Mi sono fatta violentare per amore

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla e Elena Zucchini.
Buona lettura!

Da giorni continuo a chiedermi se pubblicare o meno questa storia. La cosa più semplice sarebbe tenerla per me; alla fine, si è trattato di due sole aggressioni delle tante subite nella mia vita. Se sono riuscita a sopravvivere senza traumi, sopravviverò anche a questa… in fondo non è “così grave”…

Alla fine ho deciso di renderla pubblica, per diversi motivi. In primo luogo, perché anche io mi sono resa pubblica e visibile mediaticamente, in particolare su di un tema, quello della prostituzione, che scatena accesi dibattiti all’interno del femminismo. La mia posizione, in quanto prostituta (è così, mi guadagno da vivere prostituendomi dal 1989), è quella di difendere i diritti fondamentali delle persone che esercitano la prostituzione – non quella dei “protettori”, sia chiaro: lotto contro lo stigma della prostituta e il trattamento da “poverette” incapaci di prendere decisioni e assumersi rischi. Inoltre, sostengo che non tutti gli uomini che ricorrono al sesso a pagamento sono maltrattatori o stupratori, ma soprattutto che sono relazioni che si concordano tra adulti (le pratiche sessuali che verranno messe in pratica, l’obbligo dell’uso del preservativo, il tempo, ecc.);

Quando mi chiedono se io sia mai stata aggredita da un cliente – anche solo per mera statistica, dovrebbe essermi successo – la mia risposta è ‘no, non sono mai stata aggredita da nessuna delle decine di migliaia di uomini con i quali ho avuto rapporti’. Quali sono stati e chi sono i potenziali aggressori? Certo, sono stata testimone di aggressioni e ho pianto con alcune compagne, ma nel mio caso, ho imparato ad evitare situazioni potenzialmente pericolose. Allo stesso modo non accetto le molestie di strada e so affrontare i bulli. Dunque, in quale contesto sono stata aggredita? Nella vita quotidiana, fuori dall’ambito della prostituzione, e sempre, sempre, da parte di uomini con i quali avevo un precedente rapporto di fiducia: uomini della mia famiglia, vicini, capi dei miei vari posti di lavoro, colleghi e una delle mie “cotte” (leggasi il “brivido dell’innamoramento”)… Sì, ho subito molestie sessuali, abusi sessuali, e, infine, due violenze da parte di uomini di cui mi fidavo.

Quando ho pubblicato il mio libro ‘Una mala mujer’ (‘una donna permale’)  ho raccontato gli abusi e le violenze tra le quali sono nata e cresciuta, a partire da mio padre e mia madre; poi la violenza da parte dei vicini “teppisti” del quartiere, quando avevo 12 anni, e l’abuso sessuale di uno dei miei capi, in cui davvero mi sono sentita “puttana” e sporca – ma per paura di perdere il lavoro (un lavoro di merda, devo dire, perché non mi permetteva di riscattarmi dalla povertà) ho accettato tutto quello che mi ha chiesto, fingendo che mi piacesse tanto essere “la sua amante”, ma né lui mi piaceva né io volevo fare sesso con lui, lo facevo solo per paura. Non ho raccontato episodi di molestie fisiche, anche in adolescenza, da parte di due cugini, che mi lasciavano a metà tra il sentire l’emozione del proibito e il disgusto che mi dava il loro toccarmi, perché non mi chiedevano il permesso, semplicemente lo facevano e io li lasciavo fare…

E così, con queste premesse, arrivo al punto della questione: Come è possibile che una donna che in 26 anni di prostituzione non è mai stata aggredita da nessun cliente, subisca violenze sessuali – “palpate” sopra i vestiti da parte di una persona conosciuta e che ora non racconterò per non dilungarmi – nel giro di poche settimane? E dopo quell’episodio a 12 anni, che io pensavo mai si sarebbe ripetuto, sono stata violentata a causa dell’innamoramento, per quello stato di imbecillità che mi ha lasciato bloccata e mi ha impedito di reagire.

È un uomo che ho incontrato sui social network, che prima di questo episodio ammiravo molto, che un giorno mi ha approcciato e l’ammirazione che provavo mi ha fatto abbassare la guardia; ha saputo prima illudermi e poi farmi innamorare con belle parole, facendo apprezzamenti rispetto alle mie inquietudini e con un emozionante sesso virtuale del quale ho sinceramente goduto. Alla fine ero arrivata a credere che davvero gli importasse di me come persona, che non si curasse del fatto che mi guadagno da vivere come prostituta, perché mi aveva completamente inclusa nella sua vita quotidiana, mi aveva fatto incontrare la sua famiglia, mi raccontava di essere in procinto di separarsi, diceva di amarmi… Quando è arrivato il momento di incontrarci di persona, desideravo quel rapporto sessuale. Quello che non mi aspettavo, perché nulla del suo atteggiamento me lo aveva fatto sospettare, è che sarebbe stato così aggressivo.

Ci siamo incontrati in un hotel, sono arrivata presto e l’ho aspettato eccitata e ansiosa, tenevo pronto il preservativo sopra al comodino… Lui è arrivato puntuale e dopo quattro baci, quattro baci letteralmente, dati frettolosamente (che già mi dovevano allarmare), ha cominciato a toccarmi aggressivamente, in modo molto brutale, i seni, le parti intime sotto al vestito, e in quel momento mi sono bloccata, non sono riuscita a fermarlo, a frenarlo, a dirgli “non essere così brutale “, a respingerlo. Il resto? Non sono in grado di ricordare i dettagli, so che in un attimo ero a letto senza mutandine; lui si abbassava soltanto i pantaloni e mi penetrava, proprio così. Sì, se ne è venuto subito,  e finito il tutto si è alzato, “Devo andare” … tutto in pochi minuti …

E io piangevo, pensando: “Ma… cosa è successo? Sì… Sono stata violentata!”, E sì, “Non ha usato il preservativo”, “Non mi ha chiesto se potrei rimanere incinta, o se uso contraccettivi”, “Non mi ha chiesto cosa mi piaceva e cosa no”, “Non è stato come avrebbe dovuto”, “Come mai non sono riuscita a lasciare la stanza, e mi sono fatta toccare in quel modo?”… “Ma … ma… come ho potuto lasciare che mi trattasse così? E cosa devo fare adesso?”, “Perché mi è successo e perché ho abbassato la guardia?”. Dopo diversi giorni di riflessione, l’ho raccontato a due “amiche”, che l’hanno percepita più che altro come un’avventura andata storta. Solo una collega di lavoro, vale a dire una prostituta, mi ha dimostrato empatia ed è stata d’accordo con me nell’identificarla come violenza machista, e senza scrupoli, contro le donne –  inclusa sua moglie.

Tutto questo è il riflesso della violenza strutturale di genere. Un grave problema di educazione sessista, che ci portiamo dietro generazione dopo generazione, per cui le donne hanno difficoltà a trovare gli strumenti necessari a gestire emozioni come la paura o l’infatuazione. Quell’ “amore romantico” interiorizzato fin da piccole, e al quale ci arrendiamo, senza domande;  nonostante impariamo e sappiamo essere una costruzione culturale perversa, quanto è difficile non cadere nella sua rete! Colpisce tutte le donne, indipendentemente dal livello socio-culturale, in maggiore o minore misura … E mi fa arrabbiare ancor di più perché, nel mio caso, nel contesto del sesso a pagamento io controllo tutto e reagisco, non mi blocco.

Tanto potente e subdola è la violenza di genere. Tutte le donne sono vulnerabili, dunque c’è molto da fare se desideriamo lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato ed evitare che le future generazioni continuino a riprodurre questo schema. Sono indignata del fatto che non esista una educazione sessuale e affettiva dall’infanzia… non so che altro dire… spero solo che la condivisione di questa esperienza, se ancora c’è chi non riconosce l’entità di questa violenza contro le donne, renda pienamente consapevole di come si manifesta. Violenza non significa soltanto essere violentate con la forza, le minacce e le aggressioni fisiche, una violenza si verifica anche quando uno stato emotivo causato da questo tipo di educazione ci impedisce di reagire, e non solo per la paura di subire una violenza più grande o la paura del rifiuto o la paura che pensino che “sono una fica secca”.

Se mi definisco femminista è perché mi batto affinché le donne possano esprimersi come desiderano, ciascuna nel proprio contesto e nelle proprie circostanze personali, e che non siano più oppresse da questa cultura maschilista che ci rende incapaci di dire: “No, non così!” e “Niente e nessuno mi impedirà, per il fatto di essere donna, di realizzarmi e realizzare i miei sogni!”

 

Diventare donna significa diventare una puttana

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Traduzione di questo post di Akynos – aka The Incredible Edible Akynos, performer burlesque e intrattenitrice.

Chi poteva immaginare che diventare donna significasse diventare una puttana?

Di questi tempi, la libertà sessuale delle donne è talmente oppressa, che l’unico modo per essere considerata onesta è quello di adottare una facciata da madonna.

Le donne rispettabili non bestemmiano, né dormono in giro. Passano la vita rincorrendo la speranza di sposare l’uomo dei loro sogni tristi e ottenere qualche lavoro succhiasangue, mentre conservano la loro energia sessuale per quel solo uomo – per sempre. Un uomo che, vorrei aggiungere, a causa della sconcertante doppia morale della nostra società, può ritenere suo diritto divino scopare ogni donna che desideri, solo perché è un uomo.

Umiliata fino alla repressione sessuale, la donna non dovrebbe mai ricorrere ad atti di espressione sessuale, perché verrebbe considerata empia – indegna d’amore, un’emarginata sociale. E di fronte all’opportunità di scopare senza pensieri, non dovrebbe mai cercare un profitto economico.

Dispensare fica gratuitamente, anche se comunque deplorevole moralmente, è leggermente più rispettabile e viene considerato con maggiore indulgenza rispetto all’accettare denaro in cambio di preziosa energia sessuale. Energia che, se priva di adeguato sfogo, può far impazzire chiunque. Sarebbe come cercare di esistere senza il sole; non è possibile!

In una cultura misogina e sessualmente repressiva, nella quale gli uomini guadagnano ancora più delle donne, il lavoro è poco, l’istruzione universitaria sta dimostrando di essere una farsa, e troppi uomini approfittano emotivamente e fisicamente delle donne senza alcuna conseguenza, come può una cagna redimersi?

Può prendere posizione e rifiutarsi di essere trattata come una stupida senza cervello. Nonostante la natura misogina della nostra società, resta il fatto che la fica è ancora potere. E il sesso vende sempre. Le brave ragazze non sono le uniche a realizzarsi. Vendere sesso può essere il modo in cui gli uomini imparano a trattare le donne. E in cui le donne possono comprendere il loro proverbiale valore.

Quando ci si stanca della corsa all’inseguimento di amore e di denaro, una soluzione è quella di tagliarsi le vene – l’altra è ricorrere alla prostituzione. La prima volta che ci si vende ricorda la prima dose di eroina, o il risveglio spirituale di coloro che hanno perso la fede. Ci si rende conto che esiste un potere tra le cosce, nella loro consistenza – nella loro stessa presenza. Si diventa testimoni della guarigione delle anime solitarie che attraversano le nostre porte, anche quando tutto quello che vogliono è una sveltina, e non si avrà mai un’altra occasione di incontrarli.

Si impara a dire di no a situazioni che non si ritengono degne dei propri sforzi perché, puntuale come un orologio, qualcosa di meglio arriva sempre. Si impara che alcuni dei ragazzi più belli non sono sempre i migliori a letto. E che anche i ragazzi più belli pagano per averti.

Cresce in te un amore più grande per te stessa, la fiducia trabocca. Non solo ottieni i mezzi per vivere, ma mentre una volta ti credevi brutta, scopri che molte, molte persone ti trovano così attraente che sono disposte a spendere soldi per te.

Impari che dispensare energia sessuale è un dono che nasce dentro di te. Anche se la società sostiene che sia un modo indegno di guadagnarsi da vivere, ti senti un’onesta cittadina ogni volta che spalanchi le gambe. E capisci che ci sono molti modi di dare energia e che in un modo o nell’altro, siamo tutt* in vendita.

Ti rendi conto dell’importanza del sesso protetto – più che mai. Perché quando uscivi solamente con una persona, spesso ti comportavi da incosciente. Ma ora che il sesso è il tuo mestiere, sei prudente con i tuoi numerosi partner. In quale altro modo potresti pagarti le bollette se fossi affetta da una patologia sessuale che avresti potuto evitare?

Mentre un tempo eri insicura e permettevi all’interesse amoroso del momento di calpestarti, ora ti rendi conto di avere potere – perché hai molte scelte. Perché quasi all’improvviso, puoi ottenere denaro. Ti rendi conto che quando una persona ti paga, è più incline a rispettarti. Comprare sesso dà luogo a una dinamica diversa rispetto a quando viene offerto gratuitamente.

Prima di diventare una puttana eri una bimbetta insicura, regalavi gratis quello che poteva liberarti.
Non eri una donna allora. Ma, accidenti, se lo sei ora!

Sfatiamo sei miti sulle persone che lavorano nell’industria del sesso

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Traduzione di questo articolo di Laura Kacere e Sandra Kim da everydayfeminism.com, a cura di feminoska e Lorenzo Gasparrini. Revisione a cura di Eleonora (grazie, grazie, grazie!)


Vivono barcamenandosi tra visibilità e invisibilità, criminalizzazione e cittadinanza, sicurezza e pericolo, sfruttamento e autodeterminazione.
Le persone coinvolte nell’industria del sesso oscillano costantemente tra questi estremi. Tra stigma e invisibilità, subiscono violenze e discriminazioni fortissime, e ciononostante finiscono troppo spesso per essere tagliate fuori dal discorso della violenza sulle donne. A causa della rappresentazione miope e poco accurata che ne danno i media e dello stigma culturale che circonda il commercio del sesso, troppi sono i preconcetti che circondano le persone coinvolte nell’industria del sesso. Storicamente, il femminismo ha semplificato (e continua a semplificare) la questione, non si fa fatica a imbattersi in una delle cosiddette “guerre del sesso” delle femministe. Troppo spesso non riusciamo a vedere la complessità e la varietà dei soggetti coinvolti nel commercio del sesso, le motivazioni che stanno alla base della loro scelta, e il grado di autodeterminazione o, al contrario, coercizione vissute. Forse anche tu, o qualcun@ che conosci, sei stat@ coinvolt@ nell’industria del sesso. O magari, quello che sai in proposito rispecchia le rappresentazioni ipersemplicistiche del traffico sessuale e delle sex worker sui media, e non sei sicur@ di capire che differenza c’è tra le due cose. Malgrado ciò, puoi essere un alleat@ delle persone coinvolte nell’industria del sesso. Ma dato il numero di luoghi comuni esistenti relativi all’industria del sesso, è utile sfatare alcuni dei miti che impediscono di vedere il fenomeno per quello che è in realtà.

Mito#1: Le parole che usiamo per descriverle non contano granché.

La nostra cultura descrive le persone coinvolte nell’industria del sesso come prive di valore, sporche, tossiche, vittime, sopravvissute, portatrici di malattie, poco raccomandabili, criminali, come “troie” e “puttane”. Anche coloro che non vogliono utilizzare etichette deumanizzanti spesso non sanno come riferirsi alle persone che lavorano nell’industria del sesso. Molto spesso ti sarà capitato di sentire la parola ‘prostituta’. E anche se alcune di queste persone potrebbero identificarsi proprio così, questa parola ha forti connotazioni negative, e molte preferirebbero non sentirsi chiamare così. Dal momento che esistono differenze enormi tra le persone che entrano volontariamente nel commercio del sesso, quelle costrette a farlo e tutte le variegate situazioni che stanno in mezzo a questi due estremi, è importante utilizzare il linguaggio in modo da riflettere questo aspetto. Per questa ragione, coloro che entrano volontariamente nel commercio sessuale generalmente preferiscono il termine ‘sex work’ e spesso si identificano come sex worker. Questo termine è stato coniato dalle sex worker per potersi rinominare e per riformulare il concetto per sé stesse – e definirlo in quanto attività professionale e scambio economico. Il termine ‘tratta’, invece, fa riferimento a persone costrette con la forza, l’inganno e/o la coercizione a vendere prestazioni sessuali. Se sono minori, sono vittime sopravvissute allo sfruttamento commerciale sessuale di minori, e/o alla tratta. Per via della loro età, non è necessario l’uso di forza, inganno e/o coercizione perché venga considerata tratta, secondo le leggi federali statunitensi e alcune leggi nazionali.
Queste categorie non sono in realtà così semplici come sembrano, né sono fisse. Spesso le esperienze delle persone si situano in qualche punto lungo questo spettro, e le ragioni per cui le persone si trovano nell’industria del sesso possono cambiare nel corso del tempo. Ora stai facendo le ipotesi più disparate riguardo alle persone che rientrano in queste categorie, anche ora che stai leggendo? Nel discutere questo problema, può essere utile esaminare i propri pregiudizi e preconcetti sulle le persone coinvolte in questa industria.
In questo articolo, si fa riferimento all'”industria del sesso”, cioè alle persone e alle attività coinvolte nello scambio di atti sessuali in cambio di soldi, riparo, cibo, vestiti e altri beni. Questo termine è usato qui in senso più ampio per includere non solo prostituzione di strada, bordelli e agenzie di escort, ma anche coloro che sono coinvolti nel sesso di sopravvivenza, nell’industria del porno, negli strip club, e nel sesso con contatto indiretto (via telefono o Internet).
Usiamo il termine “persone nell’industria del sesso” per riferirci a persone che offrono sesso a pagamento. Tuttavia, di solito vi sono altri soggetti coinvolti con molto più potere e privilegi nell’industria del sesso – sono soprattutto trafficanti e acquirenti.

Mito#2: Le persone nell’industria del sesso sono tutte etero, povere, adulte, donne americane di colore che lavorano nelle strade.

Quando immagini una persona che fa parte dell’industria del sesso, che aspetto ha? Anche se c’è un buon numero di persone nell’industria del sesso che rientra nelle categorie elencate sopra, al suo interno c’è anche un’ampia e varia gamma di identità, e molte persone vivono e lavorano dove si intersecano molteplici forme di oppressione.
Dal momento che la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro sono spesso fattori che favoriscono l’ingresso di molte persone nell’industria del sesso molte persone nell’industria del sesso sono povere e di colore, ma molte altre provengono da ambienti borghesi, e tante sono bianche.
Troppo spesso, però, sono soprattutto donne e bambini di colore poveri a venire criminalizzati e incarcerati.
Nel settore del sesso, molte sono le donne eterosessuali (sia cis che trans), e la maggioranza delle persone che comprano sesso sono uomini eterosessuali, ma all’interno dell’industria del sesso consumano e si muovono persone di ogni genere e sessualità. L’immagine stereotipata del lavoratore del sesso è quella di una persona che “lavora sulla strada”, ma la tecnologia e Internet hanno un ruolo importante nell’industria del sesso e infatti, sempre più spesso, il sesso a pagamento passa attraverso la rete, mentre si continua a utilizzare altre forme di tecnologia come il telefono e i film. I minorenni costituiscono una parte importante dell’industria del sesso, e tendono ad essere bersagli facili dei trafficanti americani. Per via della loro età, i minori sono spesso marginalizzati e più vulnerabili, e questo vale per bambini e adolescenti di qualsiasi genere e razza. Inoltre, a causa dell’omofobia e della transfobia, molti giovani LGBTQIA+, in particolare di colore, scappano o vengono cacciat@ di casa, e lasciat@ senza un tetto. Ciò significa un rischio maggiore che debbano dedicarsi al sesso a pagamento per sopravvivere, o allo sfruttamento sessuale a pagamento. Anche se la maggior parte dell’industria del sesso negli Stati Uniti riguarda cittadini statunitensi, esistono molte reti nazionali straniere che fanno entrare negli USA donne da altri paesi per inserirle nel commercio del sesso a pagamento. Alcune di loro devono anche affrontare i pericoli derivanti dall’essere senza documenti e dall’incapacità di esprimersi in lingua inglese o di comprendere la società americana, che sono spesso ulteriori mezzi di controllo su di loro. L’industria del sesso esiste, come è evidente, in forme molto diverse e coinvolge soggettività assai differenti e, nonostante tutte queste differenze, coloro che sono già esclus@ e marginalizzat@ a livello sociale devono affrontare livelli assai più elevati di violenza individuale e strutturale rispetto alle loro controparti privilegiate.
Le soggettività che si trovano all’incrocio di identità privilegiate – come coloro che sono bianch@ e/o benestanti a livello sociale e/o economico – tendono a offrire sesso a pagamento attraverso mezzi meno visibili (per esempio, la rete) e sono meno esposte alla possibilità di venire arrestate. Nel contempo, coloro che sono più visibili e che sono soggett@ a livelli di controllo più alti – come le persone trans, nere e latin@, senza documenti, o con precedenti criminali, sono prese di mira e si trovano ingiustamente ad affrontare arresti e incarcerazioni in percentuali molto più elevate.

Mito#3: Le persone nell’industria del sesso? O sono tutte vittime o sono tutte autodeterminate!

Troppo spesso il discorso che ruota intorno all’industria del sesso si riduce alla nozione semplicistica che dipinge l’industria del sesso come un’attività sessista e vittimizzante, o al contrario come un’attività che dà forza e autodeterminazione alle donne. In realtà è ambedue le cose, nessuna delle due, e molto altro ancora. Le persone entrano nell’industria del sesso per vari motivi, che potremmo raggruppare in tre macro-categorie:
– Tratta: persone costrette ad entrare nell’industria del sesso tramite l’uso della forza, la frode o la coercizione se adulte, o semplicemente costrette a fare sesso a pagamento se minori (sfruttamento sessuale di minori).
– Necessità economica: persone convinte che il sesso a pagamento sia l’unica o la più percorribile modalità di guadagno per sopravvivere e soddisfare i propri bisogni.
– Sex work per scelta: persone adulte che scelgono di offrire sesso a pagamento.
Anche se abbiamo voluto semplificare utilizzando queste tre categorie, ciò non significa che per le singole persone il procedimento sia sempre così semplice e lineare. Molte delle persone nell’industria del sesso ci si sono trovate per ragioni o motivazioni diverse, che possono anche cambiare con il passare del tempo. Per esempio, molte donne cis e trans che si trovano ad affrontare una società transfobica e sessista, possono decidere di vendere sesso a pagamento perché è l’unico modo che hanno di sopravvivere e di sostenere le proprie famiglie. Alcune sono costrette da persone che hanno potere su di esse. Altre scelgono di entrare nell’industria del sesso e la vedono come un’altra forma di lavoro possibile. Alcune ancora la trovano un’esperienza arricchente e sono contente di dedicarsi al sesso a pagamento.
Una minorenne che venda sesso a pagamento viene considerata automaticamente una vittima di tratta e/o di sfruttamento sessuale di minori secondo le leggi federali (sebbene storicamente, e spesso ancora oggi sia considerat@ alla stregua di criminale dalle leggi dello stato). Ma spesso, dalla sua prospettiva, questa attività è percepita come autodeterminata poiché svolta per il proprio “fidanzato” adulto (ovvero il pappone).
A causa di questa vasta gamma di esperienze e delle differenze nel passato e nelle prospettive delle diverse persone nell’industria del sesso, la dicotomia vittimizzazione/autodeterminazione è chiaramente falsa e semplicistica.

Mito#4: Le persone nell’industria del sesso non possono essere stuprate.

Perché supponiamo che vi siano persone che “non possono essere stuprate”? Questo mito deriva da idee perpetuate dalla cultura dello stupro, che considera determinate categorie di persone – coloro che fanno sesso per denaro o altro – come impossibili da forzare ad avere un rapporto sessuale. Secondo questo preconcetto, le persone all’interno dell’industria del sesso non pongono confini né hanno potere decisionale sui propri corpi, e pertanto non possono rivendicare (o non rivendicare) il proprio consenso. Se una cultura considera una persona come priva della proprietà del proprio corpo, allora quel corpo diventa un corpo altrui, che non ha la possibilità né la capacità di dire sì o dire no.
Questo è un problema non solamente collegato allo stigma, ma che ha conseguenze reali nei rapporti con i clienti, la polizia e altri soggetti.
Secondo due studi del Sex Workers Project, il 17% delle sex worker intervistate ha denunciato molestie sessuali, abusi e stupri da parte della polizia. Ma dal momento che le persone all’interno dell’industria del sesso sono tanto marginalizzate e possono essere venire incarcerate, questi equilibri di potere permettono che sulle violenze compiute dalla polizia non vengano effettuate indagini. In realtà, la costrizione agli atti sessuali da parte dei poliziotti, così come la “scelta” tra il fare sesso o andare in galera, è un’esperienza assai comune. Denunciare questi eventi (ed essere prese seriamente) è abbastanza fuori questione. Al contrario, quando subiscono violenze sessuali, la nostra società tende a incolpare le persone nell’industria del sesso dichiarando che “se la sono cercata”. Ma la necessità del consenso nel sesso non scompare solo perché una persona fa sesso in cambio di soldi o altri beni.

Mito#5: le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi di vendere i propri corpi.

Sappiamo bene che la nostra cultura fa sentire in colpa le donne che fanno sesso e ciò si applica ovviamente anche all’industria del sesso. Lo stigma e l’idea che le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi, o che sia necessario farle sentire in colpa in maniera da farle uscire dall’industria, è completamente sbagliata. All’interno della categoria della tratta, questa stigmatizzazione ha condotto ad un altra dicotomia falsa eppure molto diffusa: quella che distingue tra vittima buona/vittima cattiva. Una “vittima buona” è qualcun@ (solitamente bianca, etero e giovane) che non aveva assolutamente alcuna idea del fatto che avrebbe dovuto vendere sesso e che è stata portata a farlo con l’inganno. Una ” vittima cattiva” è una persona (solitamente di colore) che sapeva che avrebbe dovuto vendere sesso e “ciononostante” ha deciso di dedicarcisi – anche quando vi è abuso per costringerla a restare.
Janet Mock, discutendo della sua esperienza nell’industria del sesso, trattò eloquentemente il tema della vergogna nel suo libro “Ridefinire la realtà”: “non credo che utilizzare il proprio corpo – spesso l’unico bene posseduto dalle persone marginalizzate, specialmente nelle comunità di colore povere e a basso reddito – per prendersi cura di sé sia vergognoso. Trovo vergognosa una cultura che esilia, stigmatizza e criminalizza coloro che sono coinvolte in economie sotterranee come il sex work quale mezzo per passare dall’indigenza alla sopravvivenza.” Indipendentemente dalla ragione che le ha portate a compiere quella scelta, le/gli alleat@ dovrebbero supportarle e lavorare per distruggere lo stigma che grava sulle persone nell’industria del sesso. Se vogliono lasciare il commercio sessuale, dovremmo fornire loro servizi di supporto che le aiutino nella transizione. E se non vogliono, dovrebbero comunque essere sostenute. I servizi destinati alle persone nell’industria del sesso dovrebbero essere organizzati in una maniera tale da rispettare la loro umanità e sostenere la loro capacità di iniziativa.

Mito#6: Le persone coinvolte nell’industria del sesso sono criminali.

Correzione: sono ‘criminalizzate’. Le persone nell’industria del sesso sperimentano un’intera gamma di violenze e minacce emotive, culturali e fisiche nelle proprie comunità e molto più spesso da parte della polizia. E chi è il bersaglio preferito della polizia e del sistema penale? Le donne di colore. Le donne trans. Le persone che vendono sesso per strada alla luce del sole. Le persone minorenni. Le persone con crimini o uso di droghe alle spalle. Le persone povere. Le persone straniere o senza documenti. In altre parole, le persone che si trovano già in una situazione di marginalizzazione e oppressione. Nonostante vengano criminalizzate anche le persone che comprano sesso a pagamento e i trafficanti, le forze di polizia non si focalizzano su questi soggetti tanto quanto su coloro che forniscono sesso a pagamento. Al contrario sono trattati con un’attitudine buonista stile ” i ragazzi sono pur sempre ragazzi” anche quando sono coinvolti dei minori. Le donne trans di colore sperimentano la discriminazione della polizia, sia che siano coinvolte o meno nell’industria del sesso. le donne Trans di colore spesso vengono schedate, arrestate e trattenute per adescamento poiché vengono considerate, da parte delle forze dell’ordine, attraverso la lente degli stereotipi razziali e sessuali. Fino a poco tempo fa, in ogni stato USA, i minori sotto i 18 anni coinvolt@ nell’industria del sesso venivano criminalizzat@ nonostante esistano leggi contro lo stupro e gli abusi sessuali su minori. Grazie alla legge “New York Safe Harbor Law” del 2008 e alle leggi di altri stati che sono seguite, stiamo assistendo ad una minore criminalizzazione e a una maggiore offerta di servizi a loro sostegno, anche se molto va ancora fatto.

***

Nonostante tutti i miti che circondano le persone nell’industria del sesso, è chiaro che esiste un ampio spettro di esperienze vissute, e quell@ di noi che scelgono di essere alleat@ hanno molto da imparare. Possiamo stare al fianco delle persone nell’industria del sesso lottando contro lo stigma, per la depenalizzazione, e fornendo servizi per aiutarle ad essere più sicure. Indipendentemente dal fatto che qualcun@ voglia lasciare il settore o rimanervi, possiamo lottare per difendere i diritti delle persone nell’industria del sesso e farlo attraverso modalità che ne favoriscano l’ autonomia e siano rispettose delle loro scelte. E quando le voci della gente nell’industria del sesso sono messe a tacere e le loro storie ignorate, è molto importante che noi lavoriamo per ascoltarle e per contribuire a farle risuonare.

Per ulteriori informazioni, si prega di fare riferimento a queste organizzazioni che sono impegnate a sostenere le persone coinvolte in diversi settori dell’industria del sesso:

GEMS e il loro film, Very Young Girls, sullo sfruttamento sessuale commerciale delle ragazze a New York
HIPS e il loro documentario, Be Nice To Sex Workers, sul sesso di sopravvivenza in strada a Washington, DC
Polaris: Lotta contro la tratta di esseri umani e la schiavitù moderna e il loro video, “America’s Daughters” , che è una poesia scritta da una sopravvissuta alla tratta
Sex Workers Project

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Laura Kacere scrive su Everyday Feminism ed è attivista femminista oltre che organizzatrice, volontaria in una clinica per aborti, studentessa e insegnante di yoga che vive e va a scuola a Chicago. Quando non studia o pratica yoga, pensa agli zombie, suona, mangia cibo Libanese e sogna di essere circondata da alberi. Seguila su Twitter @Feminist_Oryx.
Sandra Kim è fondatrice, amministratrice delegata ed editrice capo di Everyday Feminism. Integra esperienza personale e professionale su trauma, trasformazione personale e cambiamento sociale attraverso un’ottica femminista.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

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(Aiko. Detail. Collage on canvas. Photo © Jaime Rojo).

Intervista a Dolores Juliano di Itziar Abad. Traduzione di Serbilla Serpente revisione di feminoska, articolo originale qui.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

L’antropologa Dolores Juliano sostiene che, siccome “il modello di sposa e madre devota è davvero poco attraente, l’unico modo per ottenere che le donne vi si adeguino è assicurarsi che l’altra possibilità sia peggiore”.

Dolores Juliano (Necochea, Argentina, 1932) ha studiato a fondo le strategie culturali e di dominazione di genere contemporanee, così come i saperi e le pratiche delle collettività oppresse che le fronteggiano. El juego de las astucias. Mujer y construcción de mensajes sociales alternativos (1992); La prostitución: el espejo oscuro (2002); o Excluidas y marginales: una aproximación antropológica (2004) ce lo raccontano bene. Questa dottora in Antropologia e professora dell’Università di Barcellona ha fatto parte, fino al suo pensionamento, del progetto ‘Mujeres bajo sospecha. Memoria y sexualidad (1930-1980)’ condotto da Raquel Osborne. In esso, Juliano analizza i modelli di sessualità vigenti durante il franchismo e come l’omosessualità femminile fosse condannata al silenzio e all’invisibilizzazione.

I modelli di sessualità femminile sono cambiati rispetto a quelli dell’epoca della dittatura, oppure è cambiata la forma ma la sostanza è la stessa?

E’ cambiata la società. La chiesa cattolica mantiene i modelli sessuali tradizionali. L’idea di peccato o di devianza è molto presente in essa e nelle religioni monoteiste. Nel protestantesimo ci sono modelli puritani assolutamente fondamentalisti. Il dettato delle leggi religiose sembra ugualitario, ma nella pratica non è mai stato così.

Queste religioni sono più permissive con la sessualità maschile?

Sì, e ciò ha a che vedere con i modelli religiosi e l’organizzazione sociale. Le società patrilineari e patrilocali sono molto restrittive rispetto alla sessualità femminile.

Leggi tutto “Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone”

Sesso dell’orrore – Intervista a Diana Pornoterrorista

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“Là fuori c’è una guerra”, dichiara il manifesto Pornoterrorista sottoscritto da Diana J. Torres: una guerra contro l’ordine sessuale e l’imposizione di genere, nella quale si vince solamente combattendo il nemico con la stessa violenza. La performer spagnola, oltre a dire questo e molto altro nel suo libro Pornoterrorismo, ci mette il corpo, per chi desidera vederlo e anche per chi non vuole.

di Laura Milano e Nico Hache, (traduzione di feminoska, revisione di Lafra e Serbilla. Articolo originale qui).

La donna nuda con il passamontagna in testa e la granata-dildo in mano non esita ad affermare che “quando dall’altra parte non hai nessuno con cui dialogare, ciò che resta è il terrorismo. Il pornoterrorismo attacca la violenza contro ciò che è fuori dalla norma. Cioè, mette in scena – come tutta la postpornografia – sessualità sovversive. Questo è terrorista”. Lei è Diana Pornoterrorista, un mostro sessuale meraviglioso e inquietante dalla testa ai piedi (o, per meglio dire, dagli anfibi alla cresta). Il suo lavoro come artista di performance iniziò dieci anni fa nella nativa Madrid, con il gruppo di cabaret gore-porno-trash Shock Value e oggi è uno dei punti di riferimento del postporno in Spagna. Attualmente risiede nella città di Barcellona, ​​da dove gestisce la sua centrale operativa postporno e di attivismo queer con un collettivo di artisti locali.

Diana è una guerriera esperta ai margini del genere, una donna che ama pensarsi come costruita alla periferia di quello che è il prototipo di donna (e anche di uomo). E’ un’esibizionista dichiarata, che sale sul palco per recitare le proprie poesie al ritmo di orgasmi terrificanti. Un corpo e una voce determinata a combattere per la liberazione dei corpi, la riappropriazione e il riscatto dei loro desideri più profondi.

Che ruolo ha il corpo nel pornoterrorismo?
-Ne è l’anima. Non si può ignorare il corpo nel pornoterrorismo. Questa è politica del corpo e perciò non considero nessun altro modo di fare politica. I nostri corpi non normativi dimostrano che esistono altre opzioni e stanno anche terrorizzando un pochino. Per questo preoccupano.

Perché hai scelto di lavorare attraverso la performance e la poesia?
-Sul palco mi sento al sicuro, non ho paura di nulla. E mi sembra assai preziosa la possibilità di metterci la faccia. Mi sento più insicura nello scrivere un post sul mio blog, dietro allo schermo. La stessa cosa è successa quando ho scritto il libro, Pornoterrorismo; mi è piaciuto molto farlo, ma mi sento decisamente più a mio agio quando vedo le reazioni delle persone contemporaneamente a quello che sto facendo.

Nelle tue performance sono sempre presenti elementi di S/M, fist-fucking, squirting. Perché queste pratiche sessuali sono terroriste secondo te?
-Non considero il fist-fucking sovversivo perché non è doloroso. Per quanto sia visivamente forte, non fa male. Il BDSM, invece, è terrorista, sovversivo, perché mette in gioco il dolore come piacere.

Il dolore però non è necessariamente presente nelle pratiche BDSM.
-Questo è vero, però c’è sempre una situazione di dominazione. E metterla in discussione è sovversivo. Non sono importanti in quel contesto le questioni economiche, etniche, culturali o altro. Chiunque può dominare chiunque, i rapporti di potere consolidati si trasformano. Il dolore è di solito una punizione; trasformarlo in un premio, in piacere, è sovversivo. Allo stesso modo lo squirting è terrorista, e lo uso per mostrare l’orgasmo femminile, negato dalla medicina e anche dal porno. Quello che non si vede non esiste.

IL CORPO E’ IL MESSAGGIO
Sale sul palco una persona ingessata dalla testa ai piedi, a passo molto lento. Sul suo corpo possono leggersi gli insulti che il pubblico ha scritto su richiesta della performer. Il silenzio carico di tensione che avvolge la sala è bruscamente interrotto dal suono delle furiose sculacciate ricevute da questo corpo ingessato. Grida, dà voce agli insulti stampati sul corpo, si lascia cadere a terra mentre rompe le fasce e invita il pubblico a spogliarsi. Dopo aver recitato le sue poesie, si rimuove gli aghi infilati in fronte, leccandosi il sangue che cade dalle ferite, si fa penetrare dal pugno di una collaboratora. Diana usa il proprio corpo come arma da guerra in ogni performance, non solo come mezzo ma come fine in sé.

Hai affermato di usare il piacere come cavallo di Troia per trasmettere il messaggio. Qual’è questo messaggio? Il piacere è solamente uno strumento?
-Non è solo uno strumento, il piacere è parte di quel messaggio. Quando le persone sono sedute di fronte a un palco a guardare uno spettacolo che sanno chiamarsi Pornoterrorismo, alcune sono già aperte alla proposta. Ma altre vengono solo per la parola “porno”, non per la parola “terrorismo”, capisci? E alcune persone vengono perché sanno che ci saranno tette, culo e sesso dal vivo. Quindi penso che il piacere sia come un amo di modo che, quando il pesciolino abbocca per bene, lì nel teatro può liberarsi di tutto il resto.

E che cosa è che vuoi liberare nello spettatore?
-Questa è la violenza di cui ci nutriamo ogni giorno col telegiornale, che ci circonda. Durante l’ultima performance ci sono stati alcuni momenti molto violenti, come il numero dei peccati della Chiesa, dove faccio un elenco dei suoi peccati, che potrebbero anche essere definiti crimini. E sono argomenti che la gente non manda giù facilmente. Quindi penso che arrivare con una predisposizione per l’eccitazione sessuale ti metta in uno stato di vulnerabilità. Questo l’ho capito una volta che stavamo guardando il telegiornale allo scoppiare della guerra in Iraq: era un vero massacro. E ho cominciato a pensare che non è un caso che i telegiornali vengano trasmessi proprio all’ora dei pasti, li trasmettono proprio in quel momento nel quale inghiotti tutto. Così ho pensato, “perché non utilizzare queste strategie – che sono manipolatorie – per il mio stesso messaggio?

Che impatto credi abbiano le tue performance sul pubblico?
-Spero di aiutare le persone che assistono al mio lavoro a scoprire le diverse forme della propria sessualità. Ho scelto di non lavorare otto ore al giorno per dedicare tutto il mio tempo a studiare questo. Leggo molto, penso e poi lo restituisco masticato e facile da capire. Ci sono intellettuali che lavorano in questo campo da un altro punto di vista, leggono Judith Butler e poi spiegano la teoria di genere, ma davvero poch* l* capiscono. Io cerco invece di renderla accessibile a tutti, e qui, naturalmente, ha luogo a volte una certa discriminazione intellettuale, dove il discorso accademico cerca di legittimarsi sugli altri modi di affrontare la sessualità.

Nel tuo libro affermi che “scoprire la propria sessualità è anche scoprire come il nostro sesso non ci appartiene affatto.” Chi ci ha derubato della nostra sessualità? Come possiamo riprendere il controllo dei nostri corpi e dei piaceri?
-In primo luogo, il patriarcato. Poi la Chiesa. Poi la scienza, con la medicina come strumento. E infine il capitalismo. Questa è la catena di istituzioni che hanno tentato di applicare il controllo su corpo e sessualità. E dobbiamo uscirne, dobbiamo poter scopare con il culo senza avere il prete nella stanza a dirci che è peccato. Non è facile, perché è qualcosa che abbiamo dentro di noi da quando siamo molto piccol*, dal momento che ci assegnano un genere biologico. Ma si realizza con l’attivismo, con una vita attiva basata sul lavoro sul corpo.

Nell’ambito di questo attivismo, vedi nel femminismo il percorso corretto per la liberazione del corpo e della sessualità?
-No, perché in molti casi il femminismo è reazionario ed escludente; io stessa mi sento esclusa dal femminismo, nelle sue categorie non c’è posto per me. Il femminismo è per la liberazione delle donne, ma respinge la prostituzione, il porno, il sado, considerandoli forme di violenza contro le donne. Io sono a favore della prostituzione e del sado e faccio porno. Respingo il femminismo perché lascia fuori uomini e trans. Di fronte al rifiuto del maschile, per esempio, propongo l’appropriazione del fallo, ossia di appropriarsi in maniera autodeterminata dei simboli del patriarcato piuttosto che distruggerli.

Perché ti identifichi con il transfemminismo ? Quali sfide implica l’etica transfemminista contro l’ordine sessuale normativo?
-La sessualità, il genere, le rappresentazioni del corpo, non possono essere isolate dal contesto economico globale, politico e istituzionale in cui si svolgono. E questo contesto è il capitalismo. Il transfemminismo implica coerenza con la lotta anti-capitalista. Io mi schiero contro il femminismo che proclama la liberazione delle donne, ma allo stesso tempo utilizza Windows invece di un software libero. Le lotte che si instaurano nel campo della sessualità non possono essere separate dalla lotta contro il capitalismo, la coerenza è necessaria a questo proposito. Lo stesso accade al contrario, quando l’attivismo anti- capitalista non include il lavoro sul corpo. Questo è ciò che accade con il movimento 15 -M qui in Spagna, le/gli indignat* che vogliono la rivoluzione, ma poi tornano a casa e non sanno scopare se non nella posizione del missionario. Senza una politica del corpo e del genere nessuna rivoluzione è possibile, né ha senso la sovversione sessuale staccata dalla lotta contro il capitalismo.

Quali azioni specifiche possono essere adottate per attuare una politica del corpo e di genere?
-Attraverso il transfemminismo, ad esempio, portiamo avanti la campagna STOP Transpatologización, con la quale reclamiamo la necessità di rimuovere il transessualismo dal DSM IV e dagli altri manuali internazionali di diagnosi mediche. Il transessualismo è definito come un disturbo della personalità. Recentemente abbiamo esaminato il nuovo progetto e non appare più, è stato rimosso, ma invece la sindrome premestruale è stata inclusa in quanto condizione temporanea. Pensa! Una volta al mese tutte le donne sono pazze.

In Argentina è ora in corso un dibattito sulla legge sull’identità di genere, che permetterà alle persone trans di cambiare ufficialmente il proprio nome e sesso senza spiegazioni.
-Beh, sono più avanti di noi. Qui si deve ancora passare attraverso un processo medico-psichiatrico di due anni, dopo di che l’istituzione medica decide se sì è o meno in grado di prendere questa decisione.

LA RETE POSTPORNO
Se il postporno funziona principalmente a partire dai collettivi e dall’autogestione nella produzione, il lavoro di Diana è come un filo in questa rete di volontà interessat* a creare nuove e sovversive rappresentazioni della sessualità. In questo senso la proposta Pornoterrorista trova nel postporno il proprio inquadramento e la propria rete di alleanze a partire dalla quale scagliarsi in modo transfemminista, creativo e al di fuori della logica commerciale contro il porno mainstream. Una di queste linee di azione e di lavoro collettivo trova la propria sintesi nella Muestra Marrana, un festival porno non convenzionale autogestito e organizzato da Diana, Claudia Ossandón e Lucia Egaña che ha luogo ogni estate nella città di Barcellona. Il festival è un’occasione non solo per presentare le produzioni audiovisive legate al postporno, ma anche per creare uno spazio di scambio e di dibattito sulle molteplicità sessuali sovversive e sulle pratiche che stanno ai margini del sistema eteronormativo. “La pornografia è fatta per vendere certe pratiche e certi corpi. La differenza fondamentale è che nel postporno possono comprendersi tutte le pratiche. Se ti eccita metterti una fragola nel culo o se mangiando una banana hai un orgasmo, così sia. Per la pornografia sarebbe un’aberrazione o una di quelle pratiche che si inseriscono nel genere ‘crazy and funny’. E la cosa più importante del postporno è che include le donne come produttore, registe, attore”, dice Diana. Pensando a queste ultime, la questione degli assenti è inevitabile.

Dove sono gli uomini nel postporno?
-Davvero non lo so. Li aspettiamo. Non ho alcun problema a fare dei laboratori con i ragazzi, fare postporno o qualsiasi altra cosa. Ma non vengono. C’è molta più paura nei ragazzi in generale, e il fattore problematico è dato dal fatto che le donne e gli uomini con i quali si relazionerebbero non gli piacciono, perché siamo corpi poco normativi. Sto aspettando questo momento, adesso mi piacerebbe giocare con più uomini, ma è molto difficile. L’ultima volta che ho giocato con gli uomini erano completamente impenetrabili, esseri pieni di paure e frustrazioni. In questo senso penso che la pornografia abbia fatto molto male agli uomini, danni soprattutto interiori. Molte donne non hanno mai visto porno nella loro vita, al contrario è quasi un insegnamento culturale che i ragazzi vedano i porno. E questo ti rimane dentro. Poi improvvisamente scoprono le pratiche postporno che sono diverse da ciò che vedono nel porno, che non confermano quello che era apparentemente così importante e chiaro, si sentono come nudi.

In questo senso, gli uomini hanno molto più lavoro da fare. Non che tra noi non si parli di sesso, ma lo facciamo in modo diverso.
-È vero, la pornografia e le modalità di acculturazione della sessualità maschile sono frustranti perché non sono reali. Né il tuo corpo è così, né le tue pratiche sono così, né ciò che ti piace è così. Questo dovrebbe indurre gli uomini a fare postporno, ma non succede. Temono che arrivi una tipa punk con la cresta a scoparli nel culo.

Sembra che ogni contatto con il culo dell’uomo, qualsiasi tipo di penetrazione si riferisca ad una identità omosessuale.
-Certo, si parte dal presupposto che le donne non penetrano e gli uomini non sono penetrati. Quindi, se ti penetrano e soprattutto se lo fa una donna, smetti di essere un uomo e diventi un finocchio. E’ come una regola matematica di base alla quale tutt@ hanno creduto e che è come un fantasma che informa gli ani di mezzo mondo. C’è un testo molto interessante di Beatriz Preciado chiamato Terrore Anale, che parla di queste paure dell’analità e della penetrazione.

Cosa credi manchi al postporno?
-Il postporno è considerato una forma di rappresentazione artistica della sessualità, ma non commerciale. In sintesi, è considerato come un movimento. Perché alla fine siamo come topolini che lavorano sempre ai margini. Sarebbe bello se ci fosse un riconoscimento per la gente che ha lavorato per anni su questo. Sono dieci anni che lavoro come artista e finora non ho visto alcun frutto a livello istituzionale, artistico e nemmeno di pubblico.

Questo riconoscimento di cui parli significherebbe entrare nel circuito dell’arte istituzionale. Pensi che un ampliamento del territorio di influenza del postporno significherebbe una perdita del proprio potere sovversivo?
-Mi piacerebbe vendere la mia arte ai musei, ma non credo sia possibile. Sempre che questo non implichi auto-censura, non vedo nulla di male nel raggiungere più persone e ottenere soldi dallo Stato. L’anno scorso, per esempio, abbiamo organizzato nel Museo Reina Sofia di Madrid un evento chiamato La Internacional Cuir, dove abbiamo fatto le nostre performance. Ma è un’eccezione, perché di solito non viene comprato. Il postporno e il pornoterrorismo sono periferici, marginali.

Dunque che cosa si è raggiunto finora con il postporno?
-Si è ottenuto che il femminismo sia più divertente e arrapato rispetto a prima, che sia anche più inclusivo e meno discriminatorio. Penso che sia uno dei migliori risultati del postporno: trasformare il femminismo in una cosa sexy. Anche a livello artistico è molto importante, infatti il postporno sta rimodellando il mondo dell’arte. In sintesi, i risultati sono sessualizzare il femminismo e sessualizzare il mondo dell’arte. E farlo in modo politico, etico.

Scopri il sito di Diana qui.

Finalmente anche in Italia, l’artista e performer Diana J. Torres presenterà ad Aprile, nel corso di un indimenticabile tour, il suo libro Pornoterrorismo.
Il tour di presentazione si terrà tra il 9 e il 21 di aprile 2014.
Le città che ospiteranno l’evento saranno:

9 aprile: PALERMO
10 aprile: NAPOLI
11, 12, 13 aprile: ROMA
14 aprile: BOLOGNA
15 aprile: GENOVA
16 e 17 aprile: MILANO/RHO
18 e 19 aprile: TORINO

ADOTTA UNA PORNOTERRORISTA!
Sul sito di crowdfunding Verkami puoi acquistare Pornoterrorismo in prevendita, e sostenere così il tour di Diana in Italia.
Aderisci, diffondi e PARTECIPA!
Evento Facebook qui.

Cerchiamo di capirci: sex worker e vittime di tratta non sono la stessa cosa

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Nel giorno precedente il Super Bowl di quest’anno, articoli circolati sulla Rete segnalavano il massiccio aumento di traffico sessuale che si verifica in occasione dei grandi eventi sportivi. Che questa tendenza sia o meno reale, la tratta è un problema serio. Quarantacinque persone sono state arrestate a New York durante il Super Bowl per aver costretto più di una dozzina di ragazze alla schiavitù sessuale. Seppure queste ragazze sono state vittime di sfruttamento sessuale, alcune agenzie di stampa hanno distorto la realtà riferendosi a loro come “sex worker” e “prostitute minorenni”. In un altro recente articolo su di una vittima di tratta di circa 15 anni, l’emittente CBC Canada ha definito la ragazza “una sex worker adolescente.”
Queste scelte lessicali sono fuorvianti, e sebbene sia convinta che spesso le persone danno troppa importanza alle etichette, la distinzione tra una persona adulta che sceglie di vendere sesso per denaro e un’altra il cui corpo è sfruttato contro la propria volontà è fondamentale quando si discute di prostituzione, schiavitù, e libertà. La capacità di fare scelte e decidere del proprio destino è sempre più accettata, e i media distorcono il valore della scelta quando usano “sex worker” in modo intercambiabile con “vittima di tratta”.
Pertanto è ovvio che la tratta sia una pratica spaventosa. I trafficanti infliggono danni terribili alle proprie vittime – molte delle quali sono incredibilmente giovani e già patiscono la mancanza di sostegno familiare – nei loro anni di formazione e le sottopongono ad abusi, costringendole a correre rischi gravi per la propria salute, e derubandole di qualsiasi autostima al di fuori del valore monetario che hanno per i propri “padroni”.
E’ giusto provare repulsione per i pericoli e le brutalità del traffico di esseri umani. Ma è la rinuncia forzata al proprio libero arbitrio di persone ad essere forse l’aspetto più ripugnante della schiavitù sessuale – anzi, di ogni schiavitù.
Anche alcuni gruppi anti-prostituzione confondono o ignorano la distinzione tra lavoratrici volontarie e vittime di coercizione. Considerano il lavoro sessuale come intrinsecamente foriero di sfruttamento, poiché lo reputano una professione degradante che richiede alle persone di mercificare il proprio corpo e che le sottopone a maggiori rischi per la salute. La decisione di vendere sesso non sarebbe mai, quindi, una scelta informata per queste persone, ma imposta loro da circostanze finanziarie restrittive o come reazione auto-distruttiva a seguito di trauma infantili.
Prima di tutto, se davvero le donne decidono di diventare sex worker per l’assenza di altre opzioni, togliere loro quell’unica opzione come potrebbe essere un beneficio? Se le/gli attivist* anti-prostituzione fossero davvero preoccupat* delle scelte limitate che si offrono alle sex worker, dovrebbero a quel punto combattere le leggi oppressive che impediscono alle persone di perseguire altri percorsi imprenditoriali.
A quel punto, se nuove opzioni divenissero disponibili e alcune persone scegliessero ancora di lavorare nell’industria del sesso, non si potrebbe più affermare che il lavoro sessuale è una professione illegittima scelta per disperazione. E, a proposito, dovremmo davvero dubitare di qualsiasi gruppo che affermi di promuovere l’indipendenza delle donne e contemporaneamente sostenga che alcune donne sono incapaci di fare scelte informate.
 
Sì; molte delle decisioni che prendiamo sono influenzate dal nostro passato e a volte vanno a nostro discapito, ma non siamo vittime delle nostre scelte. Ed è una contraddizione affermare che una persona che vende sesso non è un agente morale perché sta reagendo ad un trauma emotivo, mentre una persona che compra sesso è un agente morale e la sua è intrinsecamente una scelta di sfruttamento, sia che derivi da un trauma emotivo o meno.
Il lavoro sessuale richiede la mercificazione del proprio corpo e l’accettare un aumento delle possibilità di rischi fisici, ma lo stesso avviene ad un giocatore di football professionista. A differenza delle sex worker, non trattiamo i giocatori di football come vittime, anche quando la scelta di diventare un atleta è stata la conseguenza dell’avere poche altre competenze spendibili sul mercato.
La distinzione tra la scelta di vendere sesso e la scelta di vendere abbonamenti stagionali si basa su una visione puritana del sesso come qualcosa di sporco. Anche se le/i lavorator* di entrambe le professioni mercificano il proprio corpo per il divertimento altrui, la società approva la decisione di vendersi in campo sportivo, ma denuncia la decisione di vendersi per sesso e chiama questa scelta degradante, francamente una definizione davvero offensiva. Nessuna scelta fatta da una persona per sostenere se stess* o la propria famiglia, senza danneggiare altr*, è degradante.
Le vittime di tratta, a differenza delle sex worker o dei giocatori di football, non hanno scelto di mercificare il proprio corpo e correre perciò gli eventuali rischi; i loro aguzzini hanno scelto per loro. La mancanza di scelta da parte della vittima, non la natura dell’industria del sesso, è ciò che le rende vittime e necessita di intervento. Queste persone non sono “sex worker” perché il sesso senza il consenso è stupro e il lavoro senza consenso è schiavitù. Chiamare le vittime di tratta sex worker o prostitute mina la gravità della violazione nei loro confronti, così come mina l’autodeterminazione delle persone, uomini e donne, che lavorano volontariamente nell’industria del sesso.
(Articolo originale di tradotto da feminoska)

Intervista ad Angela Davis

Angela-Davis

Questa intervista, di qualche anno fa, è ancora molto attuale per quanto attiene le questioni discusse, ovvero la depenalizzazione del sex work e le questioni relative all’attivismo e alla complessità degli scenari attuali di lotta. Traduzione di feminoska, revisione di Claudia.

Siobhan Brooks : Come descriveresti la tua esperienza durante il periodo d’incarcerazione con le sex worker? Come venivano trattate?

Angela Davis : Una delle cose che ricordo molto chiaramente della mia incarcerazione a New York, 27 anni fa, era il gran numero di sex worker continuamente arrestate. Durante le sei settimane della mia incarcerazione presso il carcere femminile di New York, mi ha colpito il fatto che i giudici erano molto più propensi a rilasciare le prostitute bianche, sulla base di garanzie personali, di quelle Nere o portoricane. Quasi il novanta per cento delle prigioniere di questo carcere – alcune delle quali in attesa di processo come me e altre che già scontavano pene – erano donne di colore. Le donne parlavano molto dei vari modi in cui il razzismo si manifestava nel sistema di giustizia penale. Parlavano di come la razza determinasse chi finiva in galera, chi restava in galera e chi no. Durante il breve tempo in cui sono stata lì, ho visto un numero significativo di donne bianche entrarvi con l’accusa di prostituzione. La maggior parte delle volte venivano rilasciate nel giro di poche ore. A causa dei problemi che molte donne si trovavano ad affrontare nel tentativo di ottenere i soldi per la cauzione, abbiamo deciso di lavorare con donne del ‘mondo libero’, che stavano organizzando una raccolta fondi per le cauzioni delle donne. Le donne all’esterno organizzarono la struttura e raccolsero il denaro e noi organizzammo le donne all’interno. Coloro che aderirono alla campagna convennero di continuare a lavorare con il fondo per le cauzioni anche una volta fuori, quando la propria cauzione venne pagata dai fondi raccolti dall’organizzazione. Molte sex worker si unirono a questa campagna.

SB : A quali abusi hai assistito nei confronti delle sex worker di colore?

AD : Non ricordo discriminazioni specifiche verso le sex worker, ma ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti a tutte le prigioniere. I prigionieri, in particolare le donne detenute, erano e sono ancora trattat* come se non avessero diritti. Vengono infantilizzat* – per esempio, sono chiamate “ragazze”. Non solo nella mia esperienza personale in Dancing as a prisoner, ma anche nel lavoro che ho svolto come insegnante nel carcere della contea di San Francisco – dove Rhodessa Jones realizza rappresentazioni teatrali corali – ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti alle donne prigioniere. Spesso le guardie e il personale della prigione sono del tutto inconsapevol* di inferiorizzare i/le prigionier*.

SB : In uno dei tuoi saggi, Donne, Razza e Classe, hai menzionato alcune prostitute che cercarono di formare un sindacato nella prima parte del secolo. So che sostieni il tentativo de* sex worker di organizzare il proprio ambiente di lavoro. Volevo sentire con parole tue quale sia la tua opinione generale in merito all’industria del sesso.

AD: Comincio dicendo che penso che l’industria del sesso dovrebbe essere depenalizzata. In paesi come l’Olanda, dove l’industria del sesso è stata depenalizzata ci sono, in conseguenza, meno pressioni sul sistema della giustizia penale per quanto concerne le donne. La criminalizzazione continua dell’industria del sesso è in parte responsabile dei numeri crescenti di donne che transitano in carceri e prigioni. Questo fenomeno di espansione esponenziale delle popolazioni carcerarie è parte del complesso industriale carcerario emergente. Non solo le popolazioni di carceri e prigioni stanno aumentando ad una velocità incredibile, le società capitaliste hanno ora una maggiore partecipazione nel settore punitivo. Nuove carceri sono in costruzione, sempre più aziende utilizzano il lavoro carcerario, più prigioni sono state privatizzate. Allo stesso tempo, più donne stanno andando in prigione, più spazi vengono creati per le donne e, di conseguenza, un numero sempre maggiore di donne andranno in prigione in futuro. A mio parere, la continua criminalizzazione della prostituzione e dell’industria del sesso in generale, alimenterà l’ulteriore sviluppo di questo complesso industriale carcerario. Lo smantellamento del sistema del welfare nell’ambito della cosiddetta legge di riforma del welfare porterà probabilmente ad una ulteriore espansione dell’industria del sesso, così come l’economia sommersa della droga. La criminalizzazione dell’industria del sesso contribuirà pertanto a attirare sempre più donne nel complesso industriale carcerario. C’è una dimensione razzista in questo processo dal momento che un numero spropositato di queste donne saranno donne di colore.

SB : Pensi che nel prossimo futuro la prostituzione sarà depenalizzata nel nostro paese?

AD : E’ qualcosa per cui dobbiamo combattere. Nell’era dell’HIV e AIDS, non ha senso continuare a costruire circostanze sociali che mettono le donne sempre più a rischio. Il lavoro che C.O.Y.O.T.E. ha fatto nel corso degli anni è stato estremamente importante. A questo proposito, Margo St. James è una pioniera. Ho letto del lavoro che avete fatto al Lusty Lady nell’organizzarvi con il SEIU, Local 790. Se tutto va bene, il lavoro che state facendo si trasformerà in una tendenza a livello statale e nazionale. Certamente se sindacati come il vostro continueranno ad organizzarsi e se il movimento delle donne e altri movimenti progressisti si occuperanno della lotta per la depenalizzazione, ci sarà qualche speranza.

SB : Ti ricordi quali erano i discorsi in merito alle sex worker nel periodo del movimento femminista degli anni ’70?

AD: Durante il primo periodo del movimento di liberazione delle donne, i problemi più drammatici erano la violenza sessuale e i diritti riproduttivi – in altre parole, lo stupro e l’aborto. Le questioni relative all’industria del sesso venivano sollevate nel contesto delle discussioni sulla violenza sessuale. Ad esempio, c’era il dibattito sullo statuto di Minneapolis che vietava la pornografia, che tendeva a dividere molte femministe in campi opposti, pro e contro la pornografia. Quella polarizzazione fu uno sviluppo piuttosto sfortunato. Ma allo stesso tempo queste discussioni ci hanno messo di fronte ad interrogativi molto interessanti su ciò che si definisce come pornografia, che hanno aperto nuovi modi di pensare e di parlare di sesso e pratiche erotiche. La definizione di pornografia come aggressiva, oggettivante e come violazione dell’autonomia e autodeterminazione delle donne era importante da un punto di vista strategico, perché ha permesso di distinguere tra ciò che era sfruttamento e violazione, da un lato, e quello che era un’espressione di autorappresentazione dall’altro. Queste discussioni hanno preparato il terreno per spostare il discorso femminista sull’industria del sesso al di fuori del quadro tormentato della moralità.

SB : Come pensi che le tue opinioni femministe siano cambiate nel corso degli anni?

AD: Penso che siano cambiate molto. Per esempio, non mi consideravo davvero una “femminista” durante gli anni sessanta e settanta, anche se ero molto coinvolta nell’attivismo che si occupava di questioni femminili. Con l’emergere del movimento di liberazione delle donne verso la fine degli anni Sessanta, molte donne di colore, me compresa, tendevano a tenersi a distanza dalle femministe bianche borghesi. Molte di noi si sentivano come se ci venisse chiesto di scegliere tra razza o genere mentre noi volevamo affrontare entrambi allo stesso tempo. Ci siamo sentite marginalizzate nei nostri movimenti per l’uguaglianza razziale e allo stesso modo marginalizzate nei movimenti per l’uguaglianza di genere. Se i movimenti femministi bianchi e borghesi tendevano ad essere razzisti, molti sforzi anti-razzisti tendevano ad essere maschilisti. Sono giunta alla conclusione che il femminismo non è un movimento o modo di pensare monolitico. Esistono diversi femminismi e spetta alle donne e gli uomini che si definiscono femminist* chiarire la propria particolare politica femminista. Io ho scelto di definire il femminismo in una cornice politica socialista e radicale, che collega lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti–razziste e anti-omofobiche. Ciò significa che possiamo anche pensare al nostro passato in modi diversi. Quando ho scritto il libro Donne, Razza e Classe, non mi consideravo una femminista. Ma ora mi rendo conto che in questo libro stavo tentando di esplorare le tradizioni storiche delle femministe nere. Il mio ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, continua quella ricerca di tradizioni femministe della classe operaia nell’opera delle cantanti blues di colore. Osservando Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, ho scoperto che uno dei più importanti temi femministi del loro lavoro è stato la sessualità. Le canzoni blues – così come la trasformazione di canti popolari, attraverso il blues e il jazz, di Billie Holiday – evocano il sesso in modi molto interessanti e spesso usano metafore sessuali precise. I borghesi neri storicamente si sono spesso dissociati dal blues proprio a causa del modo in cui parla di sesso.
In Eredità Blues, affermo che la sessualità era particolarmente importante per le persone di colore appena emerse dall’esperienza della schiavitù. All’indomani della schiavitù, i neri emancipati non erano veramente liberi. Anche se la schiavitù era stata abolita, non c’era libertà economica né libertà politica. Ma i neri potevano esercitare autodeterminazione e autonomia nel campo sessuale. Potevano prendere le proprie decisioni riguardo ai propri partner sessuali. Potevano decidere con chi fare sesso sulla base del proprio desiderio – e non in base alle esigenze dei padroni di riprodurre la popolazione schiava. Questa è stata una delle espressioni più tangibili della libertà per un popolo che non era ancora libero. Nel mio libro leggo le canzoni blues delle donne in un modo che mi permette di collegare la sessualità con la liberazione.

SB : E’ davvero un grande progetto perché in generale il femminismo nero non è riconosciuto nel modo in cui dovrebbe. Come vedi l’attivismo politico e il femminismo tra i/le giovani?

AD : Non parto dal presupposto, come molte persone della mia generazione, che i giovani oggi siano politicamente apatici. I giovani sono coinvolti in molte importanti forme di attivismo di base. Sono coinvolti in forti campagne contro lo smantellamento delle azioni positive, stanno sfidando il complesso industriale carcerario, sono coinvolti nel movimento contro l’AIDS e stanno organizzandosi in maniera innovativa, come nel caso del tuo lavoro in qualità di organizzatrice sindacale nell’industria del sesso. Il problema principale, a mio avviso, è la mancanza di visibilità di questo lavoro e la mancanza di reti nazionali. Ne risulta che molte persone ritengono che tale sforzo non esista. Cerco di mettere in guardia contro i confronti dei giovani di oggi con i loro antenati del movimento, per così dire, e contro la nostalgia che definisce gli anni Sessanta come l’epoca rivoluzionaria e gli anni novanta come un’epoca di passività politica. Le circostanze che affrontiamo oggi sono molto più complicate di quanto lo fossero 30 anni fa. Io davvero non invidio il/la giovane attivista che oggi non può concentrarsi su una questione nel modo in cui, negli anni Sessanta, l’ attivismo era incentrato sulla razza o sul sesso o sulla classe. I giovani di oggi devono imparare a tenere tutte queste cose in tensione dinamica e a riconoscere l’intersezionalità. Durante gli anni sessanta, se diventavi un’attivista anti-razzista, tutto quello che dovevi fare era capire come sfidare il razzismo. Sapevi chi fosse il nemico. Ora, naturalmente, ci rendiamo conto che il nemico non è così chiaramente definibile. Dal momento che abbiamo imparato a politicizzare la violenza domestica, possiamo dire che l’attivista maschio che picchia la sua compagna sta contemporaneamente su entrambi i lati della battaglia. Queste sono alcune delle relazioni complicate che i/le giovani devono comprendere oggi. Io rispetto profondamente il lavoro del/la giovane attivista e cerco di incoraggiare i giovani a cercare tra di loro i propri modelli invece di supporre di poterli trovare nel passato. Mi capita spesso di dire che il rispetto per gli anziani è buona cosa, ma bisogna saper combinare la giusta quantità di rispetto con un pò di mancanza di rispetto, per distanziarsi dal passato storico. Una parte importante del lavoro di creazione di nuove forme di lotta risiede nel mettere in discussione le forme precedenti. Le persone della mia generazione hanno contestato gli anziani – i Martin Luther King, per esempio – per ritagliarsi nuovi percorsi. Questo, credo, è ciò che deve accadere oggi.

SB : Come immaginavi il futuro politico degli anni ’80 e ’90 dopo essere stata liberata dal carcere?

AD: C’era molta repressione negli anni ’70 quando sono finita in prigione e quando i prigionieri politici del Black Panther Party e di altre organizzazioni abbondavano nelle carceri e prigioni. L’FBI e le forze di polizia locali hanno tentato di annientare organizzazioni come la BPP. Gli studenti sono stati i bersagli della repressione – alla Kent State, per esempio. Gli anni ’70 sono stati un periodo durante il quale lo Stato era determinato a spazzare via la resistenza radicale. E ha avuto successo in certa misura. Ma d’altra parte, c’era chi continuava a fare attivismo. Anche durante l’era Reagan, c’erano dimostrazioni importanti e massicce di resistenza politica. Forse il presente è sempre il più difficile da comprendere, ma questo sembra il momento più difficile di tutti. Ora che un numero crescente di donne e di persone di colore sono in posizioni di potere, dobbiamo riconoscere che non possiamo più supporre che le persone nere o Latine o le donne di qualsiasi provenienza razziale siano progressiste in virtù della propria razza o genere. Infatti molt*, come Clarence Thomas e Ward Connerly qui in California, sono diventat* portavoce delle posizioni politicamente più arretrate e conservatrici.
Questo significa che abbiamo bisogno di pensare diversamente le nostre strategie politiche. Non possiamo lottare per il tipo di unità su cui le persone tendevano a fare affidamento in passato. Dobbiamo rinunciare alle vecchie idee di unità dei neri o delle donne. Il tipo di unità cui abbiamo bisogno, credo, è l’unità forgiata attorno a progetti politici in contrapposizione all’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere. La mia speranza per il futuro non è una speranza astratta, ma si fonda sull’idea che dobbiamo affrontare i compiti che ci si parano davanti. Se non lo faremo dovremo affrontare un futuro molto più tremendo e pericoloso di quello attuale.

SB: E’ un futuro davvero spaventoso. Ciò che trovo interessante in quello che alcune persone chiamano il movimento de* sex worker è che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi. Penso che sia un buon modello su come possiamo allearci con l’attivismo di sinistra per creare qualcosa di più ampio.

Angela Y. Davis è professora di Storia della Coscienza presso l’Università della California, Santa Cruz. Nel 1994, è stata nominata alla Presidenza in Studi Afro Americani e Femministi dell’Università della California. E’ autora di numerosi articoli e saggi, e di cinque libri, tra cui Donne, Razza e Classe. Il suo ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, si concentra sulla nascente coscienza femminista nelle opere delle prime donne del blues. Nel 1972 venne assolta dalla falsa accusa di omicidio, sequestro di persona e cospirazione, e cominciò a distinguersi come studiosa e attivista per i diritti umani. In questa intervista racconta la propria esperienza in carcere con le sex worker, e le proprie opinioni sul femminismo e l’attivismo tra i giovani.

Siobhan Brooks è stata sindacalista al Lusty Lady Theater, che era parte del Service employees International Union, Local 790. E’ ricercatrice in sociologia presso la New School for Social Research, e membro del Consiglio dell’EDA. I suoi scritti sono apparsi su Z Magazine (gennaio 1997), Whores and Other Feminists (a cura di Jill Nagle. Routledge , 1997), Sex and the Single Girl (a cura di Lee Damsky. Seal Press , 200), e Feminism and Anti-Racism (a cura di France Winddance Twine e Kathleen Blee. NYU Press 2001).

Questa intervista ad Angela Davis è stata originariamente pubblicata nel vol. 10. n. 1 1999 del Hastings Women’s Law Journal, ed è parte del libro ancora inedito (al tempo dell’intervista, n.d.T) di Siobhan Dancing Shadows: Interviews with Men and Women Sex Workers of Color.

La leggenda è reale: sono una puttana (e il motivo per cui non lo dirò mai alla mia famiglia)

4La mia famiglia sospetta da tempo che io sia una puttana.

Tutto è cominciato con il mio ex. Da abusante manipolatore quale è, ha divulgato questa informazione ad amici comuni (che l’hanno usata poi contro di me quando ci siamo lasciati), alla mia famiglia e, probabilmente, alla sua. Mia madre mi ha preso da parte, più volte, chiedendomi: “E’ vero? Sai che puoi dirmelo, puoi dirmi tutto e io ti vorrò sempre bene”.

La verità è che mi piacerebbe parlarne con la mia famiglia. Attualmente mi sto dedicando alla scrittura utilizzando uno pseudonimo, perché non voglio che la mia famiglia scopra il mio lavoro… Il che è un vero peccato, perché sono davvero molto orgogliosa di quello che ho realizzato finora e spero di avere un certo successo attraverso il self-publishing. Allora perché non ho ancora fatto outing? Perché non lo facciamo tutte?

In una parola: puttanofobia.

La puttanofobia è la forma specifica di discriminazione che i/le sex worker sperimentano. E’ fortemente intrisa di misoginia e disprezzo (slut shaming), spesso mischiata a transmisoginia, razzismo, classismo e altre forme di emarginazione. Quella del/la sex worker è in sé un’identità marginalizzata e, come nella maggior parte dei casi, modulabile lungo uno spettro. Nel nostro settore la chiamiamo la ‘gerarchia’, però di solito questa parola si riferisce alle idee interiorizzate su quale sia possibile considerare un comportamento legittimo, e dunque lavoro, e ciò che non lo è. Tuttavia, definire una persona ‘ballerina di burlesque’ (se lo si considera lavoro sessuale, alcun* non lo fanno, ed esiste una grande varietà di tipi di burlesque artistico) è molto diverso rispetto a confidare che sei una prostituta di strada. La maggior parte delle forme di lavoro sessuale portano con sé uno stigma fortissimo, che ha un impatto duraturo sulle nostre eventuali altre carriere professionali non sessuali e sulle relazioni interpersonali, e il lavoro sessuale completo (cioè avere rapporti sessuali con i clienti) è il punto più basso ed estremo dello spettro. Questo è il tipo di lavoro sessuale al quale mi sono dedicata.

Distante dagli standard normativi, non avrei avuto molte altre opzioni; mentre le prostitute esistono in ogni forma e dimensione, le spogliarelliste sono – in generale – più rispondenti a determinati standard di bellezza. Questo in parte spiega, a mio avviso, la ragione per la quale la prostituzione in strada è considerata il gradino più basso; è vista da alcun* come l”ultima risorsa’, dentro e fuori l’industria del sesso. Anche se tutti i tipi di lavoro sessuale sono considerati indissolubilmente legati al consumo di droga e ad altri problemi sociali, sul lavoro sessuale completo anche questa volta ricade il fardello più pesante. Esiste un preconcetto, sia nelle persone in generale che nei professionisti medico-sanitari, psicologi, assistenti sociali, forze dell’ordine e protezione dell’infanzia che la prostituzione sia inevitabilmente legata al disagio. Preconcetto opinabile.

In procinto di lasciare il mio ex-partner abusante, confidai alla mia assistente sociale (dopo averle chiesto a lungo rassicurazioni in merito alla propria politica di riservatezza, che lei mi assicurava essere totale) che avevo precedentemente lavorato come sex worker in un bordello. Accettò di lasciare questa informazione fuori dal mio dossier, ma mi informò che, se fossi stata ancora in attività in quel momento, avrebbe allertato i servizi di protezione dei minori. Quando le chiesi perché, dal momento che praticavo la mia attività lontano da casa e i miei figli erano seguiti dalla mia famiglia mentre ero al lavoro, rispose che “la prostituzione è di solito indicativa di altre problematiche”. Più tardi, un’amica e collega con la quale ne parlai al bordello, mi raccontava di come suo figlio fosse stato allontanato da lei, perché il suo ex compagno, nel corso di un’udienza per la custodia, aveva menzionato la cosa agli assistenti sociali. Non c’era stato bisogno di sollevare ‘altri problemi’; la presunzione di ‘altri problemi’ e l’ignoranza in merito alla realtà del sex work, erano bastate per perdere la custodia del proprio figlio.

Un’altra mia amica, dello stesso bordello, venne minacciata (da quello che sarebbe presto diventato il suo ex-marito) di essere denunciata – in quanto sex worker – se avesse richiesto supporto legale nel corso della separazione. Piuttosto che correre il rischio di perdere i propri figli e la propria famiglia, ha preferito perdere la casa, la stabilità finanziaria, tutti i risparmi e tutto quello per cui aveva lavorato fino a quel giorno. L’ex-marito si è preso tutto.

Il preconcetto secondo il quale il lavoro sessuale si accompagna al disagio fa acqua da tutte le parti, ma è anche risultato di un’inversione di causa ed effetto; è proprio l’esperienza di essere parte di un gruppo che viene abitualmente discriminato che allontana dal resto della società, negandoti servizi quali assistenza medica, assistenza abitativa, assistenza all’infanzia, ecc. e contribuendo a esacerbare questioni gravi quali le molestie della polizia e la patologizzazione. Questi sono gli aspetti che portano a quegli “altri problemi” come la violenza domestica (o, più precisamente, la mancanza di opzioni per sfuggirvi), la povertà, i problemi di salute mentale, l’uso di droghe e l’abuso/indifferenza per i figli. Questo schema si verifica nella maggior parte dei gruppi più emarginati. Il rovescio della medaglia però, è che il sex work offre anche una via d’uscita da queste situazioni, quando sono causate da altri fattori; il lavoro sessuale è relativamente ben pagato in Occidente, e non richiede istruzione formale o formazione, rendendolo accessibile a persone in difficoltà. Non c’è però un legame intrinseco tra sex work volontario e disagio. La correlazione non implica causalità, e il rapporto esistente è in gran parte circostanziale. Se non fosse per la puttanofobia e la relativa marginalizzazione, questa discriminazione non esisterebbe e l’aumento dei casi di problemi familiari e sociali tra i/le sex worker potrebbe anche diminuire. Purtroppo, l’esistenza di questi problemi viene usata come prova per giustificare l’atteggiamento bigotto nei nostri confronti. Si tratta, in sostanza, di colpevolizzazione delle vittime.

Sono stata trattata come merda dal personale medico nel richiedere il mio esame di routine per le malattie sessualmente trasmissibili, e poi messa in imbarazzo per il fatto di aver riscontrato dei batteri – naturalmente presenti – nella mia vagina, cosa che si verifica in circa l’80% degli adulti sessualmente attivi e la cui presenza di solito non è nemmeno testata perché innocua. Ho visto medici scuotere la testa e chiedermi perché mi dedicavo ad un’attività così pericolosa in giovane età, quando in realtà il bordello era il mio rifugio sicuro dal mio partner violento.
Ad oggi, il mio ex mi manda minacce poco velate e si riferisce a me con nonchalance come ‘una di quelle’ nella migliore delle ipotesi, o ‘stupida puttana’ se si sente particolarmente crudele. Sono anche certa che la disumanizzazione delle/i sex worker è stato uno dei motivi per cui un conoscente si è sentito libero di violentarmi, dopo tutto le puttane sono di proprietà pubblica e siamo felici di scopare chiunque in qualsiasi momento, no?

Avevo confidato ad un altro partner importante che ero una sex worker e mi ero sentita profondamente toccata dalla sua comprensione. In un primo momento, il fatto che si trattasse del passato significava che per lui non era più importante, ma poi, quando ho ripreso a lavorare, capì che la sua gelosia era fuori luogo dato che lo facevo solo perché avevamo bisogno di soldi. “E’ solo un lavoro, no?”, diceva. Scoprii poi una serie di messaggi che aveva inviato dal mio telefono ad un’amica – anche lei sex worker, una spogliarellista – in cui si riferiva a me come una ‘prostituta tossica’ per rivaleggiare con i racconti estremi della propria amica riguardo al suo lavoro.

Mi chiedo, ogni giorno, se parlare del sex work sia davvero una buona idea, perché sono dolorosamente consapevole che mi potrebbe costare la custodia dei miei figli.

Quando con la mia famiglia si parla della mia mancanza di lavoro, e io affermo di aver recentemente avuto un lavoro (la mia copertura è il tipico cliché della receptionist, in quanto questo spiega i miei strani orari e rende più semplice coprire le tracce) la risposta è in genere “veramente abbiamo sentito tutt’altro”. L’implicazione qui è che il lavoro del sesso non è realmente lavoro. Il mio tempo, la mia fatica e abilità non contano nulla, perché il mio lavoro è visto come illegittimo, pur essendo praticamente legale nella mia situazione particolare e nonostante il fatto che, grazie ad esso, provvedo finanziariamente ad un certo numero di persone, tra cui la mia famiglia allargata in diverse occasioni. Non posso sapere quello che i miei genitori immaginano in merito al lavoro sessuale, anche se nel discutere del mio lavoro di ‘receptionist’, mia madre diceva “non posso credere che le donne possano vendere i loro corpi così” e dichiarazioni simili che abbiamo tutt* sentito migliaia di volte. Non mi sono messa a discutere, però avrei voluto dire “una massaggiatrice offre relax fisico con il proprio corpo, sta vendendo il proprio corpo o sta vendendo un servizio?”

Vorrei poterle raccontare dei miei clienti, in generale uomini gradevoli, normali, come quelli che incontriamo ogni giorno. Vorrei poterle dire che nessun cliente mi ha mai fatto del male fisicamente o che ho subito un solo abuso verbale da parte di un cliente, mentre ho subito qualche forma di abuso fisico o sessuale da quasi tutti gli uomini incontrati nella mia vita personale, il che dimostra chiaramente come il problema non sia il lavoro sessuale. Vorrei raccontarle la sorellanza che ho sentito e sento con altre sex worker, che hanno rappresentato alcuni dei rapporti più significativi della mia vita. Vorrei dirle di come abbiamo discusso regolarmente delle nostre famiglie, di come ci siamo mostrate a vicenda le foto dei nostri figli, fornito consigli e sostegno emotivo, trucchi e profumi e, in generale, di come ci siamo reciprocamente prese cura l’una dell’altra. Vorrei che sapesse come, in quanto madre e femminista, non deve demonizzare il sex work, perché non solo i clienti si sono dimostrati più rispettosi degli uomini che pensano di avere gratuitamente diritto al tuo tempo, ma la Sorellanza è viva e vegeta nel bordello locale. E siamo tutte diverse, come accade in ogni gruppo eterogeneo unito da un’esperienza condivisa, e ci prendiamo cura l’una dell’altra.

Se dovessi raccontare adesso alla mia famiglia del mio lavoro, lo considererebbero senza dubbio un terribile tradimento della loro fiducia, non solo perché ho ​​mentito quando me lo hanno esplicitamente chiesto, ma perché non sono stata schietta dall’inizio. Ma in realtà, come avrei potuto esserlo? Per quanto mi riguarda, fare coming out in quanto sex worker offriva molto poco in confronto a quello che avrei potuto perdere, come il rispetto della mia famiglia, la custodia dei miei figli, per non parlare del pubblico disprezzo e delle possibili conseguenze legali. Ho intenzione di parlargliene un giorno, ma immagino non prima di molti anni.

Traduzione di questo post da parte di feminoska.

Diritto delle donne al lavoro…sessuale.

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Traduzione a cura di feminoska di questo articolo di Beatriz Preciado.

Produzione e vendita di armi: lavoro. Uccisione di una persona applicando la pena capitale: lavoro. Tortura di un animale in un laboratorio: lavoro. Fare una sega ad un pene con la mano fino a provocare eiaculazione: crimine! Da cosa si può capire che le nostre società democratiche e neoliberali rifiutano di considerare il sesso come un lavoro? La risposta non va ricercata nella filosofia morale o politica, ma piuttosto nella storia del lavoro femminile nella modernità. Esclusi dal campo di applicazione del sistema produttivo in nome di una definizione che li rendeva beni naturali inalienabili e non negoziabili, i fluidi, gli organi e le pratiche corporee delle donne sono state oggetto di un processo di privatizzazione, cattura ed espropriazione che si confermano al giorno d’oggi attraverso la criminalizzazione della prostituzione.

Facciamo un esempio per comprendere questo processo: fino al XVIII secolo, molte donne appartenenti alle classi lavoratrici guadagnavano da vivere vendendo i propri servizi come balie professionali. Nelle principali città europee, oltre due terzi dei bambini delle famiglie aristocratiche e dei cittadini urbani sono stati allattati da balie.

Nel 1752, lo scienziato Carlo Linneo pubblicò il pamphlet ‘la balia matrigna’ in cui esortava ogni donna ad allattare al seno i propri figli per “evitare la contaminazione di razze e classi” attraverso il latte e invitava i governi a vietare, a vantaggio dell’igiene e dell’ordine sociale, la pratica dell’allattamento al seno per le/i figli* altrui. Il trattato di Linneo condurrà alla svalutazione del lavoro delle donne nel XVIII secolo e alla criminalizzazione delle balie. La svalutazione del latte nel mercato del lavoro venne accompagnata da una nuova retorica del valore simbolico del latte materno. Il latte, rappresentato come materiale fluido attraverso il quale la madre passa al/la figli* il legame sociale e nazionale, doveva essere consumato nella sfera domestica e non essere più oggetto di scambio economico.

Forza lavoro che le donne proletarie potevano mettere in vendita, il latte diventa un prezioso liquido biopolitico attraverso il quale scorre l’identità razziale e nazionale. Il latte cessa di appartenere alle donne per appartenere allo Stato. Un triplo processo è compiuto: la svalutazione del lavoro delle donne, la privatizzazione dei fluidi, l’imprigionamento delle madri nello spazio domestico.

Un processo simile è all’opera con l’espulsione delle pratiche sessuali femminili dalla sfera economica. La forza di produzione del piacere delle donne non è loro: appartiene allo Stato – è per questo che lo Stato si riserva il diritto di multare i clienti che fanno uso di questa forza, il cui prodotto deve spettare unicamente alla produzione o riproduzione nazionale. Come nel caso del latte, le questioni dell’immigrazione e dell’identità nazionale sono al centro delle nuove leggi contro la prostituzione.

La prostituta (migrante, precaria, le cui risorse affettive, linguistiche e somatiche sono gli unici mezzi di produzione) è la figura paradigmatica del/la lavorator* biopolitico del ventunesimo secolo. La questione marxista della proprietà dei mezzi di produzione trova, nella figura della sex worker, una modalità esemplare di sfruttamento. La prima ragione d’alienazione nella prostituta non è l’estrazione di plusvalore del lavoro individuale, ma dipende principalmente dal mancato riconoscimento della sua soggettività e del suo corpo come fonte di verità e di valore: e si afferma nel dire che le puttane non sanno, non possono, non sono soggetti economici o politici a pieno titolo.

Il lavoro sessuale consiste nel creare un dispositivo masturbatorio (attraverso il tatto, il linguaggio e la messa in scena) suscettibile di innescare meccanismi muscolari, neurologici e biochimici che regolano la produzione del piacere nel cliente. Il/la sex worker non vende il suo corpo, ma trasforma, come fanno osteopat*, attor* o pubblicitari*, le proprie risorse somatiche e cognitive in forze vive di produzione. Come l’osteopata usa i suoi muscoli, il/la sex worker fa un pompino con la sua bocca, con la stessa precisione con la quale l’osteopata manipola il sistema muscolo-scheletrico del cliente. Come la/il attor*, la sua capacità sta nel mettere in scena il desiderio. Come un* pubblicitari*, il suo lavoro è quello di creare specifiche forme di piacere attraverso la comunicazione e la relazione sociale. Come qualsiasi lavoro, il lavoro sessuale è il risultato della cooperazione tra soggetti viventi basata sulla produzione di simboli, linguaggio ed emozioni.

Le prostitute sono la carne produttiva subalterna del capitalismo globale. Che un governo socialista faccia del divieto alle donne di trasformare la propria forza produttiva in lavoro una priorità nazionale la dice lunga sulla crisi della sinistra in Europa.

Beatriz Preciado è filosof* , direttor* del programma di studio indipendente presso il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona (MACBA) .

Perché le femministe dovrebbero ascoltare le/i sex worker

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“I/Le sex worker si trovano spesso di fronte a preconcetti radicati, per via dei quali se non divulghiamo le nostre storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut* da molte persone appartenenti al movimento femminista. E’ ora di finirla, perché non vogliamo mettere in scena il nostro ‘porno tragico’ a vostro beneficio”, scrive Elena Jeffreys.

Discorso tenuto da Elena Jeffreys, Presidente Nazionale di Scarlet Alliance, alla conferenza Feminist Future organizzata a Melbourne, Australia, il 28-29 maggio 2011, nell’ambito della discussione “L’importanza del femminismo”.

Scarlet Alliance è un’associazione di rilevanza nazionale formata da sex worker e organizzazioni di sex worker australian*, aperta alla partecipazione di tutt* i/le sex worker, passat* e presenti. Scarlet Alliance incarna oltre due decenni di storia di organizzazione formale tra pari in Australia, ed è formata da diversi collettivi di sex worker in tutto il paese.

Questi collettivi sono attivi nel campo della sensibilizzazione, sviluppo di comunità, promozione della salute, prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e HIV, sostegno alle persone colpite dalle politiche anti-traffico , sostegno per quanto riguarda rapporti di lavoro, giustizia economica e finanziaria, diritto alla casa, assistenza sociale, rinvii giudiziari e di polizia, salute e politica dei diritti umani – oltre 20.000 occasioni di erogazione di servizi diretti a sex worker in Australia ogni anno – e sono parte dell’associazione al fine di garantire che tutte queste informazioni si trasformino in potenti messaggi di rappresentanza a livello nazionale. In occasioni come questa.

Prendiamo molto seriamente la nostra attività di informazione, organizzazione, attivismo e politica da/per sex worker. Non è per noi uno scherzo. Non è indulgenza accademica. L’attivismo delle/i sex worker non è un percorso volto alla carriera. E’ volontariato: nessuno ci paga per essere qui. Non siamo qui per promuovere le nostre carriere e non stiamo cercando di riabilitare lo stigma che sopportiamo nella nostra vita di sex worker o di professionalizzare il nostro curriculum facendo attivismo.

L’attivismo non è una scusa per evadere dalla discriminazione che affrontiamo giorno dopo giorno in quanto sex worker. Il nostro attivismo per i/le sex worker potrebbe anche essere chiamato organizzazione del lavoro, perché senza di esso non avremmo alcun diritto. Tutto quanto le/i sex worker hanno ottenuto in termini di condizioni di lavoro, dignità, salute e accesso ai servizi, lo abbiamo ottenuto perché abbiamo lottato per noi stess*.

Credete a ciò che dico?

Ho la responsabilità, in quanto Presidente Nazionale della Australian Sex Workers Association, di comunicarvi il messaggio politico delle/dei sex worker.

Alcune persone, all’interno del movimento femminista, hanno etichettato quell* di noi che sono coinvolt* nel movimento per i diritti delle/i sex worker come “privilegiat*” e “prostitut* allegr*”, incapaci di comprendere i disagi che le/gli altr* sex worker affrontano.

Non date per scontato nulla delle/i sex worker che incontrerete alla conferenza di Scarlet Alliance questo fine settimana. Non date per scontato nulla sulle/i sex worker incontrat* su Facebook , nei media, e che si dedicano all’attivismo. Non date per scontato che non siamo stat* vittime di violenza, discriminazione, allontanamento dalla famiglia, abuso, violenza, pessime condizioni di lavoro, violenza domestica, povertà, corruzione della polizia o criminalità. Siamo persone, come voi, che hanno affrontato tutto ciò che nel corso di una vita affronta qualsiasi individuo. Ma, in quanto sex worker, affrontiamo anche preconcetti radicati, il che significa che se non condividiamo con voi le storie tragiche e le esperienze umilianti che abbiamo affrontato, corriamo il rischio di non essere credut*.

Questo è ciò che noi chiamiamo il “porno tragico”: un desiderio, nel movimento femminista, di ascoltare storie tragiche di disagio delle/i sex worker, e quando non lo accontentiamo, ci troviamo ad affrontare l’accusa di nascondere la “verità” sul sex work. Ad esempio, quando parliamo dell’assenza di incidenti relativi alla questione del traffico nell’industria del sesso, siamo accusat* di non riconoscere le condizioni di vita delle/i sex worker migranti. O quando presentiamo statistiche reali sul consumo di droga nell’industria del sesso, ci viene detto che stiamo ignorando o mentendo sul consumo di droga nel lavoro sessuale. Ci si aspetta che ‘mettiamo in scena’ una pornotragedia stereotipata per il pubblico delle femministe, e quando non ci stiamo, non veniamo prese sul serio.

Beh, sto per dirvi qualcosa che potreste non aver preso in considerazione. Non vogliamo recitare per voi.
Non dovremmo usare occasioni come questa come forma pubblica di counselling, o momento di sfogo per le difficoltà della nostra vita, allo scopo di convincervi quando diciamo che esigiamo i nostri diritti umani.

E non vogliamo che la comunità femminista si aspetti, ricompensi, o applauda una persona quando si lascia andare a descrivere tutte le esperienze negative che ha sopportato nella propria vita. Le persone che hanno realmente bisogno di counselling e sostegno per elaborare i propri traumi esistenziali non sono tenute a mostrarveli al fine di accedere ai diritti umani di base, assistenza o giustizia.

Se non credete a ciò che vi diciamo solo perché non vi mostriamo le nostre tragedie, allora siete parte di un circo malato, nel quale le/i sex worker rappresentano una forma di intrattenimento non consensuale.

Le/i sex worker non sono qui per questo. Siamo qui per sostenere la nostra battaglia, e chi non riesce a capirlo si è spostato qui accanto, perché non vogliono vederci vivere la nostra vita traboccanti di forza. [NB: la conferenza Feminist Futures si era divisa sull’argomento: Sheila Jeffreys e altre femministe radicali avevano affittato uno spazio per proseguire con quella che chiamavano la “vera” conferenza femminista, in segno di protesta contro le/gli attivist* pro sex work /pro trans invitat* all’ultimo momento].

Dunque, perché un gruppo di femministe si sente minacciato a tal punto dalle/i sex worker che affrontano energicamente le proprie vite? Beh, la risposta più semplice è che i/le ‘salvator*’ aumentano il proprio prestigio rendendo noi vittime e loro stess* salvator*. Non è una novità, è un fenomeno noto a partire dalla metà del XIX secolo, ai tempi rappresentò la via attraverso la quale molte donne di classe media sfuggirono dalla casa per entrare a far parte della vita pubblica nelle democrazie occidentali, tra cui anche l’Australia. Senza le Puttane Maledette non vi era alcuna necessità della Polizia Divina – le femministe che affermavano di essere la salvezza delle/i sex worker trovarono la fama, vennero celebrate, influenzarono le politiche ed ebbero voce in capitolo in Australia nel corso degli ultimi due secoli. A nostre spese.

Quell* tra voi impegnat* nelle organizzazioni della ‘salvezza’ , devono ammettere che a ‘salvare’ si ottiene privilegio. Posizionandosi nel ruolo di chi aiuta le/gli altr* si ottiene un ruolo nella società, che senza ‘vittime’ semplicemente non esisterebbe.

Questo è il motivo per il quale Scarlet Alliance sostiene una forma di educazione tra pari nel campo del sex work. Un approccio critico che vede le/ i sex worker sostenersi reciprocamente e autonomamente. Questo è il motivo per il quale sosteniamo le organizzazioni delle/i sex worker. Organizzandoci in maniera critica per noi stess*.

Questo è il motivo per cui non reciteremo la ‘nostra tragedia’ per voi. Perché per vivere la nostra vita con forza, è necessario che ci accettiate al nostro meglio. Vogliamo che il movimento femminista la smetta di punirci per la nostra forza, gratificarci per il nostro dolore, guadagnare privilegio alle spalle delle nostre esigenze, e vogliamo che ci ascolti quando parliamo. Noi continueremo ad alzare la voce per i nostri diritti e voi dovrete ascoltarci.

Perché chi nega la nostra esperienza , nega la nostra esistenza. Combattiamo già pessime leggi, non abbiamo anche bisogno di combattere metà della comunità femminista australiana.

Elena Jeffreys è Presidente di Scarlet Alliance. Articolo originale qui.