La malafede della zoofobia – IV (e ultima) parte

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§ Ritmo, Grazia e Afflizione
Esistono validi motivi per supporre che la crisi globale della nostra creazione non richieda un inasprirsi della dominazione tecnoscientifica e zoofobica, ma un ritorno ai nostri sensi, ovvero, ad una vita animale più libera. Infatti, in Dialettica Negativa Adorno scrive che “l’individuo rimane con niente più che… provare a vivere in maniera tale da poter pensare di essere stato un buon animale.” (51) Essere un buon animale (umano), commenta Christoph Menke, significa agire mossi da un sentimento di solidarietà. Il soggetto animale è tale che “non separa sé stesso dalle proprie “spinte” o “impulsi” per seguire la legge e per liberarsene, ma la cui libertà, anzi, la cui propria forza, consiste nel permettere alle sue pulsioni e impulsi di esprimersi. Solo così, in “armonia”, persino in “riconciliazione” con sé stesso, l’uomo può essere buono verso gli altri.”(52)
Gli homo sapiens possono essere se stessi, e specificatamente esseri umani, solo se sono buoni animali, e quindi solo quando “non agiscono, e tantomeno si presentano, come persone,” (53) vale a dire, come ego che sopprimono i propri impulsi interiori. In Body Transformations, Alphonso Lingis attinge a Nietzsche dicendo che “le forze lussuriose di un individuo possono allontanarsi dall’immagine ideale di sé proiettata dagli adulti della propria famiglia, classe, etnia, nazione e razza per puntare su quegli istinti antichi che risorgono in lui, affermandoli e conferendo loro potere. “(54) Ma i tratti che costituiscono un buon animale non possono essere fabbricati; “la nobiltà non si rivela dalla gestione del carattere;”(55) l’unica vera virtù è spontanea, senza pretese, ed emerge con l’emancipazione dell’impulso, libera di assumere spontaneamente una molteplicità di significati.(56) Ma far sì che gli impulsi libidinosi trovino piena espressione oggi, pone l’individuo a rischio; la civilizzazione stessa è stata progettata precisamente per addomesticarli e sottometterli ad un’autorità “superiore”. Qualsiasi essi siano, gli istinti “renderanno quell’individuo disadattato nel proprio tempo e possono renderlo eccentrico o folle.”(57) Finché la civilizzazione non sarà rimodellata per fargli spazio, rimarrà “un selvaggio nato troppo tardi.”(58) “L’uomo ‘civilizzato’ – nota Fromm – ha sempre vissuto nello ‘Zoo’ – cioè in diversi gradi di cattività e non-libertà – e questo è tuttora vero”(59) Per la verità, forse ancor di più nelle società tecnologicamente più avanzate, che da qualsiasi altra parte.
Nella maggior parte dei casi, la nostra tendenza all’essere guidati da processi pre-riflessivi e a noi connaturati, oscilla tra riluttanza ed odio.(60) Per questo motivo introduciamo nelle nostre vite lo sforzo di un eccessivo autocontrollo. Watts ha associato questo processo all’afferrare una mano con l’altra, per timore che sbagli in qualsiasi cosa stia facendo. La conclusione è che, in quest’ottica, non ci si può fidare di nessuna delle due mani. “Chi sorveglierà le guardie stesse?”(61) è una domanda che dovrebbe essere posta ma generalmente non lo è. Nel frattempo, si è persa una delle due mani, e cioè metà della propria abilità, in una ricerca sostanzialmente impossibile di controllo di se stessi e degli altri. A causa di questa lotta e di questo soffocamento auto-inflitto, il mondo diventa una gabbia. Sicuramente, dice Watts, “ci saranno errori, ma se non ti fidi affatto finirai per strangolarti. Finirai per circondarti di regole e leggi e prescrizioni e polizia e guardie – e guardie per fare la guardia alle guardie. Quindi, per vivere dobbiamo avere fiducia. Dobbiamo confidare in ciò che è completamente ignoto e in una natura che non ha padroni.” (62) Riformulando il punto di vista di Alfred North Whitehead sulla questione, Hamrick e Van der Veken scrivono di un evidente cambio di atteggiamento nella filosofia moderna nei confronti della percezione sensoriale, prodotto da una variazione dell’antica domanda, ovvero da “Cosa sentiamo?” a “Cosa possiamo sentire.” Un mutamento così compiuto ha dato i natali ad un “atteggiamento di ‘attenzione forzata’ per percepire dati che oscura la base dell’esperienza da cui i dati stessi originano,” con la percezione sensoriale che diventa il prodotto di una “attenzione cosciente che esclude più di quanto includa…. Per Whithead – dicono – la filosofia deve criticare queste astrazioni e, superando la ‘fallacia di una concretezza malriposta,’ ristabilire la nostra connessione con la natura e con la nostra esperienza morale, emotiva, e sostanziale. “(63)
Alcune parti di Il pensiero selvaggio di Levi-Strauss potrebbero essere utili per indirizzarci verso tale modello alternativo di vita. Il pensiero selvaggio è “pensiero nel proprio stato non addomesticato, così distinto dal  pensiero educato o addomesticato allo scopo di ottenere qualcosa. La caratteristica peculiare del pensiero selvaggio è la sua eternità…Una moltitudine di immagini prende forma simultaneamente, nessuna esattamente uguale all’altra, cosicché nessuna fornisce più di una conoscenza parziale.” (64) Per ridefinire lo strutturalismo dell’autore in una narrativa di vita sensuale, il “pensiero selvaggio” è, in senso stretto, non tanto mente o pensiero, (65) ma una certa presenza viscerale dell’organismo nel proprio mondo. E’ un corpo che si orienta nelle immediate vicinanze, cercando soluzioni ai problemi in ciò che è a portata di mano, approfittando dell’immediata possibilità, esistendo – presente nella situazione e trascendendola attraverso questa stessa presenza. C’è la gioia del coinvolgimento in tale “incarnazione [che] riguarda il corpo che tracima il proprio senso di costrizione, nel permettere la creazione di ritmi condivisi.” (66) Da questo punto di vista, la vita sulla terra ha un aspetto ritmico che è organico e, in un senso davvero primitivo, musicale. I corpi umani sono fondamentalmente legati ai ritmi della terra, posto che non inibiscano il proprio schiudersi entro sé stessi. Saul Williams sostiene che “siamo l’equivalente manifesto di tre secchi d’acqua e una manciata di minerali, realizzando così che quegli stessi secchi girati sottosopra forniscono l’elemento percussivo dell’eternità. Se devi contare per tenere il ritmo – aggiunge in alcune interpretazioni dal vivo – allora conta.” (67) Ma sostenere questo testimonia già una realtà di separazione; più civilizzati, e cioè orientati alla cultura, diventiamo, più diventiamo incapaci di comprendere questo concetto, anche mentre continuiamo ad esserne soggetti. Le nostre vite allora perdono sincronia con il battito diversificato delle ecologie circostanti e dei loro abitanti senzienti. Siamo così privati di ciò che potrebbe chiamarsi grazia animale – non solo quella che caratterizza la facilità con cui un gatto salta giù da un albero, ma anche quella che – sottolineata dalla sofferenza – opera in mezzo al dolore, alla perdita e all’infelicità. Secondo Mazis, “le radici della parola afflitto indicano ‘essere oppresso.’ Il mondo, se preso sul serio, davvero ci opprime. Essere afflitti significa sentire il peso dell’esistenza, un peso che ci riporta ad un livello condiviso con tutte le altre creature viventi. E’ una via verso casa.”(68) Una casa non perfetta, almeno non secondo le nozioni riduzioniste di perfezione lineare; troppo imprecisa, vaga e “inafferrabile” per ospitare esemplari perfetti. Non si sposa con la geometria Euclidea; una montagna non è più rozza, ma molto più complessa di un triangolo. Inoltre, per il disappunto sia di quelli che vorrebbero costruire un concetto di umanità come negazione dell’animalità, sia di quelli determinati a sviscerare l’inconfutabile nocciolo dell’animalità, nella ricchezza della molteplicità animata non risulta esserci una riconoscibile singola qualità che renda un animale tale. E quindi, semmai, l’animalità è non-essenzialista ed estremamente eterogenea. (69) Ralph R. Acampora sostiene giustamente che “non ci sono animali generici che vagano per la terra, e la pura/perfetta ‘animalità’ in quanto tale può essere evocata nel paradiso di Platone solo in via ipotetica.” (70) Questa, tuttavia, non è l’antica Grecia (71) e non serve a nulla aggrapparsi a standard di perfezione demoralizzanti e incorporei capaci di inibire l’apprezzamento della carne fallibile del mondo. “Di tutte le emozioni – dice Mazis – il dolore ha il grande potere di rallentarci, se lo lasciamo fare. Come la sensazione al centro dei nostri corpi di essere influenzati da tutti questi altri esseri, il dolore ci chiama ad essere partecipi di una rete intrecciata e complessa fatta dei fili sottili dell’interconnessione.” (72) Anche se non è una lezione piacevole, ci permette di realizzare che essere completamente permeabili al mondo – con il sangue, il sudore, e le lacrime che ne derivano – ha la sua propria perfezione. Perciò, sicuramente, invece di premere qualche interruttore immaginario sulla modalità “apprezzamento dell’animalità”, tornare a casa significa prima di tutto sentire il peso del mondo, provare dolore per i miliardi di nostri simili che muoiono, vedere quanta sofferenza deriva dalle nostre azioni. E si tratta di agire in base al dolore. La domanda è: saremo in grado di farne qualcosa, considerate le barriere alla compassione innalzate tutto intorno a noi, che ci separano dal mondo e si sostituiscono ad esso? Nessun sentimento si sviluppa nel vuoto, nella res cogitans di un pensatore Cartesiano opposta alla res extensa del mondo. Siccome, piuttosto, una persona percepisce dentro e attraverso la densità delle cose, sostengo che il vero essere-con (Mitstein) rimuoverà questi ostacoli materiali e percettivi, dovrà coraggiosamente rimpiazzare le immagini con la realtà, il ferro e il vetro con la terra e gli alberi, l’aria condizionata con il vento, la benzina con l’acqua, l’astratto con il concreto, un movimento necessario a restituire incanto al disincantato. Non è una vaga idea buttata a caso. Sia i prerequisiti sia le implicazioni di un recupero di una piena e diretta presenza nel mondo e l’uno  verso l’altro sono sbalorditivi, e fondamentalmente richiedono niente meno che un capovolgimento della reificazione, irreggimentazione e mercificazione della vita senziente. Un tale capovolgimento è, sempre più evidentemente,  tanto necessario quanto inevitabile.
NOTE

51 Adorno, Dialettica Negativa, 299.
52 Ch. Menke, Genealogy and Critique [in:] “Cambridge Companion to Adorno,” ed. Tom Huhn. Cambridge and New York: Cambridge UP 2004, 320.
53 Adorno, Dialettica negativa, 277.
54 A. Lingis, Body Transformations: Evolutions and Atavisms in Culture. New York: Routledge 2005, 16.
55 ibid.
56 Nel seguire le tracce di John Dewey, Shannon Sullivan insiste nell’usare “impulsi” invece di “istinti” per indicare che la “corporeità di un organismo generalmente segue un disegno, piuttosto che a caso.” Mentre “‘istinti’ implica che le energie di un organismo si presentino già confezionate in organizzazioni necessarie e definite di dati significati… gli impulsi… ottengono il proprio scopo solo da consuetudini che li organizzano… la corporeità è organizzata da consuetudini, che sono gli stili di attività acquisiti da un organismo che gestiscono l’energia dei suoi impulsi.” L’abitudine, a sua volta, è molto più che la ripetizione della routine. E’ “non tanto la ricorrenza di azioni particolari, quanto uno stile o una maniera di comportarsi che si riflette attraverso l’essere di ognuno.” Gli automatismi comportamentali sono riflesso non della realtà, ma di faziosità positivista. Vedi S. Sullivan, Living Across and Through Skins. Transactional Bodies, Pragmatism, and Feminism. Bloomington, Indianapolis: Indiana UP 2001, 30-1.
57 Lingis, Body Transformations … , 16
58 ibid.
59 Fromm, Anatomy … , 103.
60 In questo rimaniamo ignari del fatto che questo stesso atteggiamento è un’espressione della vita corporea, insieme al pensiero cosciente come tale, esso stesso non così indispensabile come a tutti piacerebbe forse pensare. Michael Steinberg sostiene che “il pensiero cosciente è completamente intrecciato con il sub-personale … bisognerebbe ricordare costantemente che i pensieri di cui siamo coscienti sono solamente aspetti parziali e a volte anche casuali di un più grande complesso di processi … Il nostro pensiero è solo un aspetto della vita del corpo, esso stesso aperto a tutte le cose.” Vedi M. Steinberg, The Fiction of a Thinkable World. Body, Meaning, and the Culture of Capitalism. New York: Monthly Review Press 2005, 24-5.
61 “Quis custodiet ipsos custodes?” è un proverbio latino attribuito al poeta romano Giovenale, spesso richiamato da Watts nelle sue letture e nei suoi libri relativamente alla futilità ultima dell’auto-controllo e alla necessità di fidarsi della propria natura. Vedi per esempio il suo The Tao of Philosophy (Boston: Tuttle Publishing 2002, 33-4).
62 ibid.
63 W. Hamrick, J. van der Veken, Nature and Logos. A Whiteheadian Key to Merleau-Ponty’s Fundamental Thought. Albany, NY: State University of New York Press 2011, 53.
64 C. Levi-Strauss, The savage mind (il Pensiero Selvaggio), trad. George Weidenfeld and Nicholson Ltd. London: Weidenfeld and Nicholson 1966, 219, 263.
65 Il titolo francese originale de The Savage Mind è “La Pensée Sauvage” dove la pensée è più naturalmente tradotto come “pensiero” piuttosto che “mente”. Mente in francese solitamente si traduce con l’esprit.
66 G. A. Mazis, The Trickster, Magician and Grieving Man: Reconnecting Men with Earth. Santa Fe, New Mexico: Bear & Company Publishing 1993, 207.
67 S. Williams, Coded Language [su:] Amethyst Rock Star, American Recordings 2001.
68 Mazis, The Trickster…, 269, enfasi nell’originale.
69 La nozione essenzialista dell’animalità “tende a uniformare la varietà esistenziale degli esseri animali (in divenire) in un’astrazione concettuale – assegnandoli e relegandoli, così, ad una generica categoria di ‘animalità.’” Vedi Acampora, Corporal Compassion … , 9.
70 ibid.
71 Secondo Steinberg, nelle antiche arti e miti Greci, “gli dei e gli uomini erano legati in una sorta di gioco a somma zero. Gli dei sonotutto ciò che noi non siamo e noi siamo d’altra parte ciò che loro non sono: possiamo cambiare, invecchiare, ammalarci e morire, ma gli dei sono senza età e non cambiano mai.” Uno degli intenti ed effetti dell’arte greca che non è apprezzata dai critici contemporanei era una condanna ad una imperfezione terrena, corporea. “Il credente greco, malato o affamato o semplicemente fuori forma come la maggior parte delle persone, non si faceva ingannare, come noi, dalla forma umana di Zeus o Apollo. ” Vedeva, nell’abisso che separava la propria carne dalla loro, “con crudele precisione le inadeguatezze e le miserie della vita umana.” La nozione greca della perfezione somatica degli dei quindi “mostra la nostra carne fiacca, deforme, cadente come una parodia grottesca della nostra forma ideale.” Così, mentre il corpo umano arriva ad odiare se stesso, il dio inventato – un substrato della nostra paura zoofobica – pesa tremendamente sull’animale che siamo. Vedi Steinberg, The Fiction…, 78-9.
72 Mazis, The Trickster…, 18.

Tutte le fonti online erano accessibili al 6 Dic. 2012.