‘Yes, we fuck!’: la rivoluzione dei corpi dissidenti

Immagine tratta da Yes we fuck!
Immagine tratta da Yes we fuck!
Articolo pubblicato su Pikara, traduzione di Lafra, revisione di feminoska.
Avete dato una possibilità a persone, spesso considerate asessuate o al contrario ipersessuali – comunque sempre posizionate in un luogo quasi inverosimile rispetto alla sessualità – di vedersi rappresentate e di essere protagoniste. State introducendo una questione importante, quella della sessualità nelle persone diversamente abili, attraverso alleanze non sempre così evidenti come quelle con la sessualità non normativa, la critica alla grassofobia, la dissidenza sessuale e il genere. Antonio, come nasce questo progetto dal nome così arrapante?
Il  titolo è una parodia dello slogan della campagna di Obama “Yes, We  can”. Volevamo usare un linguaggio esplicito e un tono divertente, ci sembrava un modo particolarmente appropriato di gettare le basi per un documentario sulla sessualità e la diversabilità. Siamo partiti alla fine del 2012 con l’idea di fare qualcosa che contribuisse a cambiare l’immaginario collettivo sulle persone diversamente abili, rendendo visibile la loro condizione di esseri sessuali e  sessuati, mostrando i loro corpi come desiderabili e desideranti.
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Avete collaborato non solo con collettivi di attivismo critico, ma anche con gruppi che fanno postporno, come Post-Op, o con progetti femministi che rivendicano, per esempio, l’eiaculazione femminile. Come sono andate queste alleanze?
Si sono rivelate esperienze inaspettate, e al tempo stesso ricche ed emozionanti. Andrea García-Santesmases, collaboratora di Yes, We  Fuck!, si è messa in contatto con Diana Pornoterrorista, che ha inserito nel libro Pornoterrorismo un capitolo sulle e sui “diversamente abili” e ci ha condotto da Post-Op, che si è offerto di realizzare un workshop di postporno e diversabilità che costituisce la prima storia del documentario. Ha rappresentato una sorta di  inaugurazione, dato che in questo incontro si è confermato quello che avevamo già intuito rispetto ai discorsi dei diversi collettivi: che condividevamo la stessa lotta per il diritto alla differenza e contro l’idea di normalità. A partire da questa esperienza, che si è rinsaldata con il workshop di eiaculazione femminile, Yes, We Fuck! si è costituito come spazio di incontro e alleanza tra differenti attivismi che fanno politica sul corpo. Mi piacerebbe evidenziare che questa visione sul vincolo tra il crip e il queer, con il quale si è arricchito moltissimo il documentario, è stata possibile solo grazie al lavoro di Andrea García-Santesmases, che oltre a realizzare i due workshop (oltre al tema della diversità intellettuale) è stato colei che ci ha costantemente orientati nella linea ideologica che avrebbe potuto renderlo possibile.

Cosa vi ha portato a privilegiare la forma del documentario invece di creare una associazione o un progetto sociale?
Non avevamo l’intenzione di essere particolarmente pedagogic@, quanto piuttosto quella di scuotere l’immaginario collettivo riguardo la sessualità e la diversabilità, e nulla risulta così potente come l’immagine esplicita. Nella nostra cultura, ciò che non si vede difficilmente si immagina.
Ripetiamo  spesso che il linguaggio è uno strumento per pensare, però come è possibile che non si conosca il termine “abilismo” allo stesso modo di altri termini quali razzismo, xenofobia, sessismo o classismo? Per chiarire, l'”abilismo” è la convinzione che alcune capacità siano intrinsecamente migliori, e che chi le possiede sia migliore del resto delle persone.
Questa assenza nel linguaggio è il segno inequivocabile di quanto questa forma d’oppressione basata sulla differenza corporea sia stata naturalizzata, per giustificare la disuguaglianza sociale che ci colpisce da tempo immemore. Siamo forse l’ultima roccaforte nella quale continua a sembrare naturale che la biologia giustifichi la disuguaglianza sociale, al contrario di quello che succede con le questioni di genere o di razza.
Sappiamo che avete all’attivo anche un crowdfunding, che cosa sperate di ottenere?
L’idea del crowdfunding è  di poter finanziare la produzione e la diffusione del documentario senza dover ricorrere a una casa di produzione classica, che quasi certamente significherebbe la perdita di un certo margine di libertà per esprimere le questioni più spinose. Una volta terminato il documentario e passata la fase di diffusione nei festival, in televisione, su internet e gli altri media, abbiamo intenzione di mantenere il sito, nel quale sia possibile continuare con la visibilizzazione dei temi relativi alle sessualità diversamente abili attraverso video amatoriali, fotografie, articoli, notizie…
Il vostro progetto vuole stimolare modi nuovi di intendere la sessualità fuori dai confini eteronormativi,  che includono –  tra le varie riflessioni emancipatorie e chiaramente generatrici di autodeterminazione – il godimento con le protesi, la degenitalizzazione e la ricerca di nuove forme di raggiungimento del piacere. Come viene accolto il vostro lavoro da parte dei movimenti di persone diversamente abili più generalisti? State incontrando resistenze?
Fino ad ora il progetto ha avuto più diffusione negli ambienti affini, come il Movimiento de Vida Independiente (Movimento per la Vita Indipendente) e altri spazi di attivismo, e li è sempre stato ben accolto. Rimane da scoprire come verrà accolto su terreni più tradizionali e di carattere maggiormente istituzionale.  Ad ogni modo, se andrà bene, ipotizziamo che entusiasmerà molt*, irriterà diverse persone e non lascerà indifferente quasi nessuno.
 Puoi saperne di più su ‘Yes, we fuck!’ visitando il sito, il canale Vimeo e appoggiando il crowdfunding.

Non c’è tempo per l’amore: il capitalismo romantico

Al sistema di produzione non importa se sei ubriaca d’amore, arrapata, triste o in lutto. Il capitalismo ci ingabbia, vuole che dedichiamo il nostro tempo al lavoro o al consumo: l’amore è improduttivo. I femminismi reclamano la conciliazione della vita lavorativa e del lavoro riproduttivo, ma abbiamo ancor più bisogno di un modello (di esistenza) compatibile con il piacere e gli affetti.

ph "signora Milton" da  Minerva Magazine
ph “signora Milton” da Minerva Magazine

Se la giornata lavorativa media,
preparazione e trasporto inclusi, è di dieci
ore, e se le esigenze biologiche di dormire e alimentarsi
richiedono altre dieci ore, il tempo libero sarà di quattro
ore ogni ventiquattro per la maggior parte della
vita di un individuo. Questo tempo libero sarà potenzialmente
disponibile per il piacere.

Herbert Marcuse, Eros e Civilizzazione

Quante ore dedichi all’amore? Non a immaginarlo, sognarlo o consumarlo nei film o romanzi, ma a viverlo. Da quanto tempo non passi ore facendo l’amore con il/la tu@ compagn@ di anni, come avveniva in principio? Quanto tempo hai per conoscere gente nuova e incontrare qualcuno che ti piace davvero? Quanto tempo hai a disposizione per avere una storia di quelle che ti sconvolgono la vita e ti sfascia gli orari?
Ne abbiamo poco. C’è poco tempo per l’amore. Per conoscersi, innamorarsi, approfondire, restare delusi, lasciarsi, ritrovarsi, tornare a innamorarsi.

Viviamo in una società molto “amorosa”: alla radio passano canzoni d’amore strappalacrime, al cinema in tutti i film c’è una storia d’amore sullo sfondo o in primo piano, le stelle dello spettacolo escono allo scoperto al telegiornale e ci presentano i/le compagn@, nelle riviste circolano gossip e pettegolezzi sulle/i personaggi famos@ che si innamorano o si separano, i social network sono pieni di gente in cerca dell’amore della vita, su Facebook veniamo a conoscenza dei matrimoni dei conoscenti, in televisione trionfano i drammi sentimentali, e con la pubblicità ci regalano paradisi romantici per venderci case, auto, mobili o deodoranti.
Tuttavia, c’è poco tempo per l’amore, Marcuse ci ha visto giusto: i minuti che dedichiamo al piacere sono molto pochi. La maggior parte del giorno lavoriamo in cambio di un salario, il tempo che ci resta è destinato al sonno e a risolvere le questioni basilari dell’igiene e della nutrizione (e altri mille obblighi della vita urbana postmoderna). Facciamo l’amore alla fine del giorno, prima di dormire, con addosso la stanchezza accumulata di un’intera giornata, e bisogna fare in fretta per finire in fretta e poter dormire sette, otto ore.

Potremmo godere di più se potessimo dedicare giorni interi a chiacchierare, a giocare, a fare l’amore, a mangiare bene, ad ascoltare buona musica in intimità con i/le nostr@ compagn@. Ma gli orari che abbiamo non sono fatti per rilassarci e per godere pienamente dell’amore.
Le nostre agende sono sempre piene di cose da fare, dopo aver lavorato otto ore e averne perse almeno altre due per tornare a casa o spostarsi in qualsiasi altro luogo: andare in palestra, al corso di yoga, portare a spasso il cane, seguire l’assemblea del proprio collettivo, incontrarsi con le amiche dell’università, portare il gatto dal veterinario, lavare la pila di piatti e padelle sudicie, andare dal dentista, rispondere alle mail, fare la spesa settimanale, bagnare le piante, portare ad aggiustare dei pantaloni, andare dallo psicologo, fare la lavatrice, riordinare e pulire, fare la cena o da mangiare per il giorno dopo, parlare su skype con tua sorella che vive all’estero, rispondere alle telefonate o ai whatsapp, depilarti le gambe e i baffetti, controllare la pagella delle/i figli@, partecipare alla riunione di condominio, passare alla posta, andare in banca, portare la bambina a informatica e dopo a inglese, portare ad aggiustare gli occhiali del bambino dall’ottico, portare il computer dal tecnico per farlo aggiustare, fare i conti e sistemare le fatture, studiare qualcosa che ci permetta di crescere o migliorarci professionalmente…

Sì, i nostri obblighi quotidiani sono estenuanti e alla fine del giorno crolliamo sul divano per leggere, vedere la tv o navigare in internet e dimenticarci un po’ le nostre preoccupazioni. In questi momenti forse ci resta solo un’ora utile di vita prima di cadere tra le braccia di Morfeo, e la stanchezza non ci bendispone alle acrobazie in camera da letto con la nostra compagna o il nostro compagno. Secondo la maggior parte delle statistiche, i giorni nei quali le persone si dedicano al sesso sono i fine settimana che, come tutti sappiamo, sono troppo corti per fare tutto quello che una desidererebbe fare: vivere la vita.
Il tempo ci sfugge dalle mani. E lo malediciamo quando ci accorgiamo che sono passati millenni senza vedere la tale amica o senza andare a far visita alla nonna, o senza incontrare la compagnia dell’università. O quando assistiamo a un funerale e ci diciamo: “Cerchiamo di vederci di più, dobbiamo incontrarci anche nelle occasioni allegre”.

La tirannia del tempo che ci sfugge si stempera quando ci innamoriamo selvaggiamente. Ci liberiamo quando l’euforia dell’innamoramento confonde la nostra percezione e relazione con il tempo, come accade con le droghe. Smettiamo di guardare l’orologio, le intense notti d’amore si fanno corte, gli istanti sublimi congelano il tempo e ci fanno etern@.
Sì, l’amore ci fa dee del tempo: sotto l’influsso della passione siamo capaci di assaporare ogni secondo d’amore, acciuffare il presente con le nostre mani, vivere l’ora con una intensità brutale. Il tempo non scorre più allora inesorabile, secondo per secondo verso il futuro, a un ritmo monotono e implacabile. I secondi sembrano ore, le ore minuti: il tempo rallenta (quando aspettiamo una telefonata o il giorno del prossimo appuntamento) o si accelera (quando siamo immerse in momenti d’amor folle), e la vita è più emozionante perché la nostra percezione della realtà si confonde.

Anche il nostro organismo si sconvolge e acquisisce dei superpoteri. La chimica dell’amore è così forte che siamo capaci di passare notti intere senza dormire unit@ alla persona amata, e giorno dopo giorno lavorare e portare a termine i propri impegni come se niente fosse: solo ti tradisce un sorriso permanente sulla faccia, le orecchie arrossate, la pelle luminosa e i capelli lucidi. Di notte ti aspetta un’altra sorpresa, e ti senti capace di tutto: ci riempiamo di energie cosmiche per vivere il presente intensamente.
Quando passa l’ubrichezza dell’amore e torniamo alla vita reale, perdiamo i superpoteri che ci facevano fare l’amore per ore e il corpo risponde male alla mancanza di sonno. Con l’andare dei mesi e degli anni, le coppie si orientano più alle attività sociali che all’intimità, ed è difficile per molti ricostruire questi spazi intimi pieni di magia che fermano il tempo. Sicché, c’è gente che si lamenta che scopiamo di fretta, che scopiamo senza voglia, che scopiamo stanche, che scopiamo poco o non scopiamo affatto.

Se già è difficile ritagliare tempo e spazio da condividere con il/la partner, si immaginino le persone che hanno amanti, o quelle che hanno più compagn@: durante la giornata è quasi impossibile trovare momenti da dedicare all’amore senza guardare l’orologio. Le coppie di adulti possono godere di appena un’ora o due (non c’è tempo per nulla di più), ma anche la gente poliamorosa si trova in difficoltà, perché manca il tempo per avere più compagn@ contemporaneamente: il fine settimana ha solo due notti e tre giorni che volano. Sì, è difficile essere poliamorosa con i tempi che corrono, se vuoi dedicare a tutte le relazioni tempo di qualità, se vuoi godere intensamente della tua vita sociale (la tua comunità, la tua tribù, il tuo vicinato, la tua famiglia), e se hai anche necessità di tempo e spazio da goderti in solitudine.

Viviamo in un sistema produttivo che ci incatena 40 ore settimanali a un lavoro che ci dà un salario generalmente precario (sono molte le persone che fanno 50 o 60 ore settimanali sottraendo ore di sonno o di vita in cambio di niente o di molto poco). Alle imprese non solo diamo molto tempo della nostra vita, ma anche le nostre energie fisiche, mentali ed emozionali. Quant@ di voi hanno dovuto trascinarsi dolorosamente fuori dal letto per andare a lavoro, sentendo che stavate lasciando un po’ di vita nel letto d’amore? Quante persone hanno mai saltato il lavoro perché innamorate o innamorati? Quante volte hai desiderato startene tra le lenzuola a giocare, mentre guardi fuori dalla finestra e conti le ore che ti restano per andartene dal tuo luogo di lavoro? Quante volte hai perduto la concentrazione a lavoro a causa di un amore che ti sta aspettando a casa sua, mentre ti prepara la cena, non riuscendo a finire il tuo lavoro?

Il capitalismo ci ingabbia, anche se non siamo produttive. Al capitalismo non importa se sei ubriaca d’amore, felice, euforica, esultante, arrapata, preoccupata, angustiata, disperata, triste, ansiosa, arrabbiata. Al capitalismo non importa se la tua compagna è in ospedale e tu vuoi accompagnarla e starle accanto. Non importa se devi fare un discorso serio con il/a tu@ compagn@, se soffri per una rottura sentimentale, se vuoi fare compagnia a un’amica o un amico nei momenti difficili. Non gli importa e tu devi andare a lavorare, anche se tua nonna sta morendo. Non gli importa se non hai dormito quella notte a causa dell’influenza di tua figlia o se hai passato la notte godendo lussuriosamente. Tu devi stare lì, adempiere al tuo dovere, anche se non sei produttiva e non rendi niente quel giorno. Se te ne stai per i fatti tuoi è lo stesso. Non puoi permetterti il lusso, in generale, di prenderti alcuni giorni per le tue faccende emozionali, perché allora questo mese non mangi. La catena di produzione non può fermarsi a causa dei tuoi sentimenti e al capitalismo conviene che non si sia troppo felici: la nostra insoddisfazione permanente e il nostro dolore ci rendono più vulnerabili. Cosicché lo sfruttamento delle nostre energie e del nostro tempo è brutale, perché va oltre la questione produttiva. Viviamo in una società repressiva alla quale conviene limitare l’accesso al piacere, all’amore, al gioco e al divertimento. E’ preferibile che ci si diverta consumando, o che si dedichi il proprio tempo al lavoro: l’amore è improduttivo. Poco redditizio.

C’è poco tempo per l’amore, e a volte poche energie. L’innamoramento passionale non è eterno: il nostro cervello e il cuore non possono stare innamorati per anni: è estenuante produrre questo livello di endorfine e anfetamine tutto il tempo. Inoltre il romanticismo resta sempre schiacciato dala tirannia degli orari, della routine, degli obblighi. Molte coppie si disinnamorano perché passano poco tempo assieme: tempo di qualità, tempo senza limiti, tempo per l’amore e l’erotismo.
Oltre a non aver tempo per vivere storie d’amore, non ne abbiamo nemmeno per goderci le nostre figlie e i nostri figli, le persone che amiamo, gli animali domestici: passiamo la maggior parte del giorno fuori casa, producendo per arricchire altre persone che in realtà non avrebbero bisogno di tenerci tante ore lì.

I femminismi reclamano la conciliazione di vita lavorativa e familiare: le otto ore di lavoro quotidiano sono incompatibili con la cura dei bambini, dei malati o degli anziani. E risulta che il 90% delle persone che si dedicano a ruoli di cura nel mondo siano donne. Alcune devono rinunciare all’autonomia economica e al mercato del lavoro, altre si fanno carico di una doppia giornata di lavoro.

Ci sono paesi in cui i lavoratori non hanno diritto alle vacanze pagate (al massimo due settimane all’anno, non pagate), ma ce ne sono altri come l’Islanda o la Svezia che sperimentano nuove misure per migliorare la qualità della vita dei propri abitanti. Nel caso della Svezia, si pensa che non sia il tempo a determinare il livello dell’efficienza lavorativa, ma la motivazione e il benessere delle e dei lavoratori.
E’ stato deciso di introdurre una giornata lavorativa di sei ore senza riduzione di salario, la qual cosa sembra aumentare il livello di soddisfazione, rispetto al lavoro, degli svedesi e delle svedesi; inoltre, migliora la produttività, aumenta il risparmio statale e permette di creare più posti di lavoro. Posso immaginare quanto siano felici le lavoratrici municipali nel conquistare un’ora di vita per amici e amiche, per la famiglia, per la comunità, per gli hobby, per sé stesse, per il proprio tempo di riposo e ozio.

Il tempo è oro: le nostre vite sono molto brevi e abbiamo bisogno di un sistema produttivo più vicino alle nostre necessità vitali, individuali e collettive. Il capitalismo romantico ci regala molti finali felici mentre ci ruba ore di vita: abbiamo bisogno di recuperare il nostro tempo e le energie per goderci la vita.
Necessitiamo di tempo per amare, per godere del piacere in tutta la sua ricchezza. Tempo per ascoltare, per viaggiare, per conoscere, per condividere, per costruire comunità con gli altri. Tempo per aiutare, creare reti, celebrare, apprendere, creare. Tempo per coltivare e nutrire l’unica cosa che sembra dare un po’ di senso alla vita: gli affetti.

Testo originale Sin tiempo para el amor: el capitalismo romántico di Coral Herrera Gómez, da pikaramagazine.com. Traduzione Serbilla, revisione feminoska.

Sfatiamo sei miti sulle persone che lavorano nell’industria del sesso

237_1sex_worker__south_africa-300x199

Traduzione di questo articolo di Laura Kacere e Sandra Kim da everydayfeminism.com, a cura di feminoska e Lorenzo Gasparrini. Revisione a cura di Eleonora (grazie, grazie, grazie!)


Vivono barcamenandosi tra visibilità e invisibilità, criminalizzazione e cittadinanza, sicurezza e pericolo, sfruttamento e autodeterminazione.
Le persone coinvolte nell’industria del sesso oscillano costantemente tra questi estremi. Tra stigma e invisibilità, subiscono violenze e discriminazioni fortissime, e ciononostante finiscono troppo spesso per essere tagliate fuori dal discorso della violenza sulle donne. A causa della rappresentazione miope e poco accurata che ne danno i media e dello stigma culturale che circonda il commercio del sesso, troppi sono i preconcetti che circondano le persone coinvolte nell’industria del sesso. Storicamente, il femminismo ha semplificato (e continua a semplificare) la questione, non si fa fatica a imbattersi in una delle cosiddette “guerre del sesso” delle femministe. Troppo spesso non riusciamo a vedere la complessità e la varietà dei soggetti coinvolti nel commercio del sesso, le motivazioni che stanno alla base della loro scelta, e il grado di autodeterminazione o, al contrario, coercizione vissute. Forse anche tu, o qualcun@ che conosci, sei stat@ coinvolt@ nell’industria del sesso. O magari, quello che sai in proposito rispecchia le rappresentazioni ipersemplicistiche del traffico sessuale e delle sex worker sui media, e non sei sicur@ di capire che differenza c’è tra le due cose. Malgrado ciò, puoi essere un alleat@ delle persone coinvolte nell’industria del sesso. Ma dato il numero di luoghi comuni esistenti relativi all’industria del sesso, è utile sfatare alcuni dei miti che impediscono di vedere il fenomeno per quello che è in realtà.

Mito#1: Le parole che usiamo per descriverle non contano granché.

La nostra cultura descrive le persone coinvolte nell’industria del sesso come prive di valore, sporche, tossiche, vittime, sopravvissute, portatrici di malattie, poco raccomandabili, criminali, come “troie” e “puttane”. Anche coloro che non vogliono utilizzare etichette deumanizzanti spesso non sanno come riferirsi alle persone che lavorano nell’industria del sesso. Molto spesso ti sarà capitato di sentire la parola ‘prostituta’. E anche se alcune di queste persone potrebbero identificarsi proprio così, questa parola ha forti connotazioni negative, e molte preferirebbero non sentirsi chiamare così. Dal momento che esistono differenze enormi tra le persone che entrano volontariamente nel commercio del sesso, quelle costrette a farlo e tutte le variegate situazioni che stanno in mezzo a questi due estremi, è importante utilizzare il linguaggio in modo da riflettere questo aspetto. Per questa ragione, coloro che entrano volontariamente nel commercio sessuale generalmente preferiscono il termine ‘sex work’ e spesso si identificano come sex worker. Questo termine è stato coniato dalle sex worker per potersi rinominare e per riformulare il concetto per sé stesse – e definirlo in quanto attività professionale e scambio economico. Il termine ‘tratta’, invece, fa riferimento a persone costrette con la forza, l’inganno e/o la coercizione a vendere prestazioni sessuali. Se sono minori, sono vittime sopravvissute allo sfruttamento commerciale sessuale di minori, e/o alla tratta. Per via della loro età, non è necessario l’uso di forza, inganno e/o coercizione perché venga considerata tratta, secondo le leggi federali statunitensi e alcune leggi nazionali.
Queste categorie non sono in realtà così semplici come sembrano, né sono fisse. Spesso le esperienze delle persone si situano in qualche punto lungo questo spettro, e le ragioni per cui le persone si trovano nell’industria del sesso possono cambiare nel corso del tempo. Ora stai facendo le ipotesi più disparate riguardo alle persone che rientrano in queste categorie, anche ora che stai leggendo? Nel discutere questo problema, può essere utile esaminare i propri pregiudizi e preconcetti sulle le persone coinvolte in questa industria.
In questo articolo, si fa riferimento all'”industria del sesso”, cioè alle persone e alle attività coinvolte nello scambio di atti sessuali in cambio di soldi, riparo, cibo, vestiti e altri beni. Questo termine è usato qui in senso più ampio per includere non solo prostituzione di strada, bordelli e agenzie di escort, ma anche coloro che sono coinvolti nel sesso di sopravvivenza, nell’industria del porno, negli strip club, e nel sesso con contatto indiretto (via telefono o Internet).
Usiamo il termine “persone nell’industria del sesso” per riferirci a persone che offrono sesso a pagamento. Tuttavia, di solito vi sono altri soggetti coinvolti con molto più potere e privilegi nell’industria del sesso – sono soprattutto trafficanti e acquirenti.

Mito#2: Le persone nell’industria del sesso sono tutte etero, povere, adulte, donne americane di colore che lavorano nelle strade.

Quando immagini una persona che fa parte dell’industria del sesso, che aspetto ha? Anche se c’è un buon numero di persone nell’industria del sesso che rientra nelle categorie elencate sopra, al suo interno c’è anche un’ampia e varia gamma di identità, e molte persone vivono e lavorano dove si intersecano molteplici forme di oppressione.
Dal momento che la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro sono spesso fattori che favoriscono l’ingresso di molte persone nell’industria del sesso molte persone nell’industria del sesso sono povere e di colore, ma molte altre provengono da ambienti borghesi, e tante sono bianche.
Troppo spesso, però, sono soprattutto donne e bambini di colore poveri a venire criminalizzati e incarcerati.
Nel settore del sesso, molte sono le donne eterosessuali (sia cis che trans), e la maggioranza delle persone che comprano sesso sono uomini eterosessuali, ma all’interno dell’industria del sesso consumano e si muovono persone di ogni genere e sessualità. L’immagine stereotipata del lavoratore del sesso è quella di una persona che “lavora sulla strada”, ma la tecnologia e Internet hanno un ruolo importante nell’industria del sesso e infatti, sempre più spesso, il sesso a pagamento passa attraverso la rete, mentre si continua a utilizzare altre forme di tecnologia come il telefono e i film. I minorenni costituiscono una parte importante dell’industria del sesso, e tendono ad essere bersagli facili dei trafficanti americani. Per via della loro età, i minori sono spesso marginalizzati e più vulnerabili, e questo vale per bambini e adolescenti di qualsiasi genere e razza. Inoltre, a causa dell’omofobia e della transfobia, molti giovani LGBTQIA+, in particolare di colore, scappano o vengono cacciat@ di casa, e lasciat@ senza un tetto. Ciò significa un rischio maggiore che debbano dedicarsi al sesso a pagamento per sopravvivere, o allo sfruttamento sessuale a pagamento. Anche se la maggior parte dell’industria del sesso negli Stati Uniti riguarda cittadini statunitensi, esistono molte reti nazionali straniere che fanno entrare negli USA donne da altri paesi per inserirle nel commercio del sesso a pagamento. Alcune di loro devono anche affrontare i pericoli derivanti dall’essere senza documenti e dall’incapacità di esprimersi in lingua inglese o di comprendere la società americana, che sono spesso ulteriori mezzi di controllo su di loro. L’industria del sesso esiste, come è evidente, in forme molto diverse e coinvolge soggettività assai differenti e, nonostante tutte queste differenze, coloro che sono già esclus@ e marginalizzat@ a livello sociale devono affrontare livelli assai più elevati di violenza individuale e strutturale rispetto alle loro controparti privilegiate.
Le soggettività che si trovano all’incrocio di identità privilegiate – come coloro che sono bianch@ e/o benestanti a livello sociale e/o economico – tendono a offrire sesso a pagamento attraverso mezzi meno visibili (per esempio, la rete) e sono meno esposte alla possibilità di venire arrestate. Nel contempo, coloro che sono più visibili e che sono soggett@ a livelli di controllo più alti – come le persone trans, nere e latin@, senza documenti, o con precedenti criminali, sono prese di mira e si trovano ingiustamente ad affrontare arresti e incarcerazioni in percentuali molto più elevate.

Mito#3: Le persone nell’industria del sesso? O sono tutte vittime o sono tutte autodeterminate!

Troppo spesso il discorso che ruota intorno all’industria del sesso si riduce alla nozione semplicistica che dipinge l’industria del sesso come un’attività sessista e vittimizzante, o al contrario come un’attività che dà forza e autodeterminazione alle donne. In realtà è ambedue le cose, nessuna delle due, e molto altro ancora. Le persone entrano nell’industria del sesso per vari motivi, che potremmo raggruppare in tre macro-categorie:
– Tratta: persone costrette ad entrare nell’industria del sesso tramite l’uso della forza, la frode o la coercizione se adulte, o semplicemente costrette a fare sesso a pagamento se minori (sfruttamento sessuale di minori).
– Necessità economica: persone convinte che il sesso a pagamento sia l’unica o la più percorribile modalità di guadagno per sopravvivere e soddisfare i propri bisogni.
– Sex work per scelta: persone adulte che scelgono di offrire sesso a pagamento.
Anche se abbiamo voluto semplificare utilizzando queste tre categorie, ciò non significa che per le singole persone il procedimento sia sempre così semplice e lineare. Molte delle persone nell’industria del sesso ci si sono trovate per ragioni o motivazioni diverse, che possono anche cambiare con il passare del tempo. Per esempio, molte donne cis e trans che si trovano ad affrontare una società transfobica e sessista, possono decidere di vendere sesso a pagamento perché è l’unico modo che hanno di sopravvivere e di sostenere le proprie famiglie. Alcune sono costrette da persone che hanno potere su di esse. Altre scelgono di entrare nell’industria del sesso e la vedono come un’altra forma di lavoro possibile. Alcune ancora la trovano un’esperienza arricchente e sono contente di dedicarsi al sesso a pagamento.
Una minorenne che venda sesso a pagamento viene considerata automaticamente una vittima di tratta e/o di sfruttamento sessuale di minori secondo le leggi federali (sebbene storicamente, e spesso ancora oggi sia considerat@ alla stregua di criminale dalle leggi dello stato). Ma spesso, dalla sua prospettiva, questa attività è percepita come autodeterminata poiché svolta per il proprio “fidanzato” adulto (ovvero il pappone).
A causa di questa vasta gamma di esperienze e delle differenze nel passato e nelle prospettive delle diverse persone nell’industria del sesso, la dicotomia vittimizzazione/autodeterminazione è chiaramente falsa e semplicistica.

Mito#4: Le persone nell’industria del sesso non possono essere stuprate.

Perché supponiamo che vi siano persone che “non possono essere stuprate”? Questo mito deriva da idee perpetuate dalla cultura dello stupro, che considera determinate categorie di persone – coloro che fanno sesso per denaro o altro – come impossibili da forzare ad avere un rapporto sessuale. Secondo questo preconcetto, le persone all’interno dell’industria del sesso non pongono confini né hanno potere decisionale sui propri corpi, e pertanto non possono rivendicare (o non rivendicare) il proprio consenso. Se una cultura considera una persona come priva della proprietà del proprio corpo, allora quel corpo diventa un corpo altrui, che non ha la possibilità né la capacità di dire sì o dire no.
Questo è un problema non solamente collegato allo stigma, ma che ha conseguenze reali nei rapporti con i clienti, la polizia e altri soggetti.
Secondo due studi del Sex Workers Project, il 17% delle sex worker intervistate ha denunciato molestie sessuali, abusi e stupri da parte della polizia. Ma dal momento che le persone all’interno dell’industria del sesso sono tanto marginalizzate e possono essere venire incarcerate, questi equilibri di potere permettono che sulle violenze compiute dalla polizia non vengano effettuate indagini. In realtà, la costrizione agli atti sessuali da parte dei poliziotti, così come la “scelta” tra il fare sesso o andare in galera, è un’esperienza assai comune. Denunciare questi eventi (ed essere prese seriamente) è abbastanza fuori questione. Al contrario, quando subiscono violenze sessuali, la nostra società tende a incolpare le persone nell’industria del sesso dichiarando che “se la sono cercata”. Ma la necessità del consenso nel sesso non scompare solo perché una persona fa sesso in cambio di soldi o altri beni.

Mito#5: le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi di vendere i propri corpi.

Sappiamo bene che la nostra cultura fa sentire in colpa le donne che fanno sesso e ciò si applica ovviamente anche all’industria del sesso. Lo stigma e l’idea che le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi, o che sia necessario farle sentire in colpa in maniera da farle uscire dall’industria, è completamente sbagliata. All’interno della categoria della tratta, questa stigmatizzazione ha condotto ad un altra dicotomia falsa eppure molto diffusa: quella che distingue tra vittima buona/vittima cattiva. Una “vittima buona” è qualcun@ (solitamente bianca, etero e giovane) che non aveva assolutamente alcuna idea del fatto che avrebbe dovuto vendere sesso e che è stata portata a farlo con l’inganno. Una ” vittima cattiva” è una persona (solitamente di colore) che sapeva che avrebbe dovuto vendere sesso e “ciononostante” ha deciso di dedicarcisi – anche quando vi è abuso per costringerla a restare.
Janet Mock, discutendo della sua esperienza nell’industria del sesso, trattò eloquentemente il tema della vergogna nel suo libro “Ridefinire la realtà”: “non credo che utilizzare il proprio corpo – spesso l’unico bene posseduto dalle persone marginalizzate, specialmente nelle comunità di colore povere e a basso reddito – per prendersi cura di sé sia vergognoso. Trovo vergognosa una cultura che esilia, stigmatizza e criminalizza coloro che sono coinvolte in economie sotterranee come il sex work quale mezzo per passare dall’indigenza alla sopravvivenza.” Indipendentemente dalla ragione che le ha portate a compiere quella scelta, le/gli alleat@ dovrebbero supportarle e lavorare per distruggere lo stigma che grava sulle persone nell’industria del sesso. Se vogliono lasciare il commercio sessuale, dovremmo fornire loro servizi di supporto che le aiutino nella transizione. E se non vogliono, dovrebbero comunque essere sostenute. I servizi destinati alle persone nell’industria del sesso dovrebbero essere organizzati in una maniera tale da rispettare la loro umanità e sostenere la loro capacità di iniziativa.

Mito#6: Le persone coinvolte nell’industria del sesso sono criminali.

Correzione: sono ‘criminalizzate’. Le persone nell’industria del sesso sperimentano un’intera gamma di violenze e minacce emotive, culturali e fisiche nelle proprie comunità e molto più spesso da parte della polizia. E chi è il bersaglio preferito della polizia e del sistema penale? Le donne di colore. Le donne trans. Le persone che vendono sesso per strada alla luce del sole. Le persone minorenni. Le persone con crimini o uso di droghe alle spalle. Le persone povere. Le persone straniere o senza documenti. In altre parole, le persone che si trovano già in una situazione di marginalizzazione e oppressione. Nonostante vengano criminalizzate anche le persone che comprano sesso a pagamento e i trafficanti, le forze di polizia non si focalizzano su questi soggetti tanto quanto su coloro che forniscono sesso a pagamento. Al contrario sono trattati con un’attitudine buonista stile ” i ragazzi sono pur sempre ragazzi” anche quando sono coinvolti dei minori. Le donne trans di colore sperimentano la discriminazione della polizia, sia che siano coinvolte o meno nell’industria del sesso. le donne Trans di colore spesso vengono schedate, arrestate e trattenute per adescamento poiché vengono considerate, da parte delle forze dell’ordine, attraverso la lente degli stereotipi razziali e sessuali. Fino a poco tempo fa, in ogni stato USA, i minori sotto i 18 anni coinvolt@ nell’industria del sesso venivano criminalizzat@ nonostante esistano leggi contro lo stupro e gli abusi sessuali su minori. Grazie alla legge “New York Safe Harbor Law” del 2008 e alle leggi di altri stati che sono seguite, stiamo assistendo ad una minore criminalizzazione e a una maggiore offerta di servizi a loro sostegno, anche se molto va ancora fatto.

***

Nonostante tutti i miti che circondano le persone nell’industria del sesso, è chiaro che esiste un ampio spettro di esperienze vissute, e quell@ di noi che scelgono di essere alleat@ hanno molto da imparare. Possiamo stare al fianco delle persone nell’industria del sesso lottando contro lo stigma, per la depenalizzazione, e fornendo servizi per aiutarle ad essere più sicure. Indipendentemente dal fatto che qualcun@ voglia lasciare il settore o rimanervi, possiamo lottare per difendere i diritti delle persone nell’industria del sesso e farlo attraverso modalità che ne favoriscano l’ autonomia e siano rispettose delle loro scelte. E quando le voci della gente nell’industria del sesso sono messe a tacere e le loro storie ignorate, è molto importante che noi lavoriamo per ascoltarle e per contribuire a farle risuonare.

Per ulteriori informazioni, si prega di fare riferimento a queste organizzazioni che sono impegnate a sostenere le persone coinvolte in diversi settori dell’industria del sesso:

GEMS e il loro film, Very Young Girls, sullo sfruttamento sessuale commerciale delle ragazze a New York
HIPS e il loro documentario, Be Nice To Sex Workers, sul sesso di sopravvivenza in strada a Washington, DC
Polaris: Lotta contro la tratta di esseri umani e la schiavitù moderna e il loro video, “America’s Daughters” , che è una poesia scritta da una sopravvissuta alla tratta
Sex Workers Project

Condividi questo articolo!

Laura Kacere scrive su Everyday Feminism ed è attivista femminista oltre che organizzatrice, volontaria in una clinica per aborti, studentessa e insegnante di yoga che vive e va a scuola a Chicago. Quando non studia o pratica yoga, pensa agli zombie, suona, mangia cibo Libanese e sogna di essere circondata da alberi. Seguila su Twitter @Feminist_Oryx.
Sandra Kim è fondatrice, amministratrice delegata ed editrice capo di Everyday Feminism. Integra esperienza personale e professionale su trauma, trasformazione personale e cambiamento sociale attraverso un’ottica femminista.

10 modi per essere un femminista migliore

18g2nc8y5l9j8png

Articolo di Aaminah Khan, apparso originariamente sul suo blog. Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Chi dice che sono sempre negativa? Lasciando perdere quello che scrivo sul blog, le dichiarazioni furibonde su Twitter e le arrabbiature quando la mia squadra di calcio non sta vincendo, vi assicuro che sono in grado di essere ragionevole, costruttiva e anche – assicuratevi di essere sedut@ per quello che sto per dirvi – piacevole.

Potreste avere l’impressione che odi gli uomini. Non è così. Gli uomini mi piacciono! (Alcuni uomini mi piacciono davvero tanto, se capite cosa intendo – e sono sicura che abbiate capito, perché la mia frase aveva la delicatezza di un ubriaco ad una serata di gala [ndt: abbiamo evitato l’uso dell’espressione elefante nella cristalleria in quanto ritenuto specista, così abbiamo coniato una nuovo modo di dire]). Quello che mi fa impazzire è la misoginia. Quello che mi fa schiumare di rabbia è l’appropriazione del movimento femminista da parte di uomini che o non sanno cosa stanno facendo o stanno deliberatamente cercando di trarne profitto.
Diciamo che sei un esemplare del primo tipo – ben intenzionato, ma non abbastanza consapevole su cosa comporti essere un femminista. Sei nel posto giusto! Ho intenzione di smettere di urlare per un tempo sufficiente a dirti dieci cose che puoi fare per essere un femminista migliore, un alleato migliore e – diciamocelo – una persona migliore.

1.Lascia perdere i tuoi preconcetti
So che hai un sacco di preconcetti su che cos’è il femminismo e su quale possa essere il tuo ruolo nel grande schema delle cose. È perfettamente normale – tutt@ noi abbiamo dei preconcetti sulla vita basati sulle nostre esperienze precedenti. Ma è necessario lasciarli perdere tutti quando si entra in uno spazio femminista. Il femminismo è un movimento che si basa in gran parte su esperienze vissute dalle donne. Se non sei una donna, puoi provare empatia, ma naturalmente non puoi dire che sai cosa abbiamo passato. E non c’è nulla di male! Sostengo molte cause anche se non mi riguardano o toccano in prima persona. Nessun@ sta dicendo che non puoi essere femminista. Quello che stiamo dicendo è che devi seguirci nel farlo, perché questo movimento riguarda il modo in cui le strutture di potere influenzano la nostra vita in modi che potresti non riuscire nemmeno a percepire dalla tua posizione. Vieni a mente aperta e sii pronto a imparare, e non solo ti troverai di fronte a un mondo completamente nuovo, ma sarai molto più in grado di comprendere ed elaborare quello che vedrai e sentirai.

2. Preparati ad ascoltare. A lungo
Probabilmente hai molte tue idee che desideri condividere. Vuoi dirci perché gli uomini agiscono così come fanno, e come pensi che si possa cambiare questo comportamento. E c’è spazio per fare questo nel contesto femminista… fino a un certo punto. Ma per la maggior parte del tempo, abbiamo bisogno che gli uomini ascoltino. Voglio che pensi a tutte le donne che si vedono negata la possibilità di parlare da uomini di tutto il mondo – donne a cui è impedito di ottenere un’istruzione, donne che subiscono mutilazioni genitali, donne a cui non viene permesso di lavorare, donne vittime di abusi sessuali, donne di colore, trans e queer, lavoratrici del sesso. Non meritano la possibilità di essere ascoltate? Non ti piacerebbe essere la persona che dà loro questa possibilità? Sembra una sciocchezza, ma è davvero, davvero importante. Se vuoi essere un alleato si tratta soprattutto di essere pronto ad ascoltare le nostre storie – e ne abbiamo tante. Così tante. Potresti tirare fuori un bloc-notes e iniziare a prendere appunti. Potrebbe esserci una verifica oppure no, dopo. Ci hanno messo a tacere per così tanto tempo. Lasciaci parlare. Per favore.

3. Non aspettarti un’accoglienza automatica
Sei un uomo di parola, giusto? Eccoti, pronto a rimboccarti le maniche e a sporcarti le mani combattendo per una buona causa. Se solo ci fossero più uomini come te! Il fatto è – non prenderla sul personale – che abbiamo visto un sacco di tipi come te, che parlavano come te, erano entusiasti quanto te… che ci hanno prevaricato nelle discussioni, ci hanno zittite, avvilite e hanno usato il nostro movimento per trarne profitto. Ci vuoi far pesare di essere un po’ preoccupate? Ci vuoi far pesare di essere sospettose quando gli uomini cercano di entrare nei nostri spazi, non importa quanto apparentemente buone siano le loro intenzioni? Sotto le mentite spoglie del “femminismo”, gli uomini hanno molestato sessualmente e violentato donne di cui avevano guadagnato la fiducia, hanno usato le loro posizioni di influenza per intimidire e mettere a tacere le donne (Hugo Schwyzer, ve lo ricordate?) e farla franca addirittura in caso di omicidio. No, probabilmente tu non fai nessuna di queste cose – ma non possiamo esserne sicur@. Quindi preparati a ricevere un po’ di ostilità. Abbiamo dovuto imparare a nostre spese ad essere diffidenti con gli sconosciuti che portano doni. Se lavorerai duro e ti comporterai bene con noi, ti accetteremo col tempo.

4. Non aspettarti un trattamento speciale
Questa è una cosa che molti uomini faticano ad accettare, e a ragione – arrivano da una posizione di privilegio totale, nella quale le loro idee e opinioni hanno automaticamente un peso maggiore in virtù del loro genere. Potresti anche non rendertene conto, ma la tua mascolinità ti dà enormi vantaggi là fuori nel vasto mondo. Se vuoi essere un femminista, devi essere pronto a rinunciarci. È difficile. So quanto è difficile, perché ci sono stati momenti in cui ho dovuto farlo anche io. A volte ti sentirai offeso o maltrattato. Ti troverai a chiederti perché ti stai mettendo in discussione, se le persone non riconoscono i tuoi sforzi. È la tua posizione di privilegiato che parla, e devi imparare a mettere tutto questo da parte se vuoi fare le cose per bene. Benvenuto in un nuovo mondo, amico. Goditi l’uguaglianza!

5. Non parlarci addosso
Un sacco di uomini si offendono per questo, ma devi imparare a morderti la lingua. Questo è il nostro movimento. Siamo liete che tu sia qui al nostro fianco, ma devi accettare che non sarai mai al centro della scena. Quello spazio è riservato alle donne con reali esperienze vissute da condividere. Se ti viene voglia di parlare mentre una donna condivide la sua storia… non farlo. Non c’è modo più semplice di far arrabbiare una femminista che cercare di raccontare la sua storia per lei, o presumere di conoscerla meglio di lei. Ti assicuro che, non importa quale sia la situazione, non ne saresti in grado. Non hai vissuto la sua vita, non hai visto quello che ha visto o sentito quello che ha sentito, e non è possibile che tu, un uomo, possa capire al 100% cosa vuol dire essere una donna. Non sto dicendo che non ti è permesso di parlare. Sto dicendo che devi aspettare il tuo turno. Negli spazi femministi, l’esperienza vissuta di una donna ha la precedenza sulle tue idee di uomo. Siamo naturalmente esperte nel campo, sai? Lasciaci parlare.

6. Non restare in silenzio di fronte al sessismo
I tuoi amici scherzano sullo stupro. Ti fanno sentire a disagio, ma non dici nulla, perché non vuoi essere ”quel tipo d’uomo” – quello che non ha senso dell’umorismo, che fa il censore tutto il tempo. Sorridi goffamente quando il tuo migliore amico dice alle donne di andare in cucina, anche se pensi che non sia poi così divertente, e ti lasci trascinare in discussioni che disprezzano le donne, anche se non era tua intenzione. Ecco, questa cosa deve finire. Se vuoi fare qualcosa di concreto – e immagino tu lo voglia fare – questo è il modo migliore per iniziare. Combattere il sessismo quando lo vedi. Dì ai tuoi amici che quegli scherzi sullo stupro non sono divertenti. Alza gli occhi al cielo alle battute del tuo amico sulla cucina e digli che sta facendo lo stronzo. Quando vedi delle molestie per strada, fatti avanti e dì qualcosa. Sii l’uomo che non lascia che altri parlino male delle donne alle loro spalle. Sii l’uomo che non accetta il “se l’è cercata”. Non riesco a sottolineare abbastanza quanto tutto questo sia importante. Le tue intenzioni non significano nulla se non le sostieni coi fatti. Aiutaci, amico. Usa la tua voce per qualcosa di buono.

7. Non proporci mai, mai, la “spiegazione virile”
Stai parlando ad una sex worker, che ti sta raccontando la sua versione di come sia la sua attività professionale nel posto in cui vive. Ti sembra che vi siano alcuni dettagli sbagliati – forse hai capito una certa legge in maniera differente da lei, o fatichi a credere che la polizia sia così ostile. Le dici che non pensi che le cose stiano così, e procedi a spiegarle la realtà nel modo in cui la vedi tu. Questo è un esempio di “spiegazione virile”, e non dovrebbe sorprenderti se in tale occasione la reazione della sex worker sarà più che irritata. So che alcuni di voi lo fanno involontariamente, ma è necessario che vi accorgiate quando lo state per fare e che vi fermiate. La “spiegazione virile” fa deragliare le discussioni, banalizza le esperienze vissute delle donne ed è semplicemente maleducata. Pensi davvero di saperne di più sulla realtà del lavoro sessuale della donna che te ne stava parlando? Lei lo vive. Tu hai solo visto un documentario in TV. Non ha bisogno che le spieghi com’è la sua vita realmente.

8. Non dirci che dobbiamo calmarci
Penso di aver mantenuto un tono abbastanza pacato finora, ma il più delle volte, se sto parlando di giustizia sociale, sono abbastanza incazzata. Questa è la risposta naturale all’essere stata discriminata in quanto donna nel corso di tutta la mia vita. So che la rabbia può essere molto dura da affrontare e un po’ scoraggiante, ma ha le sue ragioni, ovvero che a) la realtà dell’esistenza in quanto donna nella nostra società è piuttosto dura, e b) essere messi di fronte a verità spiacevoli e brutali è molto scoraggiante per forza. Potresti essere tentato di dire qualcosa come ad esempio che indorare la pillola aiuta ad ingerirla. Il fatto è che non stiamo cercando di farti ingerire alcuna pillola. Stiamo cercando di cambiare il mondo, e non si cambia il mondo con la dolcezza (credimi, anche Gandhi era un vecchio stronzo manipolatore – nessun attivista è mai pacifico quanto può sembrare). Come mio padre amava dire: la persona ragionevole si adatta al mondo, la persona irragionevole adatta il mondo a sé; quindi, ogni progresso dipende dalla persona irragionevole. Siamo donne irragionevoli, e stiamo adattando il mondo a noi stesse, perché è così che si ottengono le cose. Chi ci dice di calmarci si comporta da ‘censore dei toni’, e se desideri una spiegazione del perché questa sia una cosa terribile da fare, clicca su questo link e preparati a sentirti come se venissi schiaffeggiato ripetutamente da diverse donne arrabbiate contemporaneamente. Oppure prendi per buona la mia parola e lasciaci essere arrabbiate quando abbiamo bisogno di esserlo. Fidati di me, è meglio così.

9. Amplifica, empatizza
Se su un blog trovi un bel post sui diritti delle sex worker in India, condividilo con i tuoi amici. Se qualcuno che conosci sta condividendo le proprie esperienze in quanto donna trans che affronta il sistema medico, ritwitta senza pietà e incoraggia le persone a seguirla. Se, per esempio, una giovane donna musulmana coraggiosa che conosci scrive sul suo blog un post meraviglioso che trovi davvero utile, diffondilo a tutte le persone che pensi possano trovarlo interessante. Gli alleati sono grandi amplificatori – contribuiscono a diffondere il nostro messaggio in modo che raggiunga il pubblico che potremmo non essere in grado di raggiungere in altro modo. È qualcosa di molto prezioso. E anche se potresti non essere in grado di capire quello che abbiamo passato e che cosa vuol dire essere quelle che siamo, quando condividiamo le nostre esperienze ascoltale empaticamente. Significa molto sapere che, anche se probabilmente non sai come ci sentiamo, ti interessa sapere che abbiamo sofferto e persino ti addolora. Sii lì per noi. Marcia con noi. Ascoltaci parlare. Vieni ai nostri seminari e dì a tutti i tuoi amici di venire. Partecipa alla creazione di spazi sicuri per noi perché ti interessano veramente la nostra sicurezza e il nostro benessere. Sii la grande persona che sono sicura sei in grado di essere. Questo è quello che fanno gli alleati.

10. Non mollare quando il gioco si fa duro
Non se: quando. Perché sarà duro, te lo posso assicurare. Sarai costretto a rivalutare quasi tutto quello che hai sempre creduto di sapere sulle donne e sul femminismo. Imparerai a conoscere esperienze che ti sono totalmente estranee. Probabilmente ti sarà chiesto di abbassare la cresta qualche volta quando farai qualche casino. (Non preoccuparti, siamo tutt@ incasinat@, ma dobbiamo ingoiare il boccone amaro. Per fortuna, Internet ha una memoria molto corta). E una volta che avrai cominciato non potrai smettere, perché anche se lo vorrai non potrai più chiudere gli occhi di fronte alla realtà, dal momento che li avrai aperti. Questa è una guerra che molte di noi non avrebbero voluto intraprendere. Non posso dirti quanto sia faticoso per me combattere per i miei diritti umani fondamentali giorno dopo giorno dopo giorno. È stremante e faticoso e, ad essere oneste, dannatamente demoralizzante a volte. Non sperimenterai sulla tua pelle tutto questo, ma potrai sperimentare abbastanza da farti chiedere perché ti ci sei buttato, in primo luogo. Ecco perché: perché l’uguaglianza conta. Questa roba non è una sorta di astratto dibattito accademico. Questa roba riguarda il modo in cui circa il 50% del mondo è costretto a vivere a causa di un sistema che ci considera cittadine di seconda classe. Non è sbagliato? Non è odioso? Non dovrebbe cambiare? E non vorresti essere una delle persone che realizzano il cambiamento?

Il femminismo è un compito di importanza vitale. E’ difficile, è incasinato e spesso ingrato, ma è anche molto, molto necessario. È necessario per tutti i motivi che ho detto e ridetto su questo blog decine di volte. È necessario, perché quando non ci dedichiamo a questo compito, le persone non solo soffrono – ma muoiono a causa della nostra inerzia. E non sono solo le donne a venirne colpite – ma ogni uomo criticato per aver scelto di stare a casa con i suoi figli, ogni uomo che ama i lavori artigianali più dello sport, ogni uomo che abbia mai pianto in pubblico, ogni uomo che non è arrogante e sicuro di sé abbastanza da spianare la propria strada nella vita come se fosse il padrone di tutto ciò che vede. Potresti essere uno di quegli uomini.
Se lo sei, tutto questo non riguarda solo noi, riguarda anche te. Riguarda un mondo in cui tutt@ possiamo essere liber@ di esprimere i nostri generi come vogliamo, senza affrontare il giudizio o la discriminazione per essere semplicemente quello che siamo. Voglio vivere per vedere quel mondo. Sono sicura che anche tu lo vuoi. Quindi benvenuto a bordo, amico. Sono contenta che tu abbia deciso di unirti a noi. Insieme salveremo il mondo.

Aaminah Khan opera a supporto dei rifugiati, è scrittrice e appena può attivista per i diritti umani. Vive nel Queensland settentrionale. 
Segui Aaminah Khan su Twitter: www.twitter.com/jaythenerdkid

Guida al porno indipendente Volume 1

Il movimento sex-positive e quello porno-femminista promuovono una forma responsabile e inclusiva di fare e commercializzare porno, e si definiscono per le seguenti caratteristiche:
♥ A differenza dell’industria del porno mainstream tengono in conto le donne come spettatrici, produttrici e registe. Per questo hanno un punto di vista diverso sul desiderio, il corpo e il piacere.
♥ E’ un’industria che si comporta responsabilmente con le proprie ‘star’, non sfrutta e non obbliga nessuna persona a realizzare atti sessuali, le/gli attor@ ele altre persone coinvolte hanno il controllo su ciò che desiderano fare, per questo motivo il sesso che si vede in questi film è reale.
♥ Il piacere è multiforme e promuove la libertà, includendo diversi tipi di corpo, etnie e preferenze sessuali.
Militancia erótica si è dichiarata contraria al porno mainstream:
“Odiamo il porno mainstream perché è sessista, misogino e falso. Odiamo guardare corpi deformati dalla chirurgia estetica che fingono orgasmi. Vogliamo vedere produzioni pornografiche con contenuti artistici forti”.
Per questa ragione abbiamo voluto pubblicare una guida relativa ad alcune delle maggiori produzioni di porno indipendente legate alle suddette caratteristiche:

1 Mili-especial♥ Trouble Films: è una società di produzione di film per adulti guidata da Courtney Trouble, incredibile pornografa e attrice che ha rivoluzionato la scena del porno indipendente. Vincitrice di premi quali il Feminist Porn Award, il Trans Awards e il BBW Fan Fest Awards tra gli altri, Courtney è la nostra eroina per aver diretto e appoggiato numerosi progetti che ci rendono felici, dando l’avvio a quella che lei definisce “la nuova epoca del porno”.
trab
♥ Lesbian Curves: una serie di film che hanno per protagoniste ragazze voluttuose che vivono romantiche storie lesbiche, le situazioni variano in un ampio gioco di fantasie, ovvero è possibile spaziare dalla relazione intima all’interno del tipico dormitorio con elementi molto femminili ad un complesso gioco BDSM in uno scenario fantastico. Le ragazze rappresentate sono molto diverse tra loro, alcune molto femminili e altre molto maschili. Anche Lesbian Curves è un progetto di Courtney Trouble.

2♥ Indie Porn Revolution: è probabilmente la casa di produzione pornografica più variegata e famosa di porno Queer, fondata da Courtney Trouble nel 2002 come NoFauxxx.Com, un progetto personale che ha finito col coinvolgere molte persone in un ulteriore sforzo per la rivoluzione sessuale. Indie Porn Revolution è un progetto che definisce con maggiore chiarezza gli ideali del movimento Sex-positive nell’industria del porno. Di nuovo grazie alla ragazza “problematica” (n.d.T.:gioco di parole con il nome Courtney Trouble).

sd♥ QUEERPORN.TV: nel 2011 ha vinto il premio attribuito dai Feminist Porn Awards come miglior sito web. Questo progetto riunisce molte delle stelle del porno undergound, è un sito davvero adorabile perché condivide pubblicamente produzioni di ottima qualità, si può anche diventare membri e trovare una vasta collezione di documentari, interviste, film e fotografie.

queer
♥ A Four Chambered Heart: è uno studio cinematografico dedicato alla produzione di cortometraggi pornografici non convenzionali. I suoi video integrano elementi naturali e fantasie sessuali, con edizioni digitali, effetti sonori e un accurato lavoro di ripresa e scenografia. Questo collettivo inglese esplora le nuove forme della sessualità, dell’arte e della pornografia, attraverso una proposta differente che combatte la banalità del porno commerciale.

http://vimeo.com/104864285

♥ Comstock Films: questi film integrano interviste documentali con sesso reale e intimo. Non si tratta di coppie di attori, ma di persone che realmente si amano e celebrano la propria sessualità. E’ bello, elegante, eccitante, erotico e sexy, le coppie sono di tutti i tipi: eterosessuali e omosessuali, di età e culture diverse. Amiamo questo progetto del regista Tony Comstock, perché è una potente fonte di ispirazione, dato che non separa l’erotismo dalla pornografia.

porno femminista

♥ Pink & White Productions: diretta da Shine Louise Houston, un’altra delle sorprendenti donne registe e produttrici di porno che ci piacciono. I suoi film sono sexy e ben prodotti, cioé, i suoi film integrano la bellezza del cinema, fatta di effetti sonori e di ripresa, con il sesso reale ed esplicito. Oltre a ciò questa produttrice si preoccupa di insegnare “come fare un buon porno” – con tutta la parte tecnica e i suoi segreti – come commercializzarlo e distribuirlo responsabilmente. Legati a questa produttrice potrete trovare prodotti come: Crash Pad Series, Heavenly Spire y Pink Label.porno femminista 1

♥ Bleu Productions di Maria Beatty: continuando sulla scia del buon cinema porno incontriamo questa regista newyorchese, i suoi film sono eleganti, con scene surrealiste, oniriche e affascinanti, alcune in bianco e nero e con musiche di grandi artisti del jazz come John Zorn. Maria Beatty ha esplorato la sessualità femminile nel cinema come nessun’altra donna fino a ora. Il suo film icona è The Black Glove filmato nel 1997, un bel film che pare una fotografia di Helmut Newton che prende vita propria per animare la sua fantasia, le sue protagoniste sono donne incredibilmente belle e fatali.

porno femminista 2

♥ Dirty Diaries: è una collezione di 12 corti di porno femminista prodotti nel 2009 da Mia Engberg. E’ uno dei prodotti più rilevanti del movimento Sex-Positive e Porno femminista, poiché si tratta sia di un progetto artistico che politico. Dirty Diaries aspirava a stabilire delle regole per la creazione di pornografia che rispondesse a le necessità delle donne. Dobbiamo confessare che questo progetto è stato davvero la miccia per la creazione di Militancia Erótica. Potete vedere qui uno dei 12 corti (completo) intitolato Skin.

http://muvi.es/w1512

E per finire, come un orgasmo molto forte, presentiamo con un rombo di tamburi, ta!ta!taaaa! la bellissima, incredibile e spettacolare ♥Annie Sprinkle♥

ann porno femminismo militanza erotica♥ Annie Sprinkle: questa artista newyorchese è una sacerdotessa dell’erotismo, una conoscitrice dei sacri segreti del sesso. Lei è la grande promotrice del movimento Sex-Positive dagli anni ’80. Attraverso bellissime performance ci ha illustrato il potere che hanno i nostri corpi e la magia del sesso. E’ un’attivista per la libertà di espressione, per i/le lavorator@ sessuali e a favore di un sesso sano e forte. Annie Sprinkle ha anche diretto ed è stata protagonista di film pornografici legati ai movimenti Post-Porno, Sex-Positive, Porno Femministi, Eco-Porno e altre correnti: lei è la regina della rivoluzione sessuale.

Con amore, Militancia Erótica

Testo originale Guía de Porno Independiente Vol. 1, di Militancia Erótica. Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska.

 

Attenzione a non confondere gli ipocriti con gli ignoranti

501px-Wired_logo.svg

Immancabile, come sempre quando un efferato evento di cronaca nera vede coinvolta in qualche modo la rete o i social, spunta il genio della comunicazione virtuale, con il suo curriculum sbalorditivo, a commentare sulla rivista più ganza del momento che bisogna stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio. Vi prego di leggere:

http://www.wired.it/internet/social-network/2014/12/02/caso-pagnani-attenzione-non-confondere-carnefice-gli-imbecilli/

Ahimé al nostro erudito commentatore manca evidentemente la minima competenza in questioni di genere, e si vede. Perché non ci vuole molto a capire che la prima cosa da fare sarebbe, proprio in virtù della competenza in comunicazione, evitare la polarizzazione degli argomenti, puntando al solito scontro bianco/nero, colpevole/innocente, tu/io, di qua/di là, carnefice/imbecille, per cui nel caso di Pagnani che scrive su Facebook “Sei morta, troia”, alludendo alla moglie che ha da poco ammazzato, la questione si ridurrebbe a:

L’hai ammazzata tu? No,

quindi puoi mettere il tuo “mipiace” a quello status, condividerlo allegramente con una bella battuta, o anche esprimere lì sotto il tuo consenso sessista: sarai solo un imbecille, non sarai colpevole di niente.

Come se, tra l’estrema innocenza dell’imbecille e la certa colpevolezza del femminicida in questione, non ci fossero sfumature, possibilità, altre cose da valutare. Dice infatti il nostro pluridecorato dall’enorme curriculum, a proposito della sopracitata frase:

Si può davvero pensare che qualcuno dei trecento, leggendola, magari distrattamente sul proprio smartphone, abbia capito che il carnefice esultava per la mattanza della moglie e che chiedeva approvazione e condivisione del suo orrendo trionfo?
Si può davvero credere che, cliccando su “mi piace” quei trecento, abbiano inteso urlare al loro “amico” qualcosa tipo: “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”?
Personalmente, lo escluderei.

E non me ne stupisco: questo è un commento tipico di chi non ha niente a che spartire con questioni di genere, che invece forse in un femminicidio un pochino c’entrano. Perché chi se ne occupa anche marginalmente, ha in mente questo facile disegnino esplicativo, riguardo i tipi di violenza sulle donne, col quale inquadrare la relazione tra quei commenti e l’assassinio della donna (qui l’originale in spagnolo):

triangolon - Copia

Oh, certo, non è che questo basta a condannare giuridicamente nessuno. Però indica chiaramente che chi commenta in quel modo, o usa quella frase per un proprio ilare commento, fa parte di una stessa cultura, di uno stesso modo di vedere i rapporti tra generi, la violenza sulle donne, e tante altre cosette, in comune con chi l’ha scritta. Certamente quei gesti e quelle parole su un social network non sono né “prove” né “indizi”, a farli e a scriverli non si ha nessuna colpa sanzionabile dalla legge – ma responsabilità di fronte a tutti sì, eccome. E non serve certo a nulla sapere se davvero lei era morta ammazzata o no, quando si è commentato, condiviso o cliccato “mi piace”: in quella piccola frase ci sono abbastanza sessismo e violenza per farmi credere – a me dal curriculum striminzito – che nessuno dovrebbe comunque condividerla, apprezzarla o sottoscriverla. E che chi lo fa non andrebbe premiato certo con l’innocua etichetta di imbecille, deresponsabilizzante come poche.

Perché tutti quelli probabilmente, attraverso un social network, non hanno detto a Pagnani “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”, ma di certo gli hanno detto “ehi Pagnani, anche io sono un po’ come te”. Che indubbiamente non indica alcun reato – ma fa schifo lo stesso, pure sotto la simpatica e innocua etichetta di imbecille.

Ancora complimenti a tutti – anche agli specificatori di colpe pluridecorati e dal curriculum enorme ma, a mio parere, piuttosto lacunoso.

Matt Taylor, e llevate ‘a cammesella

acammesella1Serbilla e frantic hanno tradotto questo articolo di Phil Plait.

La scorsa settimana, l’Agenzia Spaziale Europea ha fatto atterrare una sonda spaziale su una cometa.  E’ stato un un evento storico di grande importanza. Ma un altro fatto, collegato a questo evento,  ha causato un grande trambusto. Matt Taylor, scienziato impegnato nel progetto della missione Rosetta, si è presentato in pubblico per parlare del successo dell‘atterraggio; tuttavia, ha compiuto una sfortunata scelta di abbigliamento. Indossava una camicia da bowling coperta di pinup poco vestite.
Questo ha sconvolto un sacco di gente. Un sacco. Il fatto è stato aggravato dalla descrizione, estremamente mal ponderata, della difficoltà della missione Rosetta: “E’ sexy, ma non ho mai detto che fosse facile.”
Accidenti. Per essere chiari, io non credo che Taylor sia un  furioso misogino o simili; penso fosse proprio all’oscuro di come le sue parole sarebbero suonate e come la camicia poteva essere interpretata. Viviamo tutti in un’atmosfera intrisa di sessismo, e quasi non ci facciamo caso; un pesce non nota l’acqua in cui nuota. Ho vissuto in questo ambiente per tutta la vita, e ci sono stato anche in età adulta, prima prendere coscienza della sua esistenza e capire come contrastarlo. E sto ancora imparando.

È importante sottolineare che, il giorno dopo, chiaramente sconvolto di aver causato tante storie, Taylor si è scusato pubblicamente con sincerità e gentilezza per le sue azioni. La maggior parte delle persone che erano rimaste sconvolte ha accettato le sue scuse e si è tranquillizzata.

Ma non finisce qui. Come è facile immaginare, quando le persone si sono lamentate per il sessismo casuale della camicia e della descrizione della missione,  il contraccolpo misognino ha travolto i social media come un torrente schiumoso, un altro di una lunga serie di manifestazioni della legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo.”)
Potrei dire molto a questo punto, ma Dr24Hours ha scritto un’eccellente sintesi che si allinea abbastanza bene con il mio pensiero. Vi prego di andare a leggerla in questo momento.
Ma ho anche qualcosa da aggiungere.
Se pensate che solo le donne si lamentino di questo, vi sbagliate. Certamente molte lo hanno fatto, ed è giusto così. Ma il fatto è che anche io [che sono un uomo] ne sto scrivendo. So che molti uomini miei amici, scienziati e divulgatori scientifici,  ne hanno parlato. E’ importante che gli uomini parlino, ed è importante anche che ascoltino.
Se pensate che questo sia solo il lamento degli invidiosi che non possono reggere il confronto con qualcuno che ha appena fatto atterrare una sonda su una cometa, vi sbagliate. Parlate con la mia amica, la cosmologa Katie Mack. O la scienziata planetaria Sarah Horst. Oppure la geologa Mika McKinnon. Oppure l’astrofisico Catherine Q. * O la geologa planetaria Emily Lakdawalla. O la radio astronoma Nicole Gugliucci. O la straordinaria professora e comunicatora scientifica Pamela Gay. Oppure Carolyn Porco, che ha lavorato sulla missione Voyager ed è la leader del team d’imaging di Cassini, la sonda spaziale che orbiterà intorno a Saturno per oltre un decennio.
Se pensate che siano solo un mucchio di bacchettone, vi sbagliate. Non si tratta di pruderie. La questione è l’atmosfera di denigrazione.
Se pensate sia giusto usare una parola connotata dal punto di vista del genere per insultare e umiliare una donna perché lei ha usato un insulto non di genere verso un uomo, allora siete veramente in errore (e questo è un tweet rappresentativo di molti di quelli che ho visto).
Se pensate che questo non sia un grosso problema, beh, di per sé, non è un enorme problema. Ma non si tratta di una cosa “di per sé”, no? Questo evento non è accaduto nel vuoto. Si verifica quando c’è ancora una grossa falla nel percorso che porta le donne a studiare materie scientifiche ad abbracciare la carriera scientifica. Si verifica quando, ancora, un nome femminile su una domanda per fare ricerca presso un’università rende meno probabile che la accettino†, e molto più probabile che la ricerca venga citata meno. Si verifica quando non siamo ancora neanche vicini alla parità nell’assunzione e nella continuità professionale delle donne in ambito scientifico.
Quindi sì, è solo una camicia.
Ed è solo una pubblicità.
E ‘solo un modo di dire.
E ‘solo uno show televisivo.
E’ solo in Internet.
Sì, ma tu sei remunerata quasi quanto un uomo.
E’ solo un fischio.
E’ solo un complimento!
E’ solo che i ragazzi sono ragazzi.
E ‘solo che lei è una puttanella.
E’ solo che il tuo vestito è così corto.
E’ solo che “vogliamo sapere quello che indossava al momento, signora.”
E’ solo che è solo che è solo.
E’ solo una morte dovuta a mille tagli. Nessuno dei tagli uccide. Alla fine, lo fanno tutti.

* Aggiornamento, 18 Novembre 2014 alle 03:00 UTC: Non posso credere di aver dimenticato la mia amica Catherine Q nella lista degli scienziati che hanno parlato di tutto questo. Ora è sulla lista.

† Correzione (19 Novembre 2014): Originariamente ho scritto che avere un nome femminile su una ricerca significa avere meno probabilità di essere pubblicati.

Il poliamore è il nuovo nero

Jeffrey Alan Love polyamoryTraduzione di questo articolo di feminoska. Revisione di lafra e Serbilla.

Ora che il dibattito sulla monogamia è entrato nelle assemblee, non esiste spazio antagonista, libertario, postmoderno o femminista che non sbandieri la propria poliamorosità. La rottura – formale – dalla monogamia, incarnata in questo concetto sfuggente che è il poliamore, promette di liberarci da tutti i mali, come per magia: ci piace credere che dovunque passi il poliamore non crescano più le malerbe. Invece crescono, e quanto! Non bastano nomi nuovi o gesti grandiosi per far cadere un sistema: partiamo da ciò che siamo per sognare nuovi mondi, ma i nostri sogni si nutrono di sedimenti che ci trasciniamo dietro. Per la materia inevitabile che ci costituisce.

La costruzione di amori non-monogami è fatta di concetti, emozioni e sguardi ereditati dalla monogamia. Le riflessioni di Monique Wittig sull’eterosessualità come sistema di pensiero sono parimenti utili per la costruzione emozionale dell’amore:
“Questi discorsi dell’eterosessualità ci opprimono, nel senso che ci impediscono di parlare a meno che non si parli nei suoi termini. Tutto ciò che la mette in questione viene immediatamente squalificato come elementare. Il nostro rifiuto delle interpretazioni totalizzanti della psicoanalisi fa dire ai suoi teorici che trascuriamo la dimensione simbolica. Questi discorsi ci negano la possibilità di creare le nostre proprie categorie. Ma la sua azione più feroce è la tirannia inflessibile esercitata sul nostro essere mentale e fisico”.

Il sistema monogamico è una tirannia. E non è un’opzione: è un obbligo, ed è la violenza simbolica inscritta in questo obbligo che ci impedisce di scegliere percorsi diversi, anche quando crediamo di sceglierli. A volte vinciamo la lotteria e gli obblighi ci risultano opportuni, comodi, ma questo non li rende opzionali. Come spiega Pierre Bourdieu: “Di tutte le forme di persuasione nascoste, la più spietata è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose.” La monogamia è un sistema di oppressione così ben codificato che ci ritroviamo lacerati di dolore ogni volta che cerchiamo di opporvi resistenza.

Abbiamo vinto la morale, la vergogna e le leggi che ci vogliono docili e cast@. Ma il mal di pancia di fronte alla rottura dalla monogamia non si cura con manifestazioni o striscioni. Lo straordinario apparato di propaganda e infiltrazione del sistema ci insegna fin dalla nascita che l’amore è a due, che la vita senza la coppia è un fallimento, e la vita a più di due è sospetta. Che se sei single, o se hai più di un amante, è perché hai delle mancanze. Ci insegna a sentirci minacciat@ da ciò che ci circonda, a passare da un amore all’altro per la pura incapacità di amare più di una persona, o ad amarne più di una per semplice incapacità di impegnarsi. La monogamia ci vuole limitat@, cup@, spaventat@, egoist@, divisi in coppie, in duetti. E tutti i disastri amorosi che accumuliamo nella maggior parte della nostra vita, tutte le volte che abbiamo sofferto per amore, tutti gli amori che son diventati battaglie, tutte le cicatrici che ci attraversano sono la prova che il sistema funziona bene e impregna di miseria il nostro potenziale più grande: la capacità che abbiamo, dopo tutto, di amare.

La lunga notte dei secoli
La monogamia non esige da tutt@ allo stesso modo. Le più grandi limitazioni e l’esclusività sono toccate storicamente all’identità femminile. Silvia Federici in Calibano e la strega, parla del controllo del corpo e della sessualità come di un prerequisito per l’attuazione dello strumento del capitalismo durante il Medioevo europeo. Un controllo che viene esercitato su tutti i corpi, ma che ha riservato alle donne l’orrore della caccia alle streghe.

“I processi alle streghe forniscono un elenco che fa riflettere sulle forme di sessualità vietate nella misura in cui erano ‘non produttive’: l’omosessualità, il sesso tra giovani e anziani, il sesso tra persone di classi diverse, il rapporto anale, il rapporto da dietro (si credeva che risultasse in rapporti sterili), la nudità e la danza. Venne anche vietata la sessualità pubblica e collettiva che ha prevalso durante il Medio Evo, e nelle feste di primavera di origine pagana che, ancora nel XVI secolo, si celebravano in tutta Europa. (…) La caccia alle streghe – che condanna la sessualità femminile come fonte di tutti i mali – ha rappresentato anche il principale strumento per effettuare una ristrutturazione globale della vita sessuale che, adeguata alla nuova disciplina del lavoro capitalista, criminalizza qualsiasi attività sessuale che minaccia la procreazione, il trasferimento di proprietà all’interno della famiglia o sottragga tempo ed energia al lavoro.”

Ancora più anticamente, in Europa, la monogamia implicava un patto di fedeltà sessuale delle donne agli uomini, ma non necessariamente il contrario. Michel Foucault ne scrive nella sua ‘Storia della sessualità’, a partire dai tempi della Grecia antica: “L’uomo, in quanto uomo sposato, ha l’unico divieto di contrarre un altro matrimonio; nessuna relazione sessuale gli è vietata per il solo fatto di essersi sposato; può avere avventure, uscire con prostitute, essere l’amante di un ragazzo, senza contare gli schiavi, maschi o femmine, che ha in casa. Il matrimonio di un uomo non lo lega sessualmente. All’interno del sistema giuridico, ciò comporta che l’adulterio non è considerato una violazione del vincolo del matrimonio da parte di uno qualsiasi dei coniugi; Non è considerato una violazione se non nel caso di una donna sposata che fa sesso con un uomo che non è suo marito; è lo stato civile della donna, mai dell’uomo, che consente di definire una relazione come l’adulterio. E, secondo l’ordine morale, si comprende come non vi sia stata per i greci questa categoria della “fedeltà reciproca”, che sarebbe poi entrata più tardi nella vita coniugale come una sorta di “diritto sessuale” con valore morale, effetto giuridico e componente religiosa.”

Il principio di un doppio monopolio sessuale, che rende la coppia di sposi compagni esclusivi, non è richiesta in una relazione matrimoniale. Ma mentre lei appartiene a tutti gli effetti al marito, il marito appartiene solo a sé stesso. La doppia fedeltà sessuale, in quanto dovere, impegno e sentimento ripartito in parti uguali, non costituisce la garanzia necessaria né l’espressione più alta della vita coniugale.
Il modello diffuso di rapporto eterosessuale poliamoroso in cui l’uomo è molto più prolifico e promiscuo nei rapporti rispetto alla propria compagna è erede di questa disuguaglianza sistemica. Così come il pubblico disprezzo che ricevono gli uomini dissidenti di un sistema che li vuole tuttora “macho”. Un paio di anni fa, alla radio, un compagno affermò che l’uomo che accetta il poliamore è quello che definiremmo un povero succube. E proferì queste parole senza battere ciglio.

Il privilegio etero, il privilegio maschile, il privilegio cisgender e tutti gli altri contribuiscono al grande terno al lotto poliamoroso. Non è una questione di differenze personali, ma di categorie inscritte nelle persone. La libertà simmetrica di decidere sulle nostre vite è una rozza illusione utilitaristica, in un mondo in cui ogni dissenso paga il suo prezzo, e nel quale l’amore è attraversato dal genere e dalle sue manifestazioni identitarie: classe, razza, capacità, identità sessuale e tutte le altre categorie di oppressione che possiamo aggiungere. Veniamo, quindi, alla lunga notte dei secoli. La domanda è: Dove stiamo andando? Dove desideriamo andare?

La riproduzione delle dinamiche di oppressione
Possono gli strumenti del padrone smantellare la casa del padrone? Può essere smantellata un’imposizione imponendone una nuova? Cosa intendiamo quando parliamo di liberare i nostri corpi, i nostri piaceri, la nostra sessualità e i nostri amori? La libertà ha una forma specifica e definita o è un concetto che si riferisce alla molteplicità di opzioni equivalenti tra cui scegliere senza costrizione? Se la monogamia è un obbligo, la sovversione è contro la naturalezza dell’obbligo stesso, contro l’inevitabilità dell’ordine delle cose. Il lavoro fondamentale che dobbiamo compiere è contro l’imposizione di un sistema che definisce i nostri desideri, i nostri spazi corporali, le nostre possibilità e proiezioni emotive, e che ci costringe a rimanere ancorat@ ad una singola opzione. Se la rottura della monogamia ha qualcosa di sovversivo, è l’aprirsi della possibilità di alterare il sistema imposto, di ripensare come e perché amiamo come facciamo. Costruire nuove possibilità tra cui scegliere.

Avere più relazioni sessual-affettive contemporaneamente è solo un aspetto formale e visibile di una vasta trama che, se non smantellata, riproduce sempre lo stesso sistema, ma con un altro nome. Nel suo libro “Transessualità. Altri sguardi possibili”, Miquel Missé racconta un aneddoto personale. Parte da una riflessione sull’autenticità che esprime il personaggio di Agrado in ‘Tutto su mia madre’ di Pedro Almodovar. Scrive Missé: “Diversi anni fa, una delle mie zie, che non aveva capito molto di questa storia della transessualità, mi regalò una cartolina su cui era scritto: “La saggezza della vita è quella di accettare i limiti”. Ero veramente arrabbiato, sentivo che era un modo per dirmi che il mio problema è che non mi accetto come donna, che accettare i limiti implicava il vivere come non volevo. Ma un paio di mesi fa ho trovato di nuovo la cartolina, persa in un cassetto, e improvvisamente ho pensato ad Agrado e all’autenticità che proclama nel film, e ho compreso maggiormente la frase che mi aveva fatto male al momento. Ora, a mia zia, direi che la saggezza della vita è ugualmente quella di accettare che i limiti sono costruzioni sociali, ma che, probabilmente, aveva in gran parte ragione: ciò che ci rende autentic@ non ha nulla a che fare con l’evitarli, ma con l’essere consapevole di dove sono e a che servono.”

E’ ingenuo pensare che tutta questa vasta trama del sistema monogamico si possa risolvere avendo più di una relazione. Ed è violento costringere le/gli altr@ ad accettarlo perché si ‘liberino’ di tutta questa sovrastruttura, con argomenti che si rifanno ai massimi sistemi senza comprendere i dolori e le difficoltà. Predicare la liberazione altrui ignorandone volutamente il prezzo è un altro dei discorsi infiniti che usano la libertà a fini neoliberali. Ogni volta che qualcuno si vanta della propria modernità e libertà di avere più partner non è cosa da poco, perché muore un futuro possibile: nessun@ può uscire da un sistema oppressivo con un click, firmando una petizione o leggendo un libro. L’unica via di fuga è quella di boicottare le dinamiche oppressive. Dalla rottura formale dalla monogamia alla costruzione di relazioni non monogame c’è un abisso. Ed è in questo divario il potenziale del movimento: nei dubbi, nei limiti, nelle paure, nei piccoli passi avanti e salti all’indietro. La sua carica eversiva, se ne ha, verrà dai gesti quotidiani e non dalle grandi gesta eroiche che devono il proprio immaginario a tempi gerarchici e individualisti che vogliamo lasciarci alle spalle, che appartengono a un mondo in cui il dolore, la vulnerabilità, la cura, il legame, l’empatia, non esistono neppure. Ci hanno imposto per secoli tali modelli, con risultati deplorevoli. Sapere dove sono i nostri limiti, i nostri dolori, le nostre speranze, i nostri sogni, e sapere a cosa sono funzionali fa parte del mondo nuovo. Unitevi a noi sul nostro cammino, nei nostri piccoli passi e balzi in avanti, amateci a partire dai piccoli gesti e costruiamo duetti, trii, o reti verso altri luoghi che siano liberatori; spazi amorosi in cui possiamo permetterci di cadere, aver paura, soffrire e comprendere, trasformarci e costruirci: è forse la nostra scommessa più radicale.

Non credo più in una solidarietà femminista transnazionale in sé

ochy-

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di lafra.

Per molte persone il nome di Ochy Curiel suona esotico, per altre è un simbolo del cosiddetto ‘altro femminismo’. Non per niente è donna, nera, lesbica, femminista, intellettuale, attivista, artista, antirazzista, antisessista, radicale e critica. Ochy incarna tutto ciò che è antiegemonico. Con un piede nel mondo accademico e uno sulla strada, sono oltre 30 anni che lotta, come lei ama ricordare. Ritiene che far riflettere le persone sia essenziale, per questo ci invita a dare una svolta alle nostre pratiche politiche e rivedere i nostri privilegi a partire dal femminismo decoloniale.

Qual è l’origine del femminismo decoloniale? È una critica del femminismo egemonico? Come direbbe Sueli Carneiro, vuol dire femminilizzare la lotta antirazzista e rendere negra la lotta femminista?
Prima di tutto bisogna capire come è nata la geopolitica e il colonialismo come fatto concreto – che ha voluto dire porre l’Europa al centro della modernità e a partire da ciò l’esistenza di altri paesi, i barbari, quelli che devono essere civilizzati, studiati, modificati e sviluppati. Le donne nere o mulatte sono una costruzione razziale a partire dal ‘bianco’ considerato come paradigma. Il femminismo decoloniale critica non solo il femminismo egemonico, ma anche i movimenti e le teorie sociali che credono che agendo esclusivamente sulla classe si possa trasformare il mondo, e quei maschi di sinistra che ancora credono che la questione della donna debba essere affrontata in un secondo tempo, ma includono le questioni di genere per apparire politicamente corretti. 

Non si tratta di includere o meno le donne: questa è una strategia molto neoliberista, la diversità include ma non modifica o problematizza. Per questo non si tratta solo di femminilizzare la lotta antirazzista e rendere negra la lotta femminista, non significa accorgersi dell’esistenza di donne nere e povere, ma qualcosa di più complesso, ovvero capire perché ci sono donne nere e povere. E questa è la nostra più grande differenza rispetto alla tesi dell’intersezionalità, che afferma che la somma delle identità possa spiegare la subordinazione delle donne. Non è importante includere le altre oppressioni, ma vedere e capire l’oppressione, come si dispiega e analizzare come ciascuna di noi e tutte noi e negli altri movimenti sociali stiamo o meno riproducendo questa logica. E questo significa comprendere i nostri stessi privilegi. 

Questo è ciò che chiami “problematizzare la questione femminista”? Sarebbe a dire, realizzare una genealogia del proprio pensiero?
Certamente. Problematizzare significa distaccarsi, ridefinire tutto. Comincia da una rilettura di tutto quello che ci hanno raccontato in un determinato modo. E si comincia da sé stesse, con l’essere consapevoli delle proprie intersezionalità, sapere di trovarsi all’incrocio di molte oppressioni, ma senza guardarsi troppo l’ombelico… abbiamo bisogno di guardare il contesto generale perché questo è un problema sistemico che ovviamente attraversa le esperienze personali. E questo è il vantaggio del femminismo in cui credo, comprendere come ciò che chiamiamo ‘il personale è politico’ entri in relazione con tutto il resto. Ha a che fare con quello che hanno fatto molte femministe in tutto il mondo quando hanno smesso di credere nella storia di sesso maschile che era stata raccontata loro. Significa affermare che le schiave nere violentate dal proprio padrone o costrette a lavorare, organizzarono una serie di azioni di resistenza, quello che Celsa Ares definì ‘cimarronaje domestico’ (azioni di resistenza, nascoste o palesi, intraprese dalle schiave che lavoravano nella casa padronale). Se non recuperiamo questi aspetti, se non ci distacchiamo dalla storia lineare per osservare altre storie, continuerà ad esistere solamente la storia occidentale bianca, e se oggi definiamo il femminismo come le molte lotte delle donne in tutto il mondo, allora non è iniziato tutto nel 1789 con la rivoluzione francese e Olympia de Gouges. I privilegi implicano una reinterpretazione, una presa di posizione rispetto al modo in cui la storia è raccontata. Quali sono i racconti? Da dove partiamo per interpretarli?
È sistemico e contestualizzato. Come risolviamo la tensione che esiste tra locale e globale? Come articoliamo una strategia che tenga conto di entrambi?
È sistemico, però il capitalismo e la globalizzazione non ci danneggiano tutte allo stesso modo, ed è lì che sta il problema. Io non credo più nella solidarietà femminista e nemmeno credo in una solidarietà femminista transnazionale in sé. I cambiamenti non avvengono perché siamo tutte splendide donne meravigliose, ma perché si lavora sulle relazioni di potere che ci sono. Perché egemonicamente “le altre”, quelle del terzo mondo, le indie, le nere, le migranti, sono materia prima delle ricerche o delle pubblicazioni delle persone privilegiate? Questo sembra impossibile da mettere in discussione, lo diamo per scontato e, inoltre, ci sentiamo politicamente corrette, quando è invece uno sfruttamento dell’esperienza culturale e sociale delle donne. Ovvio che dobbiamo stringere alleanze come femministe, anche se non con tutte le femministe, perché alcune sono complici del patriarcato e del razzismo.
Una radicale messa in discussione, l’emergere di nuovi femminismi… non stiamo frammentando il movimento femminista? 
Dipende. Penso che i punti di rottura siano importanti, sono quelli che danno nuovi stimoli. Siamo uman*, ma siamo situat*. Questo modo di pensare, che dobbiamo per forza stare unite per rafforzare il movimento… non è così. Ci siamo rese conto che questa presunta solidarietà articolata è basata sullo sfruttamento e la subordinazione di altre, e alcune di noi non sono più disposte a sopportarlo. Per la propria salute mentale e perché non abbiamo tanto tempo nella vita, è necessario agire con coloro con cui abbiamo il piacere di agire. Io credo maggiormente agli affetti e alla fiducia costruita passo passo.
Parlando di affetti, fiducia e fratture… Questo mese di ottobre si svolgerà l’incontro lesbico femminista di Abya Yala in Colombia e ho sentito che le e i trans non vi troveranno spazio.
E’ una questione dibattuta. Non esiste una posizione condivisa. Infatti ha rappresentato un punto di disaccordo molto importante. Credo nel separatismo come questione di salute, non in negativo, ma piuttosto definendolo come autonomia. Non significa tu di là e io di qua, penso che debbano esistere spazi esclusivi per ner*, indigen* e – perché no? – anche per bianch*.
Non è il loro posto? Vuoi dire questo?  
Quando diciamo che donna non si nasce, si diventa – come diceva Simone de Beauvoir – significa affermare che le identità si costruiscono. E il risultato è che ora, con tutta la problematizzazione che abbiamo messo in campo, stanno venendo fuori una serie di nuove identità, come ad esempio quella transfemminista. Come faccio oggi a dire ad una compagna transfemminista che non può partecipare ad un incontro lesbofemminista? Si presume che le femministe lesbiche dicano: lesbica non è quella che dorme con le donne, lesbica è la messa in discussione del regime politico di eterosessualità. La domanda è: Quali sono i corpi che costruiscono il soggetto lesbico?  Penso che il movimento LGBT sia quasi l’opposto di quello femminista lesbico. Originariamente, Gayle Rubin disse che tutti i soggetti che si riconoscevano nella sessualità dissidente dovevano strutturarsi in qualche modo, però questa non rappresenta ununione, è una specie di comunità fittizia… possono esserci gay, trans, lesbiche, ecc. con una sessualità e identità di genere dissidenti, che non necessariamente mettono in discussione il regime eterosessuale. Per noi metterlo in discussione significa abolire il matrimonio e non rivendicare il matrimonio omosessuale, significa decostruire la famiglia come fondamento della società perché sappiamo come influisce sulla femminilità… Esistono alleanze tra le femministe e la comunità LGBT, ma sono cose diverse. Le uniche invitate alle riunioni in Colombia sono le femministe lesbiche, che cosa significa? Ci sono molte interpretazioni, perciò la questione verte sul modo in cui intendiamo l’essere una lesbica femminista e penso che ci vorranno anni per comprenderlo. Se ci si situa come identità politica lesbofemminista allora potranno essere presenti anche le trans. A me la figa non interessa, ho a cuore le persone che vogliono sfidare, rifinire e rimuovere il regime eterosessuale.
E a proposito di nuove identità… che ne pensi di quella queer?  
Il Queer è qualcosa di interessante dal punto di vista della messa in discussione delle identità essenziali, però credo anche che esistano concetti che vanno di moda … In America Latina, le poche persone queer che conosco partono da una posizione del tutto individualista; ‘Sono io, la mia identità, non voglio etichette’, dicono, oggi desidero essere donna e domani mi metto una cravatta e sarò un uomo, e andrò avanti così, plasmando la mia identità. Questo è un ragionamento decisamente bianco. Quant@ queer ner@ conosciamo? A livello teorico è qualcosa di interessante, perché mette in discussione l’identità, come ho detto, rompe il binomio … ma in pratica si scopre che non tutt@ al mondo possono farlo. Una persona nera non può giocare con la propria identità con tanta semplicità, poiché è attraversata dal proprio colore, dalla interpretazione sociale che viene fatta del suo colore, un colore politico. Solo le persone privilegiate possono essere queer. In breve, è molto teorico, molto individualista e molto ingenuo in un certo senso, ma lo si deve porre in relazione con la classe e la razza.

Uno dei fattori che più colpiscono le donne sono gli effetti della globalizzazione e del capitalismo. Pensi che il femminismo debba approfondire di più questo aspetto?  Le questioni relative alla globalizzazione non sono una categoria a parte: alcune ci stanno lavorando, ma non è un aspetto forte del femminismo, nè del nord nè del sud. Il femminismo è molto centrato sull’identità della donna. Il problema del partire dall’identità è di pensare che l’oppressione di genere, in questo caso, sia un problema da affrontare su base individuale e in termini di maschio o femmina, e credere che non sia legato al sistemico, alla classe o alla razza. Se non cerchiamo di comprendere in maniera più profonda come mai siamo fottute, allora esistiamo in un microcosmo e solo lì si verificano le oppressioni. E non è un caso che questa proposta di femminismo decoloniale provenga dal terzo mondo, penso che per poter mettere in discussione i privilegi sia necessario comprendere e avvicinarsi ad altre realtà: ma non è necessario andare in America Latina, né occupare gli spazi delle femministe europee,  quello che è interessante è domandarsi: Qual è il posizionamento femminista qui?

Il cane

excalibur

Ho tradotto questo brevissimo commento di Rosa Montero, tratto da El País ieri mattina, ma non c’è stato tempo di pubblicarlo. E’ di ieri pomeriggio la notizia che Lucas Domínguez, il direttore della equipe che si è occupata di Excalibur, di è dimesso.

Il cane
di Rosa Montero articolo originale qui.

Tutti siamo Teresa, tutti siamo Javier, tutti siamo Excalibur

La lettera che chiedeva di non uccidere il cane di Teresa, ma di metterlo sotto osservazione, ha raccolto in 12 ore 400.000 firme. Sono molti anni che lotto in questo paese per gli animali, e vi assicuro che, purtroppo, non ci sono 400.000 persone così tanto animaliste come quelle mobilitatesi con tanta rapidità.
Penso che quelli che successivamente hanno ripetuto il mantra “tanta preoccupazione per il cane e nessuna per i 4.000 morti in Africa” (mi chiedo quanto avranno fatto loro per gli africani) non abbiano capito cosa è accaduto. E’ stato proprio Javier, il marito, ad aver lanciato una petizione straziante chiedendo che di aiutarli a salvare Excalibur, che consideravano parte della propria famiglia.
E molti, anche senza avere familiarità con i cani, hanno empatizzato con il dolore di quest’uomo e questa donna; con la loro condizione di vittime inermi di una situazione spaventosamente mal gestita. Lo diceva un Twit di Toni García Ramón: “Prendi l’ebola che loro hanno portato. Ti danno la colpa, abbattono la porta della tua casa, ammazzano il tuo cane”. Gli esperti chiedevano di risparmiare l’animale per tenerlo in ossevazione, e nel rifiuto senza nemmeno pensarci in molt* abbiamo visto la prova dell’incapacità del governo di fronte la crisi e la sua mancanza di sensibilità.
Avrebbero dovuto confessarlo molto prima (lo ha fatto dopo un veterinario) che non avevano le risorse per isolare il cane. E in effetti è stato un disastro completo: abiti inadeguati, ignoranza rispetto alle modalità del loro uso, falle nei controlli e, peggio ancora, la suprema indecenza di colpevolizzare la vittima, come ha fatto questo deprecabile consigliere che non è stato ancora destituito. Piove sul bagnato: di nuovo l’incapacità criminale di questo governo, la sua mancanza di autocritica, la vergogna di colpevolizzare le vittime dei suoi propri eccessi. Per questo firmiamo. Tutti siamo Teresa, tutti siamo Javier, tutti siamo Excalibur.

Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska