Frequenze Lesbiche è un giovanissimo blog (siamo quasi coetanee) nato in seno ad ArciLesbica con “l’obiettivo di creare uno spazio di condivisione politica, sociale e culturale dove possano dibattere tra loro voci diverse sui temi della comunità LGBTIQ”.
Riportiamo alcune interessanti riflessioni sul pride di una delle voci di questo blog, Carlotta, sul ricorrente dibattito sulla rappresentazione che questo evento deve dare della comunità LGBTIQ.
Buona lettura!
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PIUME O CRAVATTE? ECCO A VOI IL PRIDE
Tempo di Pride, tempo di polemiche. Come tutti gli anni inizia la solita sterile manfrina: piume sì, piume no, meglio la cravatta, la rispettabilità, la famiglia o meglio i lustrini, il divertimento e la poliaffettività?
Meglio l’autodeterminazione.
È frustrante leggere accorati appelli a un Pride sobrio, per una normalizzazione della parata, come questo (interessante il passaggio su noi e loro, come specie antropologiche differenti) e questo.
Sulla pulciosa diatriba estiva pre-Pride si gioca ogni anno una sorta di dibattito attinente alla meritocrazia dei diritti: ai froci buoni, integrati, che ambiscono al matrimonio e ai figli i diritti (e la dolce Euchessina)…e a quelli cattivi, che vanno in giro con le paillettes? Che spingano, avrebbe detto Marcello Marchesi.
Sarcasmo a parte, cosa permea questi discorsi?
Intanto, la presunzione di conoscere a fondo chi è il soggetto LGBTIQ normale, come se ci fosse un ben definito tipo LGBTIQ, di lombrosiana memoria, con la differenza che al soggetto LGBTIQ matur* si attribuiscono caratteristiche quali il desiderio di famiglia e figliolanza, mentre la radicalità, il gioco con il corpo ed il sesso sono proprietà del soggetto immaturo e imbrattato di rossetto. Poco importa se poi esistano soggetti che appartengono a entrambe o nessuna di queste categorie.
Beninteso, non ho nulla contro il mettere su famiglia e sposarsi, penso anzi che sia un diritto che deve essere riconosciuto, nella sua pienezza, anche alle persone LGBTIQ che lo vogliano per sé, per le loro vite, ma non credo che tutt* abbiano questi desideri: penso che ci siano modelli relazionali differenti, affettività non riassorbibili unicamente nel concetto di coppia, famiglie di scelta che si discostano dalla famiglia tradizionale mononucleare, identità più ampie che quelle comprese nella narrazione dominante.
Penso che ci siano tante storie differenti e tracciati di vita diversi, che hanno uguale diritto di essere.
Quest’impianto teorico, dicotomico, mi rimanda invece al concetto di morale vigente, di cosa sia considerato perbene e cosa permale.
Il punto è, quindi, da un lato la cristallizzazione che esce da questa dicotomia: o sei padre/madre di famiglia, a modo, con la cravatta (o la t-shirt), un lavoro rispettabile e buon*, oppure sei cattiv*, indecente, vestit* da checca o da puttana, con le macchie di leopardo e il rossetto sbavato; dall’altro è la normalizzazione, cioè l’impossibilità di autodefinirsi secondo altri parametri che non siano quelli identificati come giusti e decenti, di fatto arrivando a bandire la radicalità, la possibilità di critica e di dissacrazione.
In questo modo si costruisce anche un immaginario povero, in cui la libertà di azione di ognun* è minima e in cui la differenza spaventa meno, perché viene ricompresa, ridotta a qualcosa di noto e meno destabilizzante.
Dove finisce allora la mia possibilità di scelta, la mia libertà di azione, nel momento in cui posso essere soltanto in un certo modo?
In seconda battuta, trovo che sia puro marketing -e nemmeno troppo efficace- quello di far sfilare la “normalità”. La normalità ha a che fare più con il concetto di normazione che con il concetto di realtà. Chi è normale? Il soggetto che in una valutazione di frequenze sta al centro di una curva gaussiana, o poco distante, con un massimo di due deviazioni standard dalla media? Chi rimane tagliato fuori da questo discorso che tutto disciplina? Chi è la coda esclusa? Chi sono, in altre parole, i soggetti fuoriusciti, diventati un discorso marginale? Quali relazioni sono promosse e quali punite?
Penso che sia marketing perché si parte dall’assunzione che, in una società dove l’educazione alle differenze è ancora difficile, mostrarci come simili, come uguali, contribuisca a renderci più accettabili, venda bene il prodotto, truccato ad hoc per il pubblico che lo apprezzerà facilmente (fosse poi vero). Con una definizione della normalità edulcorata, tutta sorrisi e famiglie felici, come se quella fosse la rappresentazione più veritiera e desiderabile della società attuale. Come se quella, per giunta, fosse la fotografia della famiglia eterosessuale a cui essere simili, che, a ben vedere, è comunque molto più sfaccettata di così.
Via libera allora al «panettiere, che ogni giorno ci regala un sorriso al bancone, o l’insegnante di nostro figlio, che stimiamo per la sua cultura», ma che ne sarà della vicina di casa lesbica ma antipatica e avvezza a intrattenere numerosi rapporti sessuali con più e differenti partners? Chi si ricorderà della transgender brasiliana, che si prostituisce per mantenersi (e questo non è per il facile e sbagliato accostamento transgenderismo/prostituzione, ma per calcare la mano su chi si prenderà cura dei soggetti non conformi)?
Nella retorica delle narrazioni, credo che il discorso sulla rispettabilità e la decenza sia pericoloso, perché nega che il diritto di esistenza e di relazione sia universale e debba essere garantito a priori a qualunque essere umano- in quanto fa parte dei diritti umani poter esprimere liberamente il proprio orientamento, la propria identità ed espressione di genere- ma fa del diritto una concessione dall’alto, esclusiva del soggetto conforme alla società e socialità.
Introducendo implicitamente la meritocrazia del diritto: i diritti come appannaggio di chi se li merita.
Nell’invocare sobrietà e cravatte ai Pride, leggo tra le righe il desiderio -che è ben più ampio del Pride stesso- di disciplinare corpi e sanzionare comportamenti: sorvegliare e punire, in un meccanismo di controllo sociale, reciproco, che spacca la stessa comunità che rivendica il proprio diritto ad esistere.
In una riduzione asfittica dell’agibilità politica e della possibilità di contrattazione.
L’assimilazionismo e l’omofilia hanno attraversato la storia del movimento omosessuale di rivendicazione: negli anni ’50 il movimento omofilo guardava con sospetto, nel più benevolo dei casi, e con sdegno e livore più di frequente, alla liberazione e al culto del corpo, ai locali di intrattenimento, al divertimento, opponendo a questo tipo di subcultura che stava prendendo piede un netto rifiuto in nome della rispettabilità. Secondo il movimento omofilo era infatti colpa dell’ostentazione se c’era una stigmatizzazione e un accanimento così forte nei confronti della popolazione LGBTIQ. Poi vennero il Gay Liberation Front, l’epoca della liberazione, il ’68, momento dal quale, si sperava, non si sarebbe tornat* indietro.
Corsi e ricorsi.
Penso però che si possa superare un ragionamento di così vecchio stampo, al grido di Pride libera tutt*, rinfrescando la memoria, come primo atto dovuto di quella che di fatto si chiama Marcia di Christopher Street.
Cos’era Stonewall, il 28 giugno 1969?
Era un moto di insurrezione, un momento di insubordinazione e lotta, era il grido ora basta, una bottiglia lanciata, con rabbia e con esasperazione, da Sylvia Rivera, una transgender, contro un poliziotto, dopo l’ennesima retata nel bar Stonewall Inn, in Christopher Street, a New York.
Erano scontri di migliaia di gay, lesbiche e transessuali contro le forze dell’ordine in assetto antisommossa, in un’intifada di bottiglie e pietre. Ma era anche la provocazione irridente di dire:
«Siamo le ragazze dello Stonewall
abbiamo i capelli a boccoli
non indossiamo mutande
mostriamo il pelo pubico
e portiamo i nostri jeans
sopra i nostri ginocchi da checche!»
[coro di drag-queen in fila contro i poliziotti, riportato in PIONTEK, T., 2006. Queering Gay and Lesbian studies. Champaign: University of Illinois Press. Pag. 7]
Il Pride si è arricchito successivamente, di altri significati.
Oltre alla marcia per i diritti, si porta così in strada, in una festa collettiva, alla luce del sole e ben visibile, una cultura variegata, che tiene dentro molti contenuti e soggettività diverse: la cultura LGBTIQ. Che non è certo univoca e unitaria, ma frammentaria, come si addice a una comunità molteplice come quella LGBTIQ, accomunata dalla volontà di liberazione, ma spesso differente nella sua composizione per ceto, provenienza, etnia, istruzione, genere ed identità di genere, orientamento sessuale.
Dunque, come scendere in piazza?
Come si vuole, ognun* con la propria identità, storia ed individualità. Con i propri desideri e il proprio corpo, con gli abiti che ci stanno meglio o peggio addosso, con le relazioni che abbiamo, se le abbiamo. Con le cravatte e le sciarpe, con i boa di struzzo e i capezzoli in nastro adesivo nero.
Con le famiglie e le figlie, ma anche con le amiche e sorelle o da sole.
E in due, e in tre. Con i mariti, le mogli, le compagne, le amanti.
Marciando e gridando slogan ma anche ballando, cantando, spogliandoci e celebrando la bellezza dei nostri corpi.
Favolosamente.
Con la sola regola di sentirci a nostro agio, perché il Pride è un momento in cui essere orgoglios* di ciò che siamo e l’orgoglio porta con sé tanta felicità.
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