Come realizzare un Porno Femminista

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Qui l’articolo originale in inglese. Traduzione di feminoska, revisione di H2O.
Bando alle ciance, buona lettura!

Come realizzare un porno femminista (di Reina Gattuso)

“Voglio ribaltare il dialogo culturale sul sesso e sulla sessualità”, afferma Tristan Taormino. Si definisce una pornografa femminista e col suo lavoro intende comunicare la propria visione femminista in una sfera particolarmente controversa di rappresentazione: quella della pornografia.
In una cultura satura di rappresentazioni di donne rese oggetti – rappresentazioni che troppo spesso normalizzano e perpetuano la violenza di genere – alcun* attivist* si stanno riappropriando delle telecamere. Il loro lavoro, sempre più spesso definito come ‘pornografia femminista,’ mira a sfidare le concezioni dominanti di sessualità e potere, reclamando il porno come mezzo di espressione femminista.

Taormino ha cominciato a realizzare porno nel 1999, anno nel quale ha co-diretto un adattamento cinematografico del suo libro, The Ultimate Guide to Anal Sex for Women. Scrittrice, docente universitaria e educatrice sessuale, Taormino inizialmente non pensava che la produzione di pornografia sarebbe diventata un motivo centrale della propria carriera ma, rendendosi conto del profondo potenziale del suo lavoro, ha ben presto iniziato a dedicarsi sul serio alla regia. “Voglio sfidare la nostra concezione di cosa sia il sesso, quello che si ritiene il sesso tra virgolette ‘normale'”, afferma Taormino. Dal debutto di regist* e interpreti come Candida Royalle, Nina Hartley e Annie Sprinkle, la pornografia femminista non ha lasciato indifferente l’universo dell’intrattenimento per adulti; a partire dal 2006, questo genere ha persino una cerimonia di premiazione annuale.

“Non usiamo la parola femminista per indicare un certo tipo di sessualità, in sostanza, né film che hanno solo una trama complessa o non includono scene bizzarre”, afferma Lorena Hewitt, Direttore Artistico del Feminist Porn Awards. “Vogliamo davvero riconoscere le differenze esistenti tra le donne, i loro diversi desideri, l’esistenza dell’intersezionalità.” Taormino è d’accordo. “Non credo che esista il sesso femminista,” dice. Discutendo del proprio lavoro, resiste infatti all’idea che certi atti sessuali siano intrinsecamente liberatori o degradanti. Invece, riguardo al porno femminista, afferma che “è il porno prodotto eticamente, che sfida le raffigurazioni convenzionali e stereotipate di genere, sesso, razza, classe, abilità e di altre raffigurazioni identitarie, e dialoga sia con coloro che lo realizzano che con coloro che lo guardano.” Per Taormino e altre femministe impegnate nella realizzazione e nello studio della pornografia, i contenuti sessualmente espliciti offrono l’opportunità di affrontare criticamente il rapporto tra identità e di azione. Sovvertendo e diversificando le rappresentazioni spesso stereotipate della sessualità osservabile solitamente nei media mainstream, le pornografe femministe invitano quel pubblico emarginato per tradizione a connettersi con il sesso come mezzo di piacere e di potere. Queste raffigurazioni esplicite, fondate su una conoscenza della pornografia sia come industria che come forma culturale, mettono gli spettatori nella condizione mentale di impossessarsene/appropriarsene mentre ne traggono un piacere sessuale.

1. Cose da non fare

D. Che diresti alle femministe anti-porno?
R. Direi che ne dovrebbero guardare un po’. -Lorraine Hewitt

“Sono sopravvissuta alle guerre del sesso”, dice Annie Sprinkle.
Leggendaria performer per adulti e prostituta, ecosessuale autodichiarata, artista di performance e prima pornostar a ottenere un dottorato di ricerca, Sprinkle ha trascorso gran parte degli anni Ottanta in prima linea nei contenziosi dibattiti sulla pornografia femminista. A partire dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, le guerre del sesso hanno polarizzato le femministe della seconda ondata lungo le direttrici contrapposte “anti-porno” e “pro-sex”. Femministe iconiche come Andrea Dworkin sostenevano che la pornografia e le pratiche sessuali come il BDSM fossero basate sulla dominazione dello spettatore o del partecipante maschio, e quindi intrinsecamente ostili alle donne. Le femministe pro-sex, d’altra parte, erano convinte che stigmatizzare quelle che venivano considerate perversioni e sopprimere la pornografia avrebbe significato incoraggiare la repressione della sessualità femminile e dell’espressione sessuale. Lo scrittore, attivista e professore di giornalismo presso l’Università del Texas a Austin, Robert Jensen, autore di Getting Off: Pornography and the end of masculinity, è spesso citato come famoso femminista anti-porno contemporaneo. Quando si racconta la storia della crociata anti-porno, Jensen sottolinea le radici del movimento.

“È importante riconoscere che la critica femminista della pornografia è emersa dal movimento anti-violenza e che la critica della pornografia rappresentava solo un aspetto della critica a una cultura che forniva un sistema di supporto culturale per tale violenza”. Jensen ritiene che questo supporto culturale dipenda dalla fusione della mascolinità con la dominazione e della sessualità con la violenza. La pornografia, sostiene Jensen, che si rivolge principalmente ad un pubblico maschile, rafforza e perpetua questa ideologia dipingendo le donne come oggetti sessuali creati per il piacere e il controllo maschile. Per gli attivisti anti-porno come Jensen, l’associazione tra lavoro sessuale e violenza si estende al modo in cui gli/le interpreti vengono trattat* quando non sono in scena, portando a quella che definisce una “industria dello sfruttamento sessuale.” “Questo non significa che ogni donna che appare in un film pornografico sia sfruttata “, dice Jensen. “Ovviamente, ci sono molte differenze a seconda del livello nel quale ogni donna lavora … ma stiamo parlando di migliaia di donne. E credo [che in base a] i dati sulle loro esperienze, anche se non sono uniformi, si possa parlare di tendenze precise. ” Jensen sostiene inoltre che molte interpreti femminili siano particolarmente vulnerabili a pratiche di sfruttamento del lavoro a causa della loro mancanza di alternative. “Quando entrano ad Harvard, pensando al proprio futuro professionale, quante giovani donne pensano seriamente al porno, alla prostituzione o allo spogliarello come a una professione per la vita?” domanda, spostando l’attenzione sulle situazioni avverse che motivano alcune donne a intraprendere una carriera nel porno.

Sprinkle si arrabbia all’insinuazione che nella sua decisione di lavorare nell’industria del porno vi sia stata una scarsa possibilità di scelta consapevole. “Ho avuto un sacco di possibilità – avrei potuto scegliere e fare ogni genere di cose – ma ho scelto quel lavoro”, afferma. Anche se molte femministe coinvolte nella pornografia riconoscono che lo stigma sociale e l’oppressione possono avere come conseguenza condizioni di lavoro poco sicure, sostengono altresì che la risposta a questo problema non è quello di vietare il lavoro sessuale, ma di legalizzarlo e regolamentarlo. “L’idea che non ci possa essere una scelta consapevole significa anche che non ci possano essere diritti, che non ci possano essere ambienti di lavoro sicuri, che le persone non possano avere voce in capitolo rispetto a quello che fanno”, sostiene Taormino. “Per me sostenere le persone che lavorano nel sesso e cercare di cambiare l’ambiente dall’interno è un atto incredibilmente femminista.” Quando si parla di pornografia, tuttavia, Jensen non crede a chi sostiene il cambiamento dal di dentro. “Perché supponiamo di avere sempre bisogno di nuovi contenuti? Perché come cultura sentiamo il dovere di avere immagini sempre più esplicite sessualmente, indipendentemente dalla natura ideologica, siano esse patriarcali o femministe? ” domanda. E continua: “Quando la cosiddetta soluzione a un problema comincia a sembrare molto simile al prodotto della cultura dominante, allora inizio a nutrire molti dubbi rispetto agli effetti che avrà.”

2. Rappresentazione

Quando Hollywood riscrive e rimodella le nostre esperienze, e le scuole ignorano le nostre storie e la nostra educazione sessuale, la pornografia queer è uno dei pochi mezzi capaci di raccontare in maniera esplicita le nostre storie. –Jiz Lee, Femminista, Performer Porno (da The Feminist Porn Book)

Le pornografe femministe sostengono che i contenuti sessualmente espliciti che loro stesse producono, rendono loro possibile la rappresentazione di se stesse e del proprio corpo in un settore – e una cultura – saturi di un immaginario alienante. “In generale, credo che l’auto-rappresentazione sia fondamentale per le comunità o che le tue storie vengano affidate a coloro che sono essenzialmente ai margini”, afferma Shine Louise Houston, pornografa. “In un certo senso è così che ci si rimpossessa del potere delle narrazioni visive.” Una femminista queer nera, Houston è spesso acclamata come una delle registe e produttrici il cui lavoro, tra cui la pluripremiata serie “Crash Pad”, ha in sé il potenziale di trasformare un’industria vietata ai minori e dominata dai desideri dei maschi bianchi etero. Anche Sinnamon Love, che si autodefinisce una performer nera femminista e regista, usa il proprio lavoro per combattere gli stereotipi sessuali e razziali spesso presenti nella pornografia. Questi stereotipi variano, sostiene, da rappresentazioni “ghettizzate” dei neri a “immagini assimilative di donne nere”, che delineano un mercato che privilegia le donne di pelle chiara dai corpi sottili e dalle “fattezze europee.” “Produttori e registi giocano con questi stereotipi per attirare i propri acquirenti “, afferma Love, notando che i produttori spesso adattano i propri prodotti pensando agli uomini bianchi visto che rispetto ai neri sono più propensi ad acquistare film porno invece che che affittarli. “È una cosa della quale, personalmente, a questa età e in questa fase della mia vita, io non voglio essere parte”.

Come Love, che si sforza di realizzare un‘immagine più fedele delle donne nere nella sua pornografia, Dylan Ryan, una performer queer, trova importante produrre contenuti sessuali che siano inclusivi della sua comunità. “Stavo cercando di creare un senso autentico del mio … senso della sessualità, della mia intenzionalità , della mia disinvoltura sessuale e della mia raffigurazione fisica,” dice. “Avevo visto molti lavori inautentici rispetto a me e alle mie esperienze, quindi mi sono sentita davvero ispirata nel mostrarmi e nel rappresentare la mia esperienza.” E quando gli interpreti si sentono fedelmente rappresentati, il pubblico risponde. “Siamo diventat* una sorta di modello per le persone giovani che si interrogano circa il proprio orientamento o la propria identità di genere”, dice l’attrice femminista Jiz Lee, che si identifica come genderqueer. “Siamo qui perché non ci sono altre voci nei media mainstream.”
Tuttavia, gli attivisti di entrambe le posizioni sottolineano che il porno fatto da registe donne non risulta automaticamente femminista. “Alcune donne hanno realizzato porno davvero misogini” afferma Sprinkle. “Il porno femminista può essere fatto da chiunque, non per forza da una donna.”

3. Metti in discussione il potere, dai dignità al lavoro

Il porno femminista è un genere che è anche un movimento sociale, che sta tentando di prendere un tipo di film e metterlo assieme alla politica in questo modo davvero importante e complicato. -Dylan Ryan

Tema comune di molti film porno femministi è il riconoscimento e la negoziazione del consenso reso visibile, attraverso la collaborazione tra interpreti e registi in merito ai contenuti dei film. Nei propri film, Taormino include interviste in stile confessionale agli interpreti, allo scopo di fornire agli spettatori un’idea dei desideri e delle discussioni che hanno avuto luogo con i performer. Questa tattica, dice Taormino, “afferma il consenso in modo davvero molto esplicito e stabilisce anche il livello di proattività sessuale degli/lle interpreti nella scena”, cosa che permette agli spettatori di “lasciarsi andare alla fantasia” in modo rilassato. Secondo Taormino, la trattativa riportata sulla pellicola diventa particolarmente importante per quelle scene che raffigurano fantasie palesemente basate su dinamiche di potere, come quelle BDSM, o altre pratiche sessuali storicamente controverse. “Dominazione maschile e sottomissione femminile di per sé non sono automaticamente misogine o anti-femministe, specialmente se le persone coinvolte sono consenzienti rispetto a quello che stanno facendo”, sostiene. Le femministe anti-porno, tuttavia, sostengono che il consenso del/della interprete non obliterano i potenziali effetti psicologici legati alla visione di contenuti sessualmente aggressivi. “Non credo che sia sano a livello sociale presentare il sesso come costantemente legato al binomio dominazione-subordinazione”, dice Jensen. Anche quando una scena pornografica è “girata con persone che la hanno compresa, concordata e vi hanno acconsentito,” continua Jensen: “Qual è l’effetto del continuo rinforzo della fusione tra sesso e dominio?” Eppure per Taormino, rispettare la volontà delle proprie interpreti significa privilegiare il loro benessere e desideri al di là delle sue convinzioni personali di ciò che comportano quei desideri. “Trovo piuttosto prevaricatorio chiedere a qualcun* di far valere la propria opinione e i propri desideri per poi negarli o trovarli in qualche modo inadeguati, perché la mia idea è differente o perché ho una diversa nozione preconcetta su come le cose dovrebbero avvenire”, afferma.

4. Azione / Attivismo

“Il lavoro è sempre stata una questione femminista. Il lavoro sessuale è una questione femminista. È davvero tempo di dare seguito a tali [ideali ] nell’ambito della pornografia, che è una forma di lavoro sessuale.”
-Tristan Taormino
“La nostra cultura svaluta il lavoro sessuale e il sesso”, sostiene Taormino. “Denigriamo e stigmatizziamo le persone che fanno porno e contemporaneamente consumiamo voracemente il prodotto che deriva da tale lavoro.” In risposta a ciò che molti percepiscono come un atteggiamento disinvolto dell’industria del porno in merito alle condizioni di lavoro, diverse femministe impegnate nella pornografia sono diventate convinte attiviste a sostegno dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso. Sprinkle, che è attiva nel movimento dal 1974, osserva che i molteplici problemi affrontati dalle prostitute sono spesso il risultato degli sforzi compiuti per far rispettare leggi che criminalizzano la prostituzione. “C’è una guerra in corso sulle puttane, da lungo tempo”, dice Sprinkle. “Donne che non possono rivolgersi alla polizia per denunciare di essere state stuprate o derubate mentre si dedicavano al lavoro sessuale, perché hanno paura di essere arrestate.” Ryan, che sostiene la causa delle prostitute come assistente sociale, nota che lo stigma contro i/le sex worker esiste anche tra le persone che lavorano nel porno. Afferma di non essere sorpresa di vedere spesso in gioco differenze di classe, in grado di riaffermare una “gerarchia all’interno del lavoro sessuale.” “Quando parlo del valore del lavoro sessuale di strada, come di qualcosa che dovrebbe essere … socialmente sostenuto e reso più sicuro, penso sia quello il momento in cui mi caccio maggiormente nei guai – a causa di tutt* quell* che si dedicano al porno e insorgono dicendo che “beh, io non sono un/a prostituta”. Per Ryan, questa mancanza di solidarietà è a dir poco miope. “Una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso”. “Criminalizzare uno degli aspetti nel quale viene praticato tale lavoro in ultima analisi avrà delle conseguenze a cascata su tutti gli altri, in termini di come vengono percepite, sulle condizioni di lavoro, sui diritti e le possibilità disponibili per le donne che ci lavorano, cose così.” Ryan afferma che a livello personale, la sua identità di attrice porno che ha scelto e ama il suo lavoro le permette di abbattere alcuni stereotipi negativi sulle sex worker. “È sempre emozionante e divertente parlare con qualcuno, una persona impegnata nel sociale e raccontarle del lavoro sessuale, o accennare qualcosa al riguardo durante una conversazione”, dice. “È tutta una questione di scardinare gli stereotipi.”

5. Critica

La mia tattica è sovvertire dall’interno. Sii il cambiamento. -Shine Louise Houston

Mentre il porno femminista ha senza dubbio tante definizioni quanti sono i suoi spettatori, un principio guida che si può utilizzare per delineare il genere è la convinzione che la rappresentazione esplicita della sessualità abbia la capacità di interrogare in modo critico la cultura riguardante genere, potere e identità e, in ultima analisi, di cambiarla.
Considerata la storica controversia dell’impegno femminista verso la pornografia, la designazione di un approccio specifico al porno che si possa intendere “femminista” è qualcosa che molt* ancora mettono in discussione. Eppure è innegabile l’empowerment di coloro che sono stat* storicamente oggetto di uno sguardo sessualizzato – donne, queer, persone di colore – nel momento in cui diventano protagoniste del proprio desiderio. In una cultura inondata di contenuti che travisano più di quanto non divulghino, non c’è forse mezzo più appropriato dello schermo per mettere in atto questo intervento. Per molte delle femministe che si cimentano con il genere, la politica della pornografia riguarda molto più che la semplice realizzazione di immagini nelle quali gli spettatori possano identificarsi. Piuttosto, la pornografia femminista rappresenta un quadro di riferimento utile a concettualizzare l’identità, il potere e il desiderio, una lente attraverso la quale interrogare e criticare una cultura. Taormino, per esempio, è convinta del potere trasformativo della pornografia. Come scrive in The Feminist Porn book, un’antologia che ha co-curato sul genere, il porno può avere un ruolo molto più importante della funzione di procurare piacere: “Penso che il sesso possa cambiare il mondo.”

Siete il marcio della vita! Avete sbajato giorno e epoca

I difensori dell’infanzia e della famiglia si richiamano alla figura
politica di un bambino che loro stessi costruiscono, un bambino presupposto eterosessuale >e dal genere conforme alla norma. Un bambino privato di qualunque forza di resistenza, di qualunque possibilità di fare un uso libero e collettivo del proprio >corpo, dei suoi organi, dei suoi fluidi sessuali. Questa infanzia che pretendono proteggere richiama, piuttosto, terrore, oppressione e morte. […]
Chi difende i diritti del bambino che è differente? I diritti del bambino che ama indossare il colore rosa? Della bambina che sogna di sposarsi con la sua >migliore amica? I diritti del bambin* queer, frocio, lesbica, transessuale, transgenere? Chi difende i diritti del bambino di cambiare genere se lo desidera? I >diritti del bambino alla libera autodeterminazione del genere e della sessualità? Chi difende i diritti del bambino a crescere in un mondo senza violenza pedagogico che fa paura, il sito dove proteggere le proprie proiezioni fantasmagoriche, l’alibi >che permette all’adulto di naturalizzare la norma. Quella che Foucault chiamava «biopolitica» è vivipara e pedofila. La riproduzione della nazione ne dipende. >Il bambino è un artefatto biopolitico che garantisce la normalizzazione dell’adulto.
sessuale, senza violenza di genere? [..]
Il-bambino-da-proteggere […] è il prodotto di un dispositivo
(preciado quanto ti adoro) —>
Tratto da Bambin@ queer

Condividiamo con piacere l’appello di quelle meraviglie delle Ribellule, in seguito al quale, però, riportiamo anche l’ultima notizia rispetto al corteo in ricordo di Giorgiana Masi e contro il femminicidio. La questura, come negli anni ’77, gli ha negato l’autorizzazione. Siamo del parere che il dissenso non abbia bisogno di alcuna autorizzazione, dato che è il sistema che la prevede a generare la violenza contro cui si manifesta. Nell’ultima settimana, questo governo, ha già palesato la sua natura repressiva, caricando ferocemente studenti e ricercatori napoletani, sgomberando la libreria ex-Cuem di Milano che è stata rioccupata, con nostro grande piacere, caricando brutalmente i/le manifestanti No Mous e ora osteggiando una manifestazione che, questa sì, ha motivo di esserci. Come nel ’77 anche il 12 maggio si scenderà ugualmente in piazza a ricordare quello che è successo e a rivendicare la necessità di lottare ancora per il diritto ad un aborto libero e gratuito, ad una autodeterminazione reale ed effettiva per tutte le donne. Per aderire all’appello inviate una mail a nomarciaperlavita@gmail.com. Buona lettura!

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Il sessismo non si combatte con la censura

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Come penso sappiate tutt@, Laura Boldrini, la presidentessa della Camera, ha dichiarato di essere vittima di cyberstalking. Le minacce, come la stessa Boldrini specifica, sono sempre o a sfondo sessuale o di morte, che in tal caso diventa femminicidio. Perché sì, la Boldrini è stata presa di mira non solo come esponente di sinistra ma come donna. Quindi, ancor prima di esser vittima di cyberstalking, credo sia giusto affermare che è vittima di sessismo.

Premetto che alla Boldrini va tutta la mia solidarietà, perché nessun@ donna dovrebbe mai essere minacciata e perseguitata. Detto ciò, però, mi trovo in completo disaccordo con la sua ipotesi di “controllare la rete”. Credo fermamente nell’idea che la censura non serva a nulla e che anzi, a volte, sia pure controproducente. Ma, attenzione, non dico neanche che non si debba fare nulla per contrastare questo stato di cose.

Analizziamo la situazione: le donne sono spesso oggetto di cyberstalking, ovvero offese e minacce di vario genere compiute per mezzo del web. E’ ovvio che tali minacce, proprio come quelle che avvengono nella vita reale, provochino stati di ansia e di paura nella vittima, che ha il diritto di reagire come crede, anche chiedendo l’intervento della polizia postale. Ma questo è ciò che la persona, nella una specifica e singola situazione, può fare. Ad un livello generale, pensare di combattere il sessismo con il controllo e la censura della rete è pura follia.

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La legge svedese in materia di prostituzione: presunti successi ed effetti documentati

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Presentiamo una sintesi dell’articolo The Swedish Sex Purchase Act: Claimed Success and Documented Effects. Le autrici Susanne Dodillet e Petra Östergren (studiose che hanno approfondito diversi aspetti della legge antiprostituzione svedese, condotto ricerche sul campo, ecc.), hanno concepito l’articolo per svelare al pubblico internazionale le conseguenze reali del ‘modello svedese’ e ci offrono la prima compilazione dei suoi effetti che sfronda l’insidiosa narrativa ufficiale con il ricorso ai dati oggettivi effettivamente disponibili. Questo Conference paper è stato presentato all’ International Workshop: Decriminalizing Prostitution and Beyond: Practical Experiences and Challenges (The Hague, 3-4 Marzo 2011).

Il testo completo è molto lungo, per agevolare la lettura pubblichiamo un prima parte, una traduzione sintetica dell’introduzione realizzata da H2O e revisionata dal gruppo traduzioni militanti che collabora anche con il blog Intersezioni. Quando sarà pronta la traduzione del testo completo pubblicheremo un .pdf da distribuire tra gli/le addetti ai lavori (e non solo).

Buona lettura!

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Il fatto che la legge svedese che criminalizza l’acquisto di prestazioni sessuali venga considerata una misura unica nel suo genere perché punisce solo l’acquisto (e non la vendita) di prestazioni sessuali è una semplificazione discutibile: innanzitutto perché il Sex Purchase Act non è dissimile da altre leggi e regolamenti utilizzati in altri paesi per la riduzione o l’estirpazione della prostituzione mediante strumenti legislativi. Inoltre, perché è riduttivo attenersi unicamente alle parole di un atto di legge (‘sono solo coloro che acquistano le prestazioni sessuali ad essere puniti’) e tralasciare gli effetti indiretti da esso conseguenti. È ovvio infatti che una legge che proibisse l’acquisto dei servizi offerti nel massaggio terapeutico, nella psicoterapia o nel counselling per la salute sessuale ad esempio, nel punire chi acquista tali servizi produrrebbe conseguenze negative anche su chi quei servizi li offre.
La cosa che rende certamente unico il Sex Purchase Act è la maniera in cui è stato giustificato dai legislatori femministi fin dal principio: con la motivazione che la prostituzione sia una forma di violenza maschile sulle donne, che prostituirsi sia fisicamente e psicologicamente dannoso e che non vi siano donne che vendono prestazioni sessuali volontariamente. Ai tempi della sua introduzione la prostituzione veniva considerata come un ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza di genere non solo per i motivi appena citati ma anche perché l’idea stessa che un uomo potesse pensare di poter ‘comprare il corpo di una donna’ veniva ritenuta lesiva per tutte le donne. Il fatto che l’interdizione dalla prostituzione fosse lesiva per le donne che vendono prestazioni sessuali, o che violasse il loro diritto all’autodeterminazione non era ritenuto importante. Il valore simbolico veicolato dal Sex Purchase Act per l’uguaglianza di genere risulta(va) più importante: questa visione ispirata al femminismo radicale è esistita in occidente a partire dagli anni Settanta ma non è mai stata tradotta in un provvedimento governativo. Tranne che in Svezia (nel 1998 e ancora nel 2006).

Un altro aspetto unico del Sex Purchase Act è stata la persistenza con cui tale divieto, o ‘modello svedese’, è stato propagandato. L’esportazione ad altri paesi era uno degli obiettivi dichiarati fin dall’inizio — ed è stato perseguito da entità governative e non governative con l’ausilio di pubblicazioni cartacee ed elettroniche, filmati, iniziative, workshop, seminari e dibattiti. Prova ne è che quando i paesi iniziano a interrogarsi sugli emendamenti da apportare in materia di prostituzione si rivolgono alla Svezia in cerca di ispirazione.

Il pezzo forte della campagna di divulgazione del Sex Purchase Act sono stati i successi attribuiti alla sua applicazione, tra cui vengono generalmente annoverati il calo della prostituzione, la diminuzione della tratta a fini sessuali, l’effetto deterrente sui clienti e il mutamento della percezione della società nei confronti della prostituzione. E non risultano conseguenze negative (la versione ufficiale più recente di questa tesi, ripresa dalla CNN, risale al 2010). Ad un’analisi più attenta, il punto debole di questo tipo di asserzioni è la mancanza di dati o ricerche che ne possano supportare la dimostrabilità. Nel processo di consultazione previsto dall’iter di emendamento della legge svedese (successivo alla pubblicazione della valutazione ufficiale del 2010) i dati riferiti sono stati contestati soprattutto dalle entità impegnate nello studio della prostituzione e dagli organismi di riferimento in materia di salute e discriminazione. Tra le obiezioni sollevate: la mancanza di rigore scientifico e di obiettività (l’unico scenario contemplato è infatti quello in cui l’acquisto di prestazioni sessuali è illegale), una definizione incompleta della prostuzione, l’omissione delle interferenze ideologiche (invece significative), dei limiti del metodo, delle fonti e dei potenziali fattori di distorsione; l’inclusione di incongruenze, contraddizioni, la mancanza di rigore bibliografico, l’uso di parametri di confronto irrilevanti o inesatti e la redazione di conclusioni non supportate da dati dimostrabili e spesso di carattere meramente speculativo.

Segue un’analisi dettagliata della discrepanza tra gli effetti positivi attribuiti al divieto e la mancanza di dati dimostrabili a supporto di tali affermazioni. Perché dall’analisi della letteratura e delle relazioni disponibili risulta evidente che gli effetti del Sex Purchase Act sul calo della prostituzione, sulla riduzione della tratta a fini sessuali e sugli effetti deterrenti sui clienti sono di gran lunga inferiori a quanto dichiarato nella valutazione ufficiale. È inoltre impossibile sostenere che la percezione della prostituzione da parte dell’opinione pubblica sia mutata in maniera significativa nella direzione auspicata dal femminismo radicale o che si sia registrato un aumento di consensi rispetto al divieto. E contrariamente a quanto ribadito nella versione ufficiale riguardo al fatto che il divieto non avrebbe avuto effetti negativi per le persone che si prostituiscono sono stati identificati pesanti effetti negativi del Sex Purchase Act, soprattutto in materia di salute e benessere delle/dei sex-worker.

Dopo una panoramica sulle leggi e i regolamenti esistenti in Svezia in materia di prostituzione, l’articolo analizza gli effetti documentati del Sex Purchase Act e presenta alcune conclusioni.

I sottotitoli dell’articolo:

  • Introduzione (sintetizzata sopra)
  • Legislazione svedese in materia di prostituzione (quali leggi e regolamenti costituiscono il ‘modello svedese’, con una breve spiegazione dei dettami e degli effetti di ciascuno)
  • Materiali di riferimento (e fonti) utilizzati dalle autrici dell’articolo
  • Diffusione (i dati disponibili sul fenomeno della prostituzione in Svezia, prima e dopo l’entrata in vigore della legge)
  • Tratta per fini sessuali (la contraddittorietà dei dati disponibili al riguardo)
  • Effetto deterrente sui clienti (il ‘cazzotto a vuoto’)
  • Effetti sulla percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica (da dove vengono dedotti e quali sono)
  • Effetti indiretti (non contemplati dalla legge e negativi per la salute e la salvaguardia delle/dei sex-worker)
  • Conclusioni (ruolo dell’ideologia sulla discrepanza osservata tra gli effetti dichiarati della legge e quelli riportati con il ricorso al metodo scientifico)

Petra Östergren: sexworker e critica alla politica svedese in materia di prostituzione

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Ripropongo questo post, che avevo pubblicato su FaS, per continuare a tenere vivo il dibattito su sex work e modello svedese, quello stesso modello che anche in Italia viene spacciato per ideale pur ricevendo profonde critiche in patria da associazioni femministe, docenti universitarie e lavoratrici stesse.

A brevissimo pubblicheremo anche la traduzione di un nuovo testo di Petra, che ringraziamo per averci dato l’autorizzazione a tradurre e pubblicare questo articolo e di averci suggerito altro materiale.

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La malafede della zoofobia – IV (e ultima) parte

Homelessmanandhisdog

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§ Ritmo, Grazia e Afflizione
Esistono validi motivi per supporre che la crisi globale della nostra creazione non richieda un inasprirsi della dominazione tecnoscientifica e zoofobica, ma un ritorno ai nostri sensi, ovvero, ad una vita animale più libera. Infatti, in Dialettica Negativa Adorno scrive che “l’individuo rimane con niente più che… provare a vivere in maniera tale da poter pensare di essere stato un buon animale.” (51) Essere un buon animale (umano), commenta Christoph Menke, significa agire mossi da un sentimento di solidarietà. Il soggetto animale è tale che “non separa sé stesso dalle proprie “spinte” o “impulsi” per seguire la legge e per liberarsene, ma la cui libertà, anzi, la cui propria forza, consiste nel permettere alle sue pulsioni e impulsi di esprimersi. Solo così, in “armonia”, persino in “riconciliazione” con sé stesso, l’uomo può essere buono verso gli altri.”(52)
Gli homo sapiens possono essere se stessi, e specificatamente esseri umani, solo se sono buoni animali, e quindi solo quando “non agiscono, e tantomeno si presentano, come persone,” (53) vale a dire, come ego che sopprimono i propri impulsi interiori. In Body Transformations, Alphonso Lingis attinge a Nietzsche dicendo che “le forze lussuriose di un individuo possono allontanarsi dall’immagine ideale di sé proiettata dagli adulti della propria famiglia, classe, etnia, nazione e razza per puntare su quegli istinti antichi che risorgono in lui, affermandoli e conferendo loro potere. “(54) Ma i tratti che costituiscono un buon animale non possono essere fabbricati; “la nobiltà non si rivela dalla gestione del carattere;”(55) l’unica vera virtù è spontanea, senza pretese, ed emerge con l’emancipazione dell’impulso, libera di assumere spontaneamente una molteplicità di significati.(56) Ma far sì che gli impulsi libidinosi trovino piena espressione oggi, pone l’individuo a rischio; la civilizzazione stessa è stata progettata precisamente per addomesticarli e sottometterli ad un’autorità “superiore”. Qualsiasi essi siano, gli istinti “renderanno quell’individuo disadattato nel proprio tempo e possono renderlo eccentrico o folle.”(57) Finché la civilizzazione non sarà rimodellata per fargli spazio, rimarrà “un selvaggio nato troppo tardi.”(58) “L’uomo ‘civilizzato’ – nota Fromm – ha sempre vissuto nello ‘Zoo’ – cioè in diversi gradi di cattività e non-libertà – e questo è tuttora vero”(59) Per la verità, forse ancor di più nelle società tecnologicamente più avanzate, che da qualsiasi altra parte.
Nella maggior parte dei casi, la nostra tendenza all’essere guidati da processi pre-riflessivi e a noi connaturati, oscilla tra riluttanza ed odio.(60) Per questo motivo introduciamo nelle nostre vite lo sforzo di un eccessivo autocontrollo. Watts ha associato questo processo all’afferrare una mano con l’altra, per timore che sbagli in qualsiasi cosa stia facendo. La conclusione è che, in quest’ottica, non ci si può fidare di nessuna delle due mani. “Chi sorveglierà le guardie stesse?”(61) è una domanda che dovrebbe essere posta ma generalmente non lo è. Nel frattempo, si è persa una delle due mani, e cioè metà della propria abilità, in una ricerca sostanzialmente impossibile di controllo di se stessi e degli altri. A causa di questa lotta e di questo soffocamento auto-inflitto, il mondo diventa una gabbia. Sicuramente, dice Watts, “ci saranno errori, ma se non ti fidi affatto finirai per strangolarti. Finirai per circondarti di regole e leggi e prescrizioni e polizia e guardie – e guardie per fare la guardia alle guardie. Quindi, per vivere dobbiamo avere fiducia. Dobbiamo confidare in ciò che è completamente ignoto e in una natura che non ha padroni.” (62) Riformulando il punto di vista di Alfred North Whitehead sulla questione, Hamrick e Van der Veken scrivono di un evidente cambio di atteggiamento nella filosofia moderna nei confronti della percezione sensoriale, prodotto da una variazione dell’antica domanda, ovvero da “Cosa sentiamo?” a “Cosa possiamo sentire.” Un mutamento così compiuto ha dato i natali ad un “atteggiamento di ‘attenzione forzata’ per percepire dati che oscura la base dell’esperienza da cui i dati stessi originano,” con la percezione sensoriale che diventa il prodotto di una “attenzione cosciente che esclude più di quanto includa…. Per Whithead – dicono – la filosofia deve criticare queste astrazioni e, superando la ‘fallacia di una concretezza malriposta,’ ristabilire la nostra connessione con la natura e con la nostra esperienza morale, emotiva, e sostanziale. “(63)
Alcune parti di Il pensiero selvaggio di Levi-Strauss potrebbero essere utili per indirizzarci verso tale modello alternativo di vita. Il pensiero selvaggio è “pensiero nel proprio stato non addomesticato, così distinto dal  pensiero educato o addomesticato allo scopo di ottenere qualcosa. La caratteristica peculiare del pensiero selvaggio è la sua eternità…Una moltitudine di immagini prende forma simultaneamente, nessuna esattamente uguale all’altra, cosicché nessuna fornisce più di una conoscenza parziale.” (64) Per ridefinire lo strutturalismo dell’autore in una narrativa di vita sensuale, il “pensiero selvaggio” è, in senso stretto, non tanto mente o pensiero, (65) ma una certa presenza viscerale dell’organismo nel proprio mondo. E’ un corpo che si orienta nelle immediate vicinanze, cercando soluzioni ai problemi in ciò che è a portata di mano, approfittando dell’immediata possibilità, esistendo – presente nella situazione e trascendendola attraverso questa stessa presenza. C’è la gioia del coinvolgimento in tale “incarnazione [che] riguarda il corpo che tracima il proprio senso di costrizione, nel permettere la creazione di ritmi condivisi.” (66) Da questo punto di vista, la vita sulla terra ha un aspetto ritmico che è organico e, in un senso davvero primitivo, musicale. I corpi umani sono fondamentalmente legati ai ritmi della terra, posto che non inibiscano il proprio schiudersi entro sé stessi. Saul Williams sostiene che “siamo l’equivalente manifesto di tre secchi d’acqua e una manciata di minerali, realizzando così che quegli stessi secchi girati sottosopra forniscono l’elemento percussivo dell’eternità. Se devi contare per tenere il ritmo – aggiunge in alcune interpretazioni dal vivo – allora conta.” (67) Ma sostenere questo testimonia già una realtà di separazione; più civilizzati, e cioè orientati alla cultura, diventiamo, più diventiamo incapaci di comprendere questo concetto, anche mentre continuiamo ad esserne soggetti. Le nostre vite allora perdono sincronia con il battito diversificato delle ecologie circostanti e dei loro abitanti senzienti. Siamo così privati di ciò che potrebbe chiamarsi grazia animale – non solo quella che caratterizza la facilità con cui un gatto salta giù da un albero, ma anche quella che – sottolineata dalla sofferenza – opera in mezzo al dolore, alla perdita e all’infelicità. Secondo Mazis, “le radici della parola afflitto indicano ‘essere oppresso.’ Il mondo, se preso sul serio, davvero ci opprime. Essere afflitti significa sentire il peso dell’esistenza, un peso che ci riporta ad un livello condiviso con tutte le altre creature viventi. E’ una via verso casa.”(68) Una casa non perfetta, almeno non secondo le nozioni riduzioniste di perfezione lineare; troppo imprecisa, vaga e “inafferrabile” per ospitare esemplari perfetti. Non si sposa con la geometria Euclidea; una montagna non è più rozza, ma molto più complessa di un triangolo. Inoltre, per il disappunto sia di quelli che vorrebbero costruire un concetto di umanità come negazione dell’animalità, sia di quelli determinati a sviscerare l’inconfutabile nocciolo dell’animalità, nella ricchezza della molteplicità animata non risulta esserci una riconoscibile singola qualità che renda un animale tale. E quindi, semmai, l’animalità è non-essenzialista ed estremamente eterogenea. (69) Ralph R. Acampora sostiene giustamente che “non ci sono animali generici che vagano per la terra, e la pura/perfetta ‘animalità’ in quanto tale può essere evocata nel paradiso di Platone solo in via ipotetica.” (70) Questa, tuttavia, non è l’antica Grecia (71) e non serve a nulla aggrapparsi a standard di perfezione demoralizzanti e incorporei capaci di inibire l’apprezzamento della carne fallibile del mondo. “Di tutte le emozioni – dice Mazis – il dolore ha il grande potere di rallentarci, se lo lasciamo fare. Come la sensazione al centro dei nostri corpi di essere influenzati da tutti questi altri esseri, il dolore ci chiama ad essere partecipi di una rete intrecciata e complessa fatta dei fili sottili dell’interconnessione.” (72) Anche se non è una lezione piacevole, ci permette di realizzare che essere completamente permeabili al mondo – con il sangue, il sudore, e le lacrime che ne derivano – ha la sua propria perfezione. Perciò, sicuramente, invece di premere qualche interruttore immaginario sulla modalità “apprezzamento dell’animalità”, tornare a casa significa prima di tutto sentire il peso del mondo, provare dolore per i miliardi di nostri simili che muoiono, vedere quanta sofferenza deriva dalle nostre azioni. E si tratta di agire in base al dolore. La domanda è: saremo in grado di farne qualcosa, considerate le barriere alla compassione innalzate tutto intorno a noi, che ci separano dal mondo e si sostituiscono ad esso? Nessun sentimento si sviluppa nel vuoto, nella res cogitans di un pensatore Cartesiano opposta alla res extensa del mondo. Siccome, piuttosto, una persona percepisce dentro e attraverso la densità delle cose, sostengo che il vero essere-con (Mitstein) rimuoverà questi ostacoli materiali e percettivi, dovrà coraggiosamente rimpiazzare le immagini con la realtà, il ferro e il vetro con la terra e gli alberi, l’aria condizionata con il vento, la benzina con l’acqua, l’astratto con il concreto, un movimento necessario a restituire incanto al disincantato. Non è una vaga idea buttata a caso. Sia i prerequisiti sia le implicazioni di un recupero di una piena e diretta presenza nel mondo e l’uno  verso l’altro sono sbalorditivi, e fondamentalmente richiedono niente meno che un capovolgimento della reificazione, irreggimentazione e mercificazione della vita senziente. Un tale capovolgimento è, sempre più evidentemente,  tanto necessario quanto inevitabile.
NOTE

51 Adorno, Dialettica Negativa, 299.
52 Ch. Menke, Genealogy and Critique [in:] “Cambridge Companion to Adorno,” ed. Tom Huhn. Cambridge and New York: Cambridge UP 2004, 320.
53 Adorno, Dialettica negativa, 277.
54 A. Lingis, Body Transformations: Evolutions and Atavisms in Culture. New York: Routledge 2005, 16.
55 ibid.
56 Nel seguire le tracce di John Dewey, Shannon Sullivan insiste nell’usare “impulsi” invece di “istinti” per indicare che la “corporeità di un organismo generalmente segue un disegno, piuttosto che a caso.” Mentre “‘istinti’ implica che le energie di un organismo si presentino già confezionate in organizzazioni necessarie e definite di dati significati… gli impulsi… ottengono il proprio scopo solo da consuetudini che li organizzano… la corporeità è organizzata da consuetudini, che sono gli stili di attività acquisiti da un organismo che gestiscono l’energia dei suoi impulsi.” L’abitudine, a sua volta, è molto più che la ripetizione della routine. E’ “non tanto la ricorrenza di azioni particolari, quanto uno stile o una maniera di comportarsi che si riflette attraverso l’essere di ognuno.” Gli automatismi comportamentali sono riflesso non della realtà, ma di faziosità positivista. Vedi S. Sullivan, Living Across and Through Skins. Transactional Bodies, Pragmatism, and Feminism. Bloomington, Indianapolis: Indiana UP 2001, 30-1.
57 Lingis, Body Transformations … , 16
58 ibid.
59 Fromm, Anatomy … , 103.
60 In questo rimaniamo ignari del fatto che questo stesso atteggiamento è un’espressione della vita corporea, insieme al pensiero cosciente come tale, esso stesso non così indispensabile come a tutti piacerebbe forse pensare. Michael Steinberg sostiene che “il pensiero cosciente è completamente intrecciato con il sub-personale … bisognerebbe ricordare costantemente che i pensieri di cui siamo coscienti sono solamente aspetti parziali e a volte anche casuali di un più grande complesso di processi … Il nostro pensiero è solo un aspetto della vita del corpo, esso stesso aperto a tutte le cose.” Vedi M. Steinberg, The Fiction of a Thinkable World. Body, Meaning, and the Culture of Capitalism. New York: Monthly Review Press 2005, 24-5.
61 “Quis custodiet ipsos custodes?” è un proverbio latino attribuito al poeta romano Giovenale, spesso richiamato da Watts nelle sue letture e nei suoi libri relativamente alla futilità ultima dell’auto-controllo e alla necessità di fidarsi della propria natura. Vedi per esempio il suo The Tao of Philosophy (Boston: Tuttle Publishing 2002, 33-4).
62 ibid.
63 W. Hamrick, J. van der Veken, Nature and Logos. A Whiteheadian Key to Merleau-Ponty’s Fundamental Thought. Albany, NY: State University of New York Press 2011, 53.
64 C. Levi-Strauss, The savage mind (il Pensiero Selvaggio), trad. George Weidenfeld and Nicholson Ltd. London: Weidenfeld and Nicholson 1966, 219, 263.
65 Il titolo francese originale de The Savage Mind è “La Pensée Sauvage” dove la pensée è più naturalmente tradotto come “pensiero” piuttosto che “mente”. Mente in francese solitamente si traduce con l’esprit.
66 G. A. Mazis, The Trickster, Magician and Grieving Man: Reconnecting Men with Earth. Santa Fe, New Mexico: Bear & Company Publishing 1993, 207.
67 S. Williams, Coded Language [su:] Amethyst Rock Star, American Recordings 2001.
68 Mazis, The Trickster…, 269, enfasi nell’originale.
69 La nozione essenzialista dell’animalità “tende a uniformare la varietà esistenziale degli esseri animali (in divenire) in un’astrazione concettuale – assegnandoli e relegandoli, così, ad una generica categoria di ‘animalità.’” Vedi Acampora, Corporal Compassion … , 9.
70 ibid.
71 Secondo Steinberg, nelle antiche arti e miti Greci, “gli dei e gli uomini erano legati in una sorta di gioco a somma zero. Gli dei sonotutto ciò che noi non siamo e noi siamo d’altra parte ciò che loro non sono: possiamo cambiare, invecchiare, ammalarci e morire, ma gli dei sono senza età e non cambiano mai.” Uno degli intenti ed effetti dell’arte greca che non è apprezzata dai critici contemporanei era una condanna ad una imperfezione terrena, corporea. “Il credente greco, malato o affamato o semplicemente fuori forma come la maggior parte delle persone, non si faceva ingannare, come noi, dalla forma umana di Zeus o Apollo. ” Vedeva, nell’abisso che separava la propria carne dalla loro, “con crudele precisione le inadeguatezze e le miserie della vita umana.” La nozione greca della perfezione somatica degli dei quindi “mostra la nostra carne fiacca, deforme, cadente come una parodia grottesca della nostra forma ideale.” Così, mentre il corpo umano arriva ad odiare se stesso, il dio inventato – un substrato della nostra paura zoofobica – pesa tremendamente sull’animale che siamo. Vedi Steinberg, The Fiction…, 78-9.
72 Mazis, The Trickster…, 18.

Tutte le fonti online erano accessibili al 6 Dic. 2012.

La mentalità della carne

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LA MENTALITA’ DELLA CARNE

(Traduzione dell’articolo MENTALITY OF MEAT di Melanie Joy a cura di feminoska – revisione di Panta Fika e H20, grazie!!!) 

“Non ci penso [agli animali allevati per la propria carne come individui]. Non riuscirei a fare il mio lavoro, se instaurassi un rapporto così personale con loro. Quando dici “individui”, vuoi dire come una persona unica, come qualcosa con il suo nome e le proprie caratteristiche, le proprie caratteristiche uniche? Sì? Sì, preferirei non saperlo. Sono sicuro che li hanno, ma preferisco non saperlo.”
– 31 anni, macellaio e mangiatore di carne

“Io non mangio agnello perchè … Ti fa sentire in colpa. Sembrano, come dire… sono così dolci. E’ proprio un peccato che vengano uccisi e che noi ce li mangiamo. Si beh, anche le mucche sono dolci, ma loro le mangiamo. Non so come dire …. la carne di mucca la mangiano tutti. Costa poco, le mucche sono tante, ma gli agnelli… sono semplicemente un’altra cosa. Non ti metti a coccolare una mucca. Sembra quasi che mangiare una mucca vada bene, ma un agnello no … che strana differenza, no?”
– 43 anni, mangiatore di carne

Dichiarazioni come quelle di cui sopra incarnano i tipi di commenti fatti dai mangiatori di carne in grado di disorientare i vegetariani. Ed è veramente sconcertante: un macellaio non sarebbe in grado di portare avanti il proprio lavoro se davvero pensasse a quello che sta facendo, e un maschio adulto razionale è affettuoso verso una specie, ma ne mangia un’altra e non ha alcuna idea del perché. Prima di essere invitati a riflettere sui propri comportamenti, nessuno dei due pensava ci fosse nulla di strano nel modo in cui si relazionano agli animali che diventano il loro cibo, e dopo tale riflessione quella consapevolezza si è dissolta in poche ore. Così il macellaio continua a tenere a bada la spiacevole realtà del proprio lavoro e a ‘lavorare’ gli animali, mentre il mangiatore di carne ignora il proprio paradosso mentale e continua a mangiarne. Non c’è da meravigliarsi che i vegetariani trovino la mentalità della carne incoerente.

Eppure, per molti vegetariani, ciò che è più sconcertante non è la tendenza dei mangiatori di carne ad evitare di riflettere sulle proprie scelte alimentari, ma le variegate motivazioni che danno per spiegare perché sia “impossibile” smettere di mangiare carne: dopo aver appreso i numerosi benefici nutrizionali di una dieta a base vegetale, il mangiatore di carne salutista afferma di non voler rischiare una carenza di proteine. Dopo aver letto le statistiche del danno ambientale operato dall’allevamento intensivo, il mangiatore di carne alla guida di un’auto ibrida afferma di essere oberato da altre questioni sociali, e di non mangiare molta carne “rossa” in ogni caso. Dopo aver appreso che innumerevoli negozi di alimentari e ristoranti offrono abbondanti opzioni vegetariane, e che esiste una immensa varietà di libri di cucina e starter kit vegetariani, che offrono le linee guida per la transizione a una dieta vegetale, il mangiatore di carne intellettuale dice che smettere di mangiare carne sarebbe troppo complicato. Dopo aver sentito parlare della sofferenza degli animali da allevamento, il mangiatore di carne sensibile esprime la propria sentita comprensione, per finire poi al Burger King drive più tardi lo stesso giorno, perché non riesce a rompere con l’abitudine di mangiare animali. E dopo aver mangiato un altro delizioso pasto a base di seitan che, sostiene, “è tanto simile alla carne da non coglierne la differenza”, il mangiatore di carne afferma che “non potrà mai” diventare vegetariano, perché la carne gli piace troppo. Le stesse persone che trovano impossibile smettere di mangiare carne hanno magari cresciuto una famiglia senza alcun aiuto, sono sopravvissute a una malattia mortale, hanno studiato tutta la vita, si sono misurate con un trauma importante, hanno vinto un premio Nobel o raggiunto un notevole numero di successi, che sicuramente richiedono più sforzo e sacrificio rispetto al diventare vegetariani.

Comprensibilmente, i messaggi contraddittori inviati dai mangiatori di carne causano ai vegetariani esasperazione e frustrazione. Ma piuttosto che mettere in discussione la mentalità di un mangiatore di carne, cosa che porterebbe ad una maggiore comprensione, i vegetariani spesso mettono in discussione il carattere stesso del mangiatore di carne, che porta ad ulteriore tensione e confusione – nel migliore dei casi il mangiatore di carne è visto come una persona egoista e pigra, che mette la propria comodità e convenienza al di sopra delle vite degli altri animali e alla salvaguardia del pianeta. Ma anche se è comprensibile che i vegetariani arrivino a trarre tali conclusioni, queste presupposizioni sono senza dubbio illogiche come quelle poste dai mangiatori di carne. Molti mangiatori di carne sono anche padri, madri e amici affettuosi. Sono persone impavide che si dedicano a missioni di salvataggio, insegnanti devoti al proprio lavoro, attivisti appassionati, instancabili leader di comunità, filantropi di buon cuore, compassionevoli volontari animali, partner leali e grandi umanitari.

La mentalità della carne è tale da permettere a persone razionali e compassionevoli di indulgere in comportamenti irrazionali e crudeli, senza nemmeno rendersi conto di quello che stanno facendo. Quindi, i vegetariani farebbero bene a concentrarsi sulla mentalità dei mangiatori di carne, piuttosto che sulla loro morale, e cominciare perciò le conversazioni con curiosità piuttosto che risentimento. Approcciarsi al mangiare carne con curiosità può portare i vegetariani a porre domande che li aiuteranno più efficacemente a entrare in relazione con i mangiatori di carne: come possono individui compassionevoli portare alla bocca le parti del corpo di esseri morti e trovare l’esperienza piacevole, piuttosto che ripugnante? Come può una nazione di consumatori critici, capaci di rimuginare sulla marca dei jeans da acquistare, vivere le proprie scelte alimentari in modo così acritico – scelte che guidano un settore che uccide 10 miliardi di animali l’anno? Come fanno le persone a non vedere le contraddizioni che stanno proprio di fronte a loro? I vegetariani – e anche molti mangiatori di carne – capiscono perché le persone non dovrebbero mangiare carne, ma poche persone comprendono perché lo fanno, ed è quest’ultimo punto che deve essere affrontato in modo da intrattenere conversazioni più produttive circa il consumo di carne.

IDEOLOGIA

Le risposte alle domande di cui sopra hanno senso solo attraverso le lenti dell’ideologia. L’ideologia è un sistema di credenze sociali che plasma ciò in cui le persone credono, sentimenti e comportamenti. Una ideologia dominante è il sistema di credenze di un gruppo sociale dominante – per esempio quello dei maschi, bianchi e/o economicamente avvantaggiati – ed è così socialmente radicata che la sua influenza è in gran parte invisibile. Le ideologie dominanti plasmano la nostra realtà, modellano la lente attraverso cui vediamo il mondo, promuovendo credenze, atteggiamenti, pratiche, leggi, valori e norme sociali come verità universali piuttosto che come un insieme di opinioni che riflettono e rafforzano gli interessi del gruppo al potere .
Le ideologie dominanti i cui dogmi (credenze e pratiche) sono in contrasto con i valori più profondi della maggior parte delle persone, devono impegnarsi attivamente per garantire la partecipazione della popolazione. Senza il sostegno popolare il sistema crollerebbe. Queste ideologie si basano su strategie specifiche, o difese, atte a nascondere le contraddizioni tra valori e comportamenti delle persone, consentendo pertanto alle persone di fare eccezioni a quello che sarebbe normalmente considerato etico. Queste ideologie esistono sia a livello sociale che individuale; le loro difese funzionano sia esteriormente (definendo istituzioni sociali e norme) che interiormente (plasmando la nostra mentalità). Le difese esteriori mantengono una struttura sociale che costringe le persone a conformarsi alla norma, premiando coloro che lo fanno (per esempio, facendoci sentire socialmente accettati) e punendo coloro che deviano (ad esempio, facendoci sentire inadeguati e ostracizzati). Le difese interiori perpetuano la mentalità che sostiene le norme sociali, e queste difese si attivano in qualsiasi momento vengano presentate informazioni che minacciano l’ideologia. Le difese interiori non sono risposte logiche: sono reazioni automatiche che bloccano o distorcono le informazioni in grado di smascherare l’ideologia.

La difesa primaria di una ideologia dominante “non etica” è l’invisibilità, e il modo principale per tale ideologia di rimanere invisibile è restare senza nome. Se non la nominiamo, non la vedremo, e se non la vediamo, non possiamo parlarne. L’invisibilità protegge l’ideologia dalla verifica e, quindi, dall’essere messa in discussione. Questa è la ragione per la quale, almeno inizialmente, solo le ideologie non dominanti sono nominate; per esempio, mentre da lungo tempo esiste un nome per l’ideologia di coloro che non mangiano carne, il vegetarianismo, l’ideologia dominante del mangiare carne non è stata nominata fino a tempi recenti.

CARNISMO

Carnismo è il nome che ho dato all’ideologia secondo la quale è considerato etico e opportuno mangiare certi animali. Dal momento che mangiare carne non è necessario per la sopravvivenza, è una scelta, e le scelte derivano sempre dalle convinzioni. I mangiatori di carne non sono carnivori, che sono animali che hanno bisogno di carne per sopravvivere. Né sono semplicemente degli onnivori che, come i vegetariani, sono animali che sono in grado di sopravvivere consumando sia la materia vegetale e animale. “Carnivoro” e “onnivoro” riflettono nulla più che una predisposizione biologica. Per gli esseri umani, mangiare carne non è una necessità biologica, ma una scelta filosofica basata su una serie di idee sugli animali, il mondo e se stessi. [1]
Non assegnando un nome al sistema che è il carnismo, il mangiare carne è visto più come un dato di fatto che come una scelta, e i presupposti che guidano il consumo di carne rimangono inesaminati. Questa mancanza di consapevolezza è alla base del motivo per cui la gente mangia i maiali ma non i cani senza avere la minima idea del perché.

Il carnismo è un sistema che si organizza intorno ad una massiccia ed inutile sofferenza animale. Poiché la maggior parte delle persone non vuole provocare sofferenza agli (altri, mia aggiunta, n.d.t.) animali, e tanto meno vuole essere consapevole di aver partecipato a tali sofferenze, il sistema deve impedire loro di fare le giuste connessioni, psicologicamente ed emotivamente. Il sistema carnistico è improntato allo scopo di ostacolare la consapevolezza, per bloccare l’empatia e la sua emozione gemella, il disgusto. Quando una persona si siede per mangiare un hamburger, per esempio, non è consapevole, o non pensa, all’animale vivente che sta mangiando. Essa, pertanto, non prova empatia per la sofferenza dell’essere che è diventato il suo cibo, e trova la carne appetitosa piuttosto che rivoltante. Ma questo stesso commensale (americano, o occidentale n.d.t.) non ha subito anni di condizionamento carnistico quando si tratta di mangiare cani. Se si trovasse a mangiare un hamburger identico, ma fatto di carne di cane piuttosto che manzo, sarebbe consapevole dell’animale da cui la carne è stata procurata e probabilmente sarebbe troppo disgustato per mangiarlo.
Il carnismo permette alle persone di mangiare la carne di un gruppo selezionato di animali, attraverso l’impiego di una serie di difese specifiche che operano a livello sia collettivo sia individuale. Queste difese includono, ma non si limitano a, negazione (“Gli animali allevati per la carne in realtà non soffrono così tanto”), evitamento (“Non me lo dire, mi rovini il pasto”), dicotomizzazione (“I cani sono amabili, i maiali appetitosi”), dissociazione (“Se pensassi all’animale che è diventato la mia carne, sarei troppo disgustato per mangiarla “) e giustificazione (“Mangiare certi animali va bene, perché sono allevati a tale scopo”). Le difese carnistiche sono intensive, estensive e si intrecciano nel tessuto stesso della nostra società e delle nostre menti.

RELAZIONARSI AI CARNISTI

Gran parte della confusione e tensione tra i vegetariani e mangiatori di carne, o carnisti, esiste perché nessuno dei due gruppi riconosce la mentalità carnistica o la tremenda pressione per mantenere lo status quo carnistico. I vegetariani devono comprendere che i carnisti sono intrappolati in un sistema invisibile, impegnato attivamente per costringerli ad agire contro i propri interessi (coerenza psicologica e autenticità emotiva) e gli interessi di altri. I vegetariani devono anche rendersi conto che chiedere a un carnista di smettere di mangiare carne significa chiedere molto di più di un cambiamento nel comportamento. Si sta chiedendo un cambiamento fondamentale nell’identità, un cambiamento di paradigma profondo e gli/le si sta chiedendo di resistere a difese psicologiche profondamente radicate. Non importa quanto facile possa essere stato per qualcuno smettere di mangiare carne; per la maggior parte delle persone, questo tipo di cambiamento avviene solo nel corso del tempo, quando si sentono psicologicamente ed emotivamente abbastanza sicure da iniziare a mettere in discussione alcuni dei propri presupposti esistenziali. In Strategic Actions for Animals, descrivo modalità specifice per comunicare e sostenere i propri principi di fronte ai carnisti, in modo tale da aumentare la probabilità che l’interazione si dimostri reciprocamente positiva e che il messaggio venga ricevuto. Seguono alcuni punti utili:

• SII L’ESEMPIO DELLE QUALITÀ CHE STAI CHIEDENDO: mostra curiosità, compassione, empatia, rispetto e la volontà di ascoltare veramente e di riflettere. Più sei sulla difensiva, più farai scattare le difese nel tuo interlocutore.
• RELAZIONATI AI CARNISTI COME PERSONE, PIUTTOSTO CHE MANGIATORI DI CARNE: anche se non rispetti affatto la loro scelta di mangiare animali, è essenziale rispettare i carnisti in quanto animali umani (differentemente dall’autrice preferirei usare il termine esseri viventi, ma ho mantenuto umani aggiungendovi però ‘animali’ n.d.t.).
• ANALOGAMENTE, RICORDA CHE I CARNISTI SONO INDIVIDUI, molti dei quali hanno più cose in comune con te di quanto non ne abbiano tra loro. Non renderli un gruppo uniforme e non proiettare stereotipi su di loro.
• CONCENTRATI DI PIÙ SUL PROCESSO (la dinamica, o il “come”) che sul contenuto (il soggetto, o il “cosa”) di una conversazione. Invece di avere come obiettivo quello di influenzare il punto di vista di un’altra persona, sforzati di avere un dialogo reciprocamente rispettoso e illuminante. Non importa quanto fortemente desideri promuovere il vegetarianismo, più ti sforzi di “convertire” l’interlocutore, meno probabile è che tu riesca a raggiungere quello scopo.
• RICONOSCI CHE I FATTI NON VENDONO L’IDEOLOGIA. L’unico motivo per cui una persona sceglie di mangiare un hamburger piuttosto che un hamburger vegetariano identico, è a causa di ciò che la carne rappresenta, piuttosto che di quello che effettivamente è. Sapere questo ti aiuterà a sentirti meno frustrato con i carnisti resistenti.
• NON LASCIARE CHE I CARNISTI SULLA DIFENSIVA TI MANCHINO DI RISPETTO. Alcuni carnisti attaccano i vegetariani per difendere il proprio mangiar carne. Non si dovrebbe mai lasciare che altre persone ti giudichino estremista, ipocrita, schizzinoso, ipersensibile, ecc.
• CREA UN AMBIENTE ‘EMPOWERING’’. L’empowerment è la sensazione di essere connessi al proprio potere personale, e le persone che sentono tale connessione sono molto più portate a realizzare cambiamenti positivi. L’opposto dell’empowerment è la vergogna, e la vergogna nasce dal sentirsi giudicati. Per favorire quel senso di padronanza delle proprie potenzialità negli altri, trattali come se fossero fondamentalmente degni – parla col cuore, con l’obiettivo di condividere quella che senti come la tua verità e distaccarti dall’esito del dialogo.

Comprendere la mentalità carnistica può essere enormemente liberatorio per entrambi, carnisti e vegetariani. Rendendo visibile l’invisibile, facciamo un passo fuori dal sistema carnistico e possiamo scegliere in che ruolo parteciparvi. I carnisti possono scegliere di esaminare più a fondo il loro mangiare carne, i vegetariani possono scegliere di esaminare più a fondo il proprio rapporto con carnisti. Ed entrambi i gruppi possono meglio coltivare le qualità che, in ultima analisi, trasformano il sistema: consapevolezza, empatia e compassione.
[1] Questa affermazione non si riferisce a coloro che sono geograficamente o economicamente impossibilitati a scegliere se mangiare o meno la carne.

MELANIE JOY, Ph.D., Ed.M. è professore di psicologia e sociologia presso la UMass-Boston. È l’autrice di “Strategic actions for animals” e del libro “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche: Introduzione al Carnismo.”

Per approfondimenti, leggi l’intervista a Melanie Joy, pubblicata su Asinus Novus.

 

 

Agli/lle organizzatori/trici del concerto del 1° maggio

 Su Fabri Fibra si è già detto abbastanza e di cavolate ne sono state sparate tante, si è urlato alla censura quando non ve ne era, e si è additato un femminismo italiano che non esiste dato che in Italia ci sono tanti femminismi. E’ da queste “piccole cose” che si nota l’inconsistenza di alcune notizie. Ma andiamo oltre. In questi giorni, tra i vari botta e risposta, ho notato che si è perso di vista un punto fondamentale della questione, ovvero la scelta degli/lle organizzatori/trici del concerto del primo maggio.

Leggi tutto “Agli/lle organizzatori/trici del concerto del 1° maggio”

Appunti per conversazioni non transfobiche

CARTEL-MANI-TRANSFOBIA-2011
Ecco alcune azioni che dovrebbero essere categoricamente evitate nel parlare con e di una persona trans*:

– Chiamarl* con nomignoli storicamente insultanti che la persona t* non usa. Rientrano spessissimo nella categoria “transettone”, “travello”, “travone” e affini. Molt* di noi credono nella riappropriazione politica dei termini, è vero, ma questo non vuol dire certo che ognun* di noi si senta a proprio agio con il reclamare l’uso di alcuni o di tutti i termini in oggetto. Vuoi sapere se li usa e quali usa? Solitamente, salvo essere ciechi e/o sordi, è sufficiente ascoltare o leggere la persona interessata per scoprire questo arcano, e ad ogni modo è molto meno imbarazzante porre una domanda che darsi a improbabili scivoloni dialettici per spiegare mancanze etiche ingiustificabili.

– Riferirsi a l*i con nomi e linguaggi che non usa. Può essere il maschile per alcuni, il femminile per altre, e c’è anche chi preferirebbe forme neutre. Rispetta questa necessità. Non si tratta di egoismo linguistico e non iniziare dibattiti linguistici sulla correttezza di asterischi e via discorrendo. Le persone vengono prima dei nazismi grammaticali.

– Rammentare alla persona t*, costantemente ma anche occasionalmente, in una maniera o nell’altra, che la genetica l’ha generat* in una certa maniera. Ciò che si chiama “disforia” è, molto banalmente, il malessere derivante – sorpresa! – dal non corrispondere fisicamente a ciò che si sente. Spiattellare dunque fascismi biologici è molto poco carino e genera in qualunque persona t*  il genuino desiderio di smolecolarizzarti l’arteria femorale a morsi.

– Fare humour a casaccio sull’argomento senza premurarsi di sapere cosa ne pensa la persona, per poi avere diverbi e molestarl* con amenità come “scusa, non volevo offenderti”. Se commetti una cagata, la cosa migliore da farsi è ammetterlo e scusarsi genuinamente senza spostare la responsabilità del proprio agire alla reazione di l*i. La sua rabbia, il suo scazzo e qualsiasi altra emozione ed opinione è legittima a prescindere dai toni con la quale questa viene espressa, purché non siano -isti o -fobici e più semplicemente oppressivi essi stessi.

– Cooptarl* a priori in quella che potremmo chiamare “altrizzazione”. Le donne trans* sono donne, gli uomini trans* uomini. Poi chiaramente ci sono persone genderqueer che sfuggono le categorie, e probabilmente in una palla tridimensionale dei generi c’è chi si trova in posti assai complicati. Questo non autorizza nessun* a considerarl* inclus* in una sorta di terzo genere degli indefiniti. Non è indefinit* – si identifica in maniera ben precisa, se e quando si identifica. Parlare di  donne, uomini e trans* è terribilmente offensivo visto che un sacco di persone trans* sono uomini o donne. Si potrebbe sostituire questa espressione con donne, uomini e persone nonbinarie.

– Una persona trans* non si “identifica” soltanto in un genere, ha un genere; quel genere. Frasi quali si sente donna/uomo/nonbinari@  sono a dir poco raccapriccianti, in particolare se abbinate a pronomi sbagliati. Noto anche che si prova ad usare persone che si identificano uomo/donna per essere più inclusiv*, ma l’unico risultato ottenuto nella pratica è perpetuare la degenderizzazione delle persone trans*, perché – ad esempio – nella mentalità dell’italiano medio rimarrà normale usare “donna” per riferirsi alle donne cisgender e “donna trans”, o più spesso solo “trans”, per riferirsi alle donne trans. Questo implica che il genere delle persone cisgender è automaticamente più valido, ma ciò è falso. Il sentire di ognun@ è valido.

– Non riferirsi a “corpi maschili” parlando di donne trans* e “corpi femminili” parlando di uomini trans*. La biologia non è un destino, e soprattutto non può essere ciò che si trova tra le gambe a determinare la definizione del resto del suo corpo. Autodeterminazione anche nei linguaggi, please!

Non c’è in questa lista la pretesa di essere esaustiv*, assolutamente, ed in ogni caso l’unico metodo sempre affidabile per rivolgersi ad una persona senza mancarle di rispetto è domandarle quali sono i suoi confini, limiti, off-limits, eccetera. Buona chiacchierata 🙂

La malafede della zoofobia – parte III

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Continua da qui. Paura, senso di colpa e odio sono tutti interconnessi in questo gioco di verità e bugia. Nel desiderare una libertà dalla carne tanto astratta quanto impossibile, siamo annichiliti dal terrore di fronte alla libertà della carne di seguire i propri ritmi. Per questo abbiamo usato una violenza incredibile per sopprimerla, poi, sentiti i riverberi della miseria animale e il senso di colpa strisciante, abbiamo provato a sopprimere anche gli animali, con la rinnovata, contorta aggressività libidinosa propria di un animale che odia se stesso.
In quanto oppressori attivi e spesso morbosamente appassionati di altri animali, abbiamo bisogno di capri espiatori (notare l’origine del termine), proprio come l’antisemita ha bisogno dell’Ebreo. Non c’è altro modo di rafforzare una falsa identità se non attraverso un inganno continuo; ed è necessario un grande sforzo per sostenere un tale inganno nel tempo. Per innalzarci dalla nostra condizione animale abbiamo bisogno di opprimere, sottomettere e sopraffare la carne. Abbiamo bisogno di sfogare, ovvero, di punire la carne sulla quale ammiccano le nostre parole di auto-conforto. Allo stesso tempo, nell’attuale oppressione di altri animali, dobbiamo lottare per dimostrare quanto diversi siamo da loro, in modo da non cadere dalla parte degli oppressi. Schiavizzare si è rivelato in generale difficile per noi, se non attraverso una narrativa sufficientemente valida a illustrarne i vantaggi. Intessute nel corso dei secoli, le narrative volte alla giustificazione sono state, per la nostra specie, l’esito di pratiche crudeli, atte allo scopo di mistificare la realtà con le parole.

§ La carne insultata
La zoofobia è corredata da un ricco compendio di invettive mirate alle vittime di queste forme di sfruttamento inter-specie (i.e. gli animali non umani). Nella maggior parte dei casi i loro stessi nomi sono associati all’inferiorità, rivelando la loro reale condizione in mani umane e le reazioni, spesso incomprese, a questo stato di fatto. In pratica, tutte le forme verbali del disprezzo si sono evolute come sfondo della proiezione di paura e violenza precedenti. Perciò, la maggior parte del mondo animale non umano consiste di “bestie” che sono “stupide”, “sudicie”, “viziose”, ecc. L’aggettivo “stupido” è, tra gli altri, riferito a pecore, asini, mucche.
Le pecore, scrive Richard Gray, “sono animali apparentemente così poco brillanti da essere diventati sinonimo di stupidità e del seguire la massa senza pensare.”(41) In maniera istintiva, da individualisti auto-professi, potremmo sentirci insultati da forti istinti di branco – ovvero istinti sociali – ma la presenza di tali istinti non deve essere scambiata per stupidità. Di fatto “scienziati dell’Università di Cambridge hanno scoperto che queste creature hanno un’intelligenza pari a quella di roditori, scimmie e, in alcuni test, persino di esseri umani.” (42) “Stupido” è riferito anche a esseri così alienati dal proprio habitat naturale ed estraniati dalla loro stessa natura attraverso l’allevamento selettivo, al punto da trovare incomprensibile questa realtà costruita, prodotta dall’artificio umano. Il termine è stato inoltre utilizzato nei confronti di creature rese troppo docili perché possano difendersi da sole, rese tali attraverso l’esperienza ripetuta del come possa essere più sicuro “aspettare che passi”. “Sudicio” è stato un insulto rivolto ad animali che si rotolano nel fango, quali maiali, facoceri, bisonti, ippopotami, rinoceronti, elefanti etc.
Piuttosto che testimoniare scarsa igiene, in realtà i bagni nel fango si rivelano essenziali per abbassare la temperatura corporea, eliminare i parassiti, proteggere la pelle dal sole, o marcare il territorio. Perché, allora, i maiali sono considerati l’animale sporco per eccellenza? Forse perché sono così oppressi e facilmente disponibili ad ogni ridicolizzazione, già serviti a pezzetti su un piatto, simbolo del fallimento della carne in quanto sudicia, un sostituto per quello ciò che siamo decisi a sradicare da noi stessi – ossessionati come siamo da una sterilità a livello ospedaliero, da un’attenta cura dell’aspetto e dal distanziarci dal sudiciume del mondo che ci circonda. A sua volta “malvagio” è stato riservato a quegli animali che non hanno paura di mordere, in primis ai lupi.
La loro reputazione di animali aggressivi è stata largamente esagerata, e di contro la loro socialità ridimensionata. Eppure mai un lupo è stato osservato mordere i testicoli della sua preda per trattenerla come sventurato schiavo. Di fatto, scrive Glen A. Mazis,

I forti legami di affetto, fedeltà, cura, attenzione, giocosità, cooperatività, comunicatività e fiducia che permangono tra i lupi del branco sono le caratteristiche che più colpiscono del comportamento di gruppo dei lupi, come notato dagli etologi che hanno trascorso tempo in loro vicinanza. Prova di questi tratti è il loro condividere la cura dei piccoli, il corteggiamento lungo un anno e il far coppia a vita, costellato da dimostrazioni d’affetto continue, il nutrire i membri feriti del branco, il lutto della durata di mesi qualora perdano un membro del gruppo, e il bisogno di appartenenza al branco.(43)

Questo per dire che le rappresentazioni culturali dei lupi sono servite in modo univoco a supportare la pratica sterminatrice perpetuata nei loro confronti dagli esseri umani, sia in Nord America sia in Europa. “Non solo i lupi sono stati uccisi fino all’orlo dell’estinzione – scrive Mazis – ma sono stati anche massacrati con una veemenza che è sconcertante”(44), certamente il riflesso di una minaccia prima immaginata e proiettata. Ovviamente si possono individuare numerosi esempi di aggressioni intra-specie o inter-specie anche in altri animali. Gli scimpanzé, per esempio, sono stati visti intrufolarsi nei territori di altri gruppi di scimpanzé vicini e dilaniare a morte maschi presi alla sprovvista. In apparenza sistematici nel fare ciò, scelgono pazientemente la concorrenza, “finché sia il territorio che le femmine non diventino loro”(45). Gli scimpanzé sono inoltre stati avvistati coinvolti in combattimenti e “sanguinose battaglie all’interno del gruppo per determinare il maschio alfa.”(46) Infine, in case eccezionali, le femmine sono state viste uccidere e persino mangiare i neonati di altri femmine(47). È significativo, tuttavia, che questi comportamenti siano stati osservati in aree caratterizzate da una pesante invasione umana e serie pressioni ambientali che indicano uno stato di emergenza, non di normalità. Animali di innumerevoli specie provano ansia patologica mentre il mondo gli si stringe addosso(48). A dire il vero, nel suo Anatomia della Distruttività Umana, Erich Fromm non esita ad affermare che “se la specie umana avesse lo stesso livello di aggressività ‘innata’ degli scimpanzé che vivono nel loro habitat naturale, allora vivremmo in un mondo piuttosto pacifico” (49).
Mentre solitamente l’oppressione è resa accettabile attraverso narrative di denigrazione, lo stesso risultato può essere ottenuto tramite un discorso nobilitante. In quanto simbolo di coraggio e forza, il leone appare nell’immaginazione come il re della “giungla”. Data la prevalenza di questa percezione, diventa poi eternamente attraente l’idea di detronizzarlo e sottometterlo; cosa che in parte spiega la diffusa presenza dei leoni negli zoo e nei circhi. Nel primo caso, i leoni sono in gabbia ed esibiti in quanto sconfitti, nel secondo invece sono ridotti a buffoni di corte, che si esibiscono al capriccio della frusta dell’addestratore, per la soddisfazione del pubblico. Persino quando apparentemente esaltata, la carne serve come oggetto di dominio e di sopraffazione definitiva. Esiste, tuttavia, anche un altro modo implicito per giustificare la pratica oppressiva, la cui aberrazione è resa più facile da perpetuare in nome della sua stessa pervasività.
Rimozione, sottomissione e sterminio sono resi naturali semplicemente in virtù del fatto che stanno già avendo luogo. Indipendentemente da quello che gli sfruttatori raccontano a se stessi, indipendentemente da quello che provano a far credere a se stessi coloro che volontariamente prosperano sulla sofferenza degli animali, non esiste alcuna narrativa e alcuna prova della superiorità, se non la pratica del dominio stessa. Se mai, è questa distruttività irrazionalmente razionale, logica, civilizzata e senza precedenti per dimensioni, ciò che pone gli esseri umani su un piano separato dal resto degli animali. Sulla base di prove paleontologiche, antropologiche e storiche, Fromm ha concluso che “il grado di distruttività cresce col crescere dello sviluppo della civilizzazione, piuttosto che il contrario”.(50) Ma che succederebbe se noi – gli animali civilizzati che siamo – volessimo rovesciare la situazione?

Note:
41 R. Gray, Sheep are Smarter than Previously Thought [in:] The Telegraph, http://www.telegraph.co.uk/science/science-news/8335465/Sheep-are-far-smarter-than-previously-thought.html.
42 ibid. Stabilire dei criteri in merito all’intelligenza è già un esercizio di potere. Dato che sono sempre gli umani che preparano i test, esiste (come minimo) la seria possibilità di distorsione intrinseca. E prendendo uno dei tanti esempi possibili, la maggior parte degli umani si chiamano l’un l’altro attraverso l’uso di nomi, ci si aspetta che li memorizzino e si identifichino con essi, e che rispondano quando sentono il proprio nome pronunciato. Gli altri animali non si chiamano l’uno con l’altro “Ivan,” “Janet,” o “Giuseppe.” Nei test, noi proviamo a chiamarli a modo nostro e, se si rifiutano di assecondare la nostra piccola idiosincrasia, sono loro che “devono essere stupidi.” Sullo stesso tema, merita di essere menzionata la motivazione strumentale dietro ai test a Cambridge . La Professoressa Jenny Morton, una neuroscienziata, “stava studiando l’intelligenza delle pecore nella speranza che potessero essere utili come modelli animali per il Morbo di Huntington, un disturbo neurodegenerativo che porta alla demenza e colpisce il controllo dei muscoli.” L’articolo conclude che, di sicuro, le pecore “offrono un grande potenziale per studiare le funzioni cognitive e anche per essere modelli di Morbo di Huntington.” Il senso critico suggerisce che potrebbero non sopravvivere al loro essere modelli scientifici; con gli umani al comando, è pericoloso essere giudicati stupidi, ed è male essere considerati intelligenti.
43 G. A. Mazis, Human Ethics as Violence Towards Animals: The Demonized Wolf. Non pubblicato, letto su http://www.spaziofilosofico.it/wp-content/uploads/2011/10/Mazis.pdf, 9.
44 Mazis, Human Ethics…, 8.
45 A. Weisman, The World Without Us. New York: Thomas Dunne Books 2007, 50.
46 ibid. Questo deve essere confrontato con le osservazioni alternative fatte da A. Kortland del 1962 e riportate da Erich Fromm. Kortland aveva assistito ad un esempio di “un vecchio scimpanzé canuto che è rimasto il capo del gruppo nonostante fosse fisicamente decisamente inferiore rispetto agli esemplari più giovani.” Fromm sostiene che “evidentemente la vita in libertà, con tutti i suoi stimoli gli aveva permesso di sviluppare una certa saggezza che lo qualificava come capobranco.” Ora, se la dominazione fisica fosse un priorità automaticamente presunta tra gli scimpanzé, una situazione simile non potrebbe verificarsi. Invece, osserviamo quanto le loro vite possano essere versatili, a seconda delle variazioni nelle condizioni di vita, popolazione ecc. Vedi E. Fromm, The Anatomy of Human Destructiveness. New York/Chicago/London: Holt, Reinhard and Winston 1973, 106.
47 Ch. Q. Choi, Female Chimps Kill Infants. LiveScience, May 14 2007. Http://www.livescience.com/1518-female-chimps-kill-infants.html.
48 Fromm discute della ricerca di C. H. Southwick sull’influenza dell’affollamento sull’aumento nell’aggressività animale. Afferma che “la diminuzione dello spazio priva l’animale di importanti funzioni vitali quali movimento, gioco, ed esercizio delle proprie facoltà…” Un altro aspetto del sovraffollamento, che probabilmente favorisce ancor di più un atteggiamento aggressivo, è la distruzione della struttura sociale di un gruppo animale. “Ogni specie animale [sociale conosciuta-KF] vive all’interno di una struttura sociale caratteristica per la specie. Gerarchica o no, la struttura sociale specifica della specie è il quadro di riferimento a cui l’atteggiamento dell’animale si adatta. Un equilibrio sociale sopportabile costituisce una condizione necessaria alla sua esistenza.La sua distruzione attraverso l’affollamento costituisce un’enorme minaccia all’esistenza animale, e l’aggressione è il risultato che chiunque si aspetterebbe, specialmente dato il ruolo difensivo dell’aggressione, specialmente quando la fuga è impossibile.” Nonostante le strutture sociali possano cambiare per una singola specie e non siano così fortemente predefinite come Fromm può aver pensato, la sua conclusione generale sembra corretta: sotto pressione per l’affollamento, la comunità animale tipicamente diventa “una folla malevola.” Vedi Fromm, Anatomy… 105-6.
49 ibid., 103.
50 Fromm, Anatomy…, 4.