La malafede della zoofobia – parte I

vlcsnap-521653

Traduzione de The bad faith of zoophobia, di K. Forkasiewicz.
La pubblicazione, data la lunghezza dell’articolo, sarà divisa in parti.
Grazie a Martina e Alice per aver condiviso con me l’impegnativo compito della traduzione!

Jean Paul Sartre, nella sua incisiva analisi dell’antisemitismo, solleva alcuni argomenti preziosi in riferimento alla costruzione dell’identità razzista come espressione di vita non autentica. Sia la persona che il concetto di ‘Ebreo’ servono all’antisemita come mezzi, al fine di sviluppare un meccanismo di difesa esistenziale radicato, per eccellenza, nella malafede. Quest’ultimo sceglie “la permanenza e impenetrabilità della pietra, la totale irresponsabilità di un guerriero che obbedisce ai propri capi – e non ha comandanti”(1).

L’antisemita è intrappolato in una condizione paradossale inconfessata. In effetti, ha disperatamente bisogno di ciò che più detesta, al punto che, se l’Ebreo non fosse esistito, “l’antisemita avrebbe dovuto inventarlo”(2). Un prodotto distorto dell’ideologia e del sentimento antisemita, l’Ebreo non è percepito nella sua realtà, per come è; è utilizzato in quanto pretesto, nulla di più. A quale fine, bisogna domandarsi?
Sartre afferma che “l’antisemitismo è, in breve, la paura dell’umana condizione.”(3) Le pietre angolari della condizione umana, per Sartre, sono naturalmente le torri gemelle della libertà e della responsabilità. Fintantoché siamo umani – esseri per sé – dobbiamo affrontare la nostra condizione esistenziale di base all’interno di dati parametri, relazionarci con essi in un modo o nell’altro, ovvero scegliere. Potremmo abbracciare la libertà e accettare la responsabilità, e vivere una vita autentica. Ma siccome questo significherebbe sostenere un fardello enorme, molti vi sfuggono attraverso gli innumerevoli e contorti tunnel dell’autoinganno. Preferirebbero piuttosto essere come esseri in sé, delle cose, piuttosto che esseri umani, in questa visione dualistica nella quale l’essere per sé e in sé sono giustapposti l’uno all’altro. L’antisemitismo perciò, è un posto nel quale nascondersi.
Si può pensare ciò che si vuole dell’ontologia di Sartre. Molti stimati pensatori, inclusi Maurice Merleau-Ponty, Claude Lévi-Strauss, e Michel Foucault vi hanno introdotto rilevanti rettifiche, o l’hanno rifiutata del tutto. Ma queste tracce – evidentemente semplificate – di tale analisi semplificano la messa in discussione di un’espressione ancora più essenziale d’inautenticità e malafede, che l’umanesimo insito in Sartre gli rese molto difficile notare. In quanto esseri umani, non siamo né liberi per noi stessi, né inerti in noi stessi. Né spirito, né pietra, siamo altro. Attraverso una discussione sul corpo vivente aspiro ad approfondire il livello di analisi di Sartre, rispetto a ciò che lui considerò un dato insignificante e perciò tralasciò di considerare. Nel fare ciò, spero di trovare degli indizi per scoprire chi e cosa siamo prima di poter parlare di libertà e responsabilità negli idealistici termini proposti da Sartre.

§ Un animale contro di sé
Il corpo senziente è un processo disordinato che resiste a calcoli e misure. A differenza dell’assemblaggio di componenti tipico delle macchine, è sempre già provvisto di una soggettività emergente – un’interiorità inseparabile dall’oggettività dei muscoli, delle ossa e della pelle. Un tutt’uno che sfugge allo sguardo egemonico dello scienziato, che impara e ricorda, che utilizza un linguaggio, occasionalmente fatto di parole, ma più spesso un linguaggio più antico – quello del gesto, del movimento e del ritmo. Il corpo sente e apprende e, nel farlo, si relaziona al proprio mondo. Attraversando l’incoerenza della propria situazione esistenziale, si allinea ad essa e la trasforma. Il modo in cui la realizza – sempre un miscuglio di tensione e rilascio – implica una ricchezza performativa che supera qualsiasi convinzione. Le continuità intraspecifiche mutano in divergenze interspecifiche, connessioni fluide si trasformano in differenze radicali di fisiologia, percezione, stile e sensazione: pipistrello e aquila marina, volpe rossa e cinghiale, essere umano e ratto, razza e tarantola.
Eppure, tutti questi corpi sono interconnessi, coevolvono all’interno di grovigli regionali di una realtà singolare. Sorgono al suo interno, vi si affacciano e vi ritornano; e anche se, fenomenologicamente parlando, i loro mondi vitali non coincidono(4), sono tutti fatti della stessa carne(5), come variazioni locali di un unico tema. Il punto cruciale è che, indipendentemente da quali note vengano suonate lungo il percorso, il motivo procede sempre attraverso sofferenza, decadenza e morte, che reclamano il corpo umano come qualsiasi altro.
La nostra fattualità carnale comprende l’impermanenza del cambiamento incessante, l’incompletezza e l’apertura vulnerabile della forma, l’emotività e il dolore della perdita, e la più profonda connessione a un universo che al tempo stesso ci nutre e ci affama, ci sostiene e ci spezza, ci genera e ci uccide. Tutto questo rende la nostra condizione esistenziale quella dell’animalità, che condividiamo con tutti gli altri esseri sensibili della terra. In termini ontologici, siamo animali ben prima di poterci distinguere come specificamente umani, prima di riflettere, analizzare e teorizzare, e anni luce prima di diventare “civilizzati”.
Il cuore della nostra fattualità si situa nell’esistenza totalmente corporea di un essere senziente, o, meglio ancora, un divenire(6). La nostra natura corporea pervade tutto, e nulla può essere distinto come inequivocabilmente separato dalla dinamica dell’esperienza somatica o non fondato su di essa. Detto questo, l’animalità umana può non essere facile da riconoscere.Gary Snyder scrive:

Molte persone che hanno sentito questo discorso fin dall’infanzia non ne hanno colto le implicazioni, forse si sentono lontane dal mondo non umano, non sono sicure di essere animali. Questo è comprensibile: anche altri animali potrebbero sentirsi qualcosa di diverso rispetto a “semplicemente animali”. Ma dobbiamo prendere in considerazione l’ambito condiviso del nostro essere biologico comune prima di porre l’accento sulle differenze.(7)

E, forse ancora più importante, dobbiamo apprezzare il terreno somatologico ed esistenziale in comune(8) con gli altri esseri senzienti della terra: siamo scagliati (geworfen) nella realtà come animali prima di poter assumere qualsiasi tipo di atteggiamento verso questo fatto. E la realtà stessa che costituisce la totalità della nostra esistenza terrena, ci rende sia “densi” – parte della sua consistenza – che fondamentalmente inconsistenti. L’umanità nasce dalla non-umanità, ossa umane da elementi non umani, voci umane da vibrazioni non umane. Legati al flusso della natura, ci troviamo circondati da innumerevoli corpi senzienti, un po’ come l’Ebreo e l’antisemita sono uniti in quello che Sartre dipinge come un dramma specificamente umano.
Il dramma ci si mostra ora come più che umano, con l’homo sapiens che entra in scena come, forse, l’unico animale che dedica le sue energie vitali per superare la propria inclusione nelle inevitabili trasformazioni terrestri. Si concentra perciò su se stesso, sugli altri, e sulla realtà in quanto tale. Si trasforma in un io diviso che, terrorizzato, condanna l’animale non umano all’annientamento(9). Ma nel compiere tale processo l’animale umano storpia solamente se stesso in uno spettacolo radicale di animalità inautentica – cioè, animalità auto-ingannata.
E mentre la malafede della zoofobia stringe la morsa su di noi, scopriamo la nostra vita animale mediata da protocolli di astrazioni istituzionalizzate: tecnologia avanzata, capitale, burocrazia, pensiero simbolico(10), tempo scandito da orologi(11), e altro ancora. Il corpo umano non è mai stato più lontano da se stesso come nel tempo presente. Compartimentato dalle proprie invenzioni e processi, la sua vita sensoriale si è fatta frammentata e marginalizzata, l’ombra di una passata unità sensoriale.

Note:
J.-P. Sartre, Anti-semite and Jew, trad. G.J. Becker. New York: Schocken Books 1948, 53.
2 ibid., 13
3 ibid., 54, enfasi mia.
4 ”Potrebbe essere benissimo – dice Ralph R. Acampora – che altre varietà di organizzazioni del mondo siano disponibili ad altri tipi di esseri sapienti o senzienti… Noi che vorremmo intraprendere ricerche ontologiche e transpecifiche faremmo meglio a cominciare i nostri studi da qualche forma di ‘essere-in-un-mondo.’” Potrebbe allora essere più semplice evitare quello che Acampora chiama “una versione monologica della mondanità (laddove il mondo è sempre e solo pensato come un universale).” Vedi R. R. Acampora, Corporal Compassion. Animal Ethics and Philosophy of Body. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press 2006, 11, 12, enfasi nell’originale.
5 Nella bozza finale per Il Visibile e l’Invisibile, il lavoro interrotto dalla morte dell’autore nel 1961, Maurice Merleau-Ponty scrive che dovremmo concepire la natura precisamente come carne (chair), “in nessun modo come materia.” Vedi M. Merleau-Ponty, The Visible and the Invisible, ed. C. Lefort, trad. A. Lingis. Evanston: Northwestern UP 1968, 274.
6 Usato al posto di “essere”, “divenire” pone l’accento sulla dimensione Eraclitea della vita animata nel suo sviluppo attraverso un complesso di relazioni transazionali tra se stesso (organismo) e l’altro (ambiente, altri organismi).
7 G. Snyder, The Practice of the Wild. San Francisco: North Point Press 1990, 16, enfasi nell’originale.
8 Questo non sta a significare che la somatologia – una fenomenologia che insiste sulla centralità della viva personificazione su tutta l’esperienza – rigetta o dovrebbe rigettare le scienze naturali. Al contrario, è stata gradualmente arricchita e proficuamente contestata dall’attenzione crescente per la ricerca empirica. Ci si riferisce a questo processo come naturalizzazione della fenomenologia.
9 Mai eseguito nella realtà, questo atto è stato retoricamente ripetuto fino alla nausea. Ad oggi, persino nel discorso – non solo dell’ambientalismo convenzionale, ma anche in quello dell’ecologia radicale – l’umanità corporea ma “non animale” è rinchiusa in una sorta di solipsismo di specie, mentre la terra è simbolicamente spogliata della presenza animale. Il regno animale è essenzialmente cancellato scomparendo nel corpo uniforme della “natura”, e la natura nel suo complesso costituisce allora “l’altro lato dell’umanità”. Un dualismo composto da “umani e mondo naturale” viene così creato, attestando un’altra volta l’intima relazione tra l’autocompiacimento umano e la scomparsa degli altri animali.
10 John Zerzan ci rimanda all’antropologo Bronislaw Malinowski, considerando il simbolismo come “l’anima della civilizzazione, soprattutto nella forma della lingua come un mezzo per coordinare l’azione o per standardizzare la tecnica, e dare regole per il comportamento sociale, rituale ed industriale.” Vedi J. Zerzan, Running on Emptiness: The Pathology of Civilization. Los Angeles: Feral House 2002, 4 (con riferimento a B. Malinowski, Sex, Culture, and Myth. New York 1962). Nel primo capitolo del libro, Zerzan descrive un impoverimento profondo dell’esperienza dei sensi, seguita allo sviluppo di una divisione intensificata del lavoro e alla sedentarietà della vita umana, centrata sull’addomesticamento di animali e piante. Ritiene che il simbolismo, per mezzo del quale la realtà è ri-presentata, emerse come una forma di compensazione per questa perdita di ricchezza vissuta, ma peggiorò le cose sul lungo termine, separando solamente di più il mondo interiore dell’animale umano e quello esteriore.
11 Zerzan dice che il tempo è tanto essenziale alla vita di una società sempre più divisa quanto la tecnologia, e viene dato per scontato tanto quanto l’alienazione stessa. “Richiede che i suoi sottoposti siano coscienziosi, “realistici,” seri, e soprattutto dediti al lavoro…. L’invenzione dell’orologio meccanico fu uno dei punti di svolta più importanti nella storia della scienza e della tecnica; di certo di tutta l’arte e la cultura umana.” La dominazione del tempo è il presupposto per l’irreggimentazione sistematica della vita umana corporea e la sua induzione nel ritmo dell’apparato produttivo; “La comparsa del tempo indipendente, astratto trovò il proprio parallelo nel progressivo emergere di una classe operaia sempre più vasta, formalmente libera, costretta a vendere la propria forza lavoro come merce astratta sul mercato.” Vedi Zerzan, Running on Emptiness…, 21, 25 (come citato).