Entriamo in una nuova sezione del numero 5/2014 i MicroMega. Nell’introduzione ci rendiamo subito conto che invece di avvicinarci di più all’obiettivo di declinare le specifiche dell’avere e del “portare” un corpo di donna, ci allontaniamo inesorabilmente. E’ evidente perché si parla in maniera generica di corpi:
Eppure molto spesso nel corso della storia il corpo è stato considerato il luogo della corruzione dello spirito, una “gabbia” che imprigiona e limita, invece che una “porta” che apre le porte della conoscenza.
[E non si parla della difficoltà che crea ad una donna la rappresentazione mediatica del suo corpo, il tentativo di controllo del suo corpo, con la pressione sociale che grava su di lei per avere dei figli, anche quando non li vuole, per avere come uno obiettivo quello di adeguare le sue fattezze a quelle volute dal maschio perché il nuovo/vecchio grande obiettivo delle vite delle donne è il matrimonio.]
Sempre nell’introduzione si cita il pezzo di Gloria Origgi ingiustamente, secondo noi, inserendolo in un discorso generico sul corpo, perché nello scritto di Origgi si parla di corpo in quanto corpo di donna. Ed è una cosa che riconosciamo all’autrice: il piacere di leggere finalmente un racconto di vita autentica che ci fa affacciare su una prospettiva in cui il corpo è attraversato da e registra emozioni di genere. Poi arriva il pezzo forte di questa introduzione:
Un corpo che, per le donne soprattutto, ha spesso rappresentato [dai che forse ci siamo…] una condanna: considerato alternativamente strumento del peccato o esclusivamente sede del potere procreativo ha per secoli costretto la donna alla secca alternativa prostituta/madre [Sara: cosa non si fa per non mettere il soggetto giusto al posto giusto: NON il corpo ha costretto la donna all’alternativa secca tra prostituta e madre MA il sistema economico/sociale/religioso dominato dal potere maschile, detto anche comunemente patriarcato. Lorenzo: e mica vorrai scrivere su MicroMega che esiste il patriarcato! Oh, questi so’ intellettuali eh, mica pizza e fichi].
La nostra poi continua presentando il testo di Giulia Sissa sui femminismi, parlando de i movimenti delle donne che – se nelle loro prime ondate, per necessità, hanno dovuto in qualche maniera mortificare il corpo [nell’Ottocento parliamo di necessità? Perché, avevano altra scelta per non venir semplicemente arrestate e internate, le femministe di allora? Non pare ci fossero molte alternative], per poter reclamare un cervello – oggi rivendicano con orgoglio il corpo erotico [evidentemente ce ne sono altri: quali? Quali sono i corpi non erotici? E poi anche nell’800 – sempre che le vaghe prime ondate siano quelle – di erotismo ce n’era, visti i dispositivi sociali per imbrigliarlo, no?] come strumento di lotta.
Il pezzo di Origgi, Corpo, dunque sono, (complimenti) comincia con questo cappello, che vi riportiamo senza interromperlo:
Il nostro Ego è il corpo: l’unità della nostra persona, che registra inesorabilmente ogni cambiamento, anche il minimo, della nostra vita. Piaceri e dolori vengono archiviati dal nostro sistema nervoso e si incidono nel nostro corpo, che diventa un libro su cui è scritta la nostra intera vita. L’autobiografia di ciascuno di noi si può leggere sul proprio corpo. Il nostro corpo parla di noi. Il nostro corpo siamo noi: il corpo è l’Ego.
[Ma che è, una preghiera? Perché questo stile iterativo, queste ripetizioni? E perché mettere insieme, in sette righe stampate, termini psicologici, fisiologici, semiotici, letterari, senza uno straccio di spiegazione, approccio? Tutto così, come una preghiera o un mantra: parole da ripetere che si autogiustificano per la loro musicale litania. E, attenzione, di donne – non è dei loro corpi che si deve parlare? – manco l’ombra.]
Poi comincia un racconto autobiografico che seppure coraggioso e che mette a nudo le emozioni e le scosse che hanno attraversato il corpo di Origgi, mette in evidenza anche i limiti dell’esperienza autobiografica utilizzata in un contesto che avrebbe la pretesa di coinvolgere un grande pubblico con intenti divulgativi e di riflessione collettiva.
Ne evidenziamo alcuni momenti salienti. Origgi è del ‘67, dice Wikipedia, e da piccola ha la madre che lavora in un ufficio, una casa a Milano con due bagni, uno per genitore: quello del padre con la moquette per terra, molto funzionale. Quello di mia madre più ampio, pieno di boccette di profumo e di spazzole, con una grande vasca nel quale facevamo il bagno anche noi bambine. Dopo il divorzio, il padre verrà a trovarla a Parigi, quando ero già ventenne. Non sappiamo se e quanto il corpo possa portare i segni del proprio ceto sociale di appartenenza, ma ci permettiamo di supporre che, da questi pochi dati, quei segni non siano tanto comuni a molte donne.
Poi una rivelazione:
il mio corpo è appena uscito da quello di mia madre, ha freddo, la notte i miei neuroni sognano di terremoti che ingoiano intere foreste e di cani rabbiosi che mangiano brandelli di un animale squartato. I sogni di neonata emersero durante una terapia psicoanalitica di molti anni dopo a Parigi, un esercizio orchestrato da Marguerite Derrida che mi permise un avventuroso viaggio nel tempo fino alle origini delle mie esperienze corporee. [Detto che andrebbe almeno circostanziata e spiegata l’utilità dei sogni di neonata, visto che l’esperienza di Origgi è stata presentata come esempio, una domanda: chi di voi può permettersi una terapia psicoanalitica a Parigi con la moglie di Derrida? Vogliamo continuare a pensare che tutte queste circostanze non abbiano condizionato né i famosi segni né il famoso corpo sul quale si sarebbero incisi? Cosa dovrebbe dire tutto ciò a tutte le donne, e agli uomini riguardo le donne?]
E ancora:
Ricordo che un pomeriggio d’estate in campagna, mentre Lina, la governante, leggeva per l’ennesima volta la storia di Alice nel paese delle meraviglie, il cane dei vicini mi morse il naso […] Per me fino a quel momento si era trattato di un dibattito politico di cui si discuteva a cena intorno all’approvazione della legge 194 […] Dovevo rientrare in Italia dopo anni di studi a Parigi, e invece il corpo decise di no, di restare dov’era e non solo: di lasciare il mio fidanzato italiano senza alcun motivo apparente, di dichiarare il mio amore a un uomo sposato che aveva il doppio dei miei anni e di inseguirlo durante un convegno in Inghilterra fino ad acquattarmi nell’armadio della sua camera per cercare di sedurlo! […] Lo seguii dappertutto, mi facevo trovare negli aeroporti all’imbarco dell’aereo, o nel luogo dove si recava per una conferenza […] Dopo molti anni, entusiasmi, dolori e peripezie, Dan e io ci trovammo in Messico sulle tracce del Nino Fidencio e della storia del fidenzismo […] Scrissi la mia autobiografia, ritornando sulle tracce della vita di mia madre e poi, come lei, lasciai il padre di mio figlio e rimasi incinta di un altro uomo. [Il problema non è la vita di Origgi, che è la sua, ha le sue specificità che rispettiamo e siamo ben contenti se lei è felice di essersela vissuta. Il problema è: perché proprio la sua vita – ovviamente diversa da qualunque altra – dovrebbe far capire a tutte le donne che il nostro corpo siamo noi se il racconto è una sfilza di esperienze davvero non comuni? Si può obiettare che, per dimostrare che la vita si registra sul corpo, usare una vita così eccezionale forse non è proprio la strada migliore?]
Anche perché questa che dovrebbe essere una mera piccola autobiografia, è condita da “massime” che lasciano abbastanza interdetti. Qualche esempio:
Il mio corpo parla di me. [E vedi ‘n po’…]
Di lì a poco, grazie alle pillole prescritte dal medico sessista, il mio sangue riapparve, provocandomi un totale stato di ebbrezza ormonale. [E come la mettiamo, allora, col fatto che gli elementi corporei posso essere modificati da azioni esterne? Come conciliamo questa evidenza con i segni che la vita lascia? Sono segni come gli altri, questi “provocati” deliberatamente?]
Perché se c’è una cosa inaccettabile – dal punto di vista della testimonianza – di questo brano di Origgi, è che a lei il corpo non sembra averlo messo in discussione nessuno. L’incontro col medico sessista, pare essere la messa in questione più critica che abbia mai subito. Un po’ pochino, per sperare in una condivisione efficace, per sembrare un minimo comun denominatore per tante e il loro corpo. In più, mentre si legge questa testimonianza, si ha la netta sensazione di essere inutilmente dei voyeur, perchè leggere la storia di una donna che mette a nudo le sue fragilità senza la possibilità di confrontarsi con lei, senza avere un contatto di qualsiasi tipo non ha alcun senso, anzi, è dannoso perchè è come un’esposizione, appunto. Ancora una volta un’operazione non a favore delle donne, delle loro lotte per l’autonomia e l’autodeterminazione del corpo e della persona tutta, ma un’operazione puramente di marketing editoriale, di dubbio gusto, pure.
Sarà l’ultima? Naaa…
Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini
(Qui le “puntate” #1 e #2)