visita della Boldrini a Nisida e penso alle sue dichiarazioni. Non so come si possa essere così miopi, se lo si è davvero o si finge di esserlo, ma cercherò di dirvi cosa penso di quanto accaduto.

Innanzitutto mi chiedo come si possa definire un carcere ‘un’isola felice’. Cosa c’è di felice nelle sbarre? Nell’essere puniti senza avere una reale possibilità di cambiamento? Nell’essere limitati nelle proprie azioni e negli spazi? Chissà cos’è per la Boldrini la felicità. Per me è solo una cosa, assenza del carcere. Forse per
lei quell’isoletta artificiale, creata per rinchiudervi delle persone per anni, senza prospettive né futuro, è un po’ come l’isola che non c’è, con i laboratori di ceramica e cucina che sanno tanto di ricreazione, momento ludico per eccellenza.

Quanta faccia tosta si può avere per affermare una cosa simile? Ha fatto bene un ragazzo a risponderle che non era così, che c’era un sovraffollamento allucinante, 4 o 5 persone per cella, che in un reparto manca anche l’acqua calda e che lo stesso accadeva a Poggioreale. La situazione delle carceri italiane penso sia nota a tutt@. Ma, nonostante tutto, secondo quanto riportato, in queste gabbie si insegna la “fiducia nelle istituzioni”. Mai espressione fu più assurda. Come si può avere fiducia in strutture che hanno generato un sistema che sa solo punire, reprimere, soffocare ogni gesto di libertà? Come si può avere fiducia in un sistema che si basa su una divisione in classi che genera e genererà sempre violenza? Come si può rispettare chi ti chiede di sottostare ad un potere? Chi ti condanna alla sudditanza senza fine?

Leggi tutto “Una risposta alla Boldrini”