Mi capita piuttosto spesso vedere altre persone trans struggersi sognando di essere nate con un corpo coerente con la loro identità di genere. A me viene da pensare, invece, che se fossi nato maschio, sarei stato una donna trans. Non so, ho quest’impressione.
Non so se mi identifico senza genere o fuori dai generi, dal momento che in linea di massima mi arrabbio se, parlando di identità di genere, mi definiscono qualcosa di diverso dall’etichetta ‘uomo trans’, ma rifiuto del tutto la nozione cisnormativa e transfobica per cui quella parolina – trans – non dovrebbe ricoprire nessun ruolo particolare nella mia identificazione, nella mia storia, nella mia prospettiva, nel mio pensiero.
Le persone transessuali e transgender perdono molte cose: gli amici, i partner, il lavoro. Ma se queste tutte cose – fatta eccezione per il lavoro, che è già piuttosto difficile da ottenere in una condizione senza particolari ostracismi in corso, figurarsi in altri casi – sono tutto sommato recuperabili o è possibile ottenerne di nuove, c’è qualcosa che come persone trans perdiamo definitivamente, ed è l’attendibilità della nostra voce, la capacità di definirci, di narrarci, di mostrarci. In quanto trans, non posso affermare che io sono. La mia identità deve essere validata dagli altri.
Lo sguardo cisgender pervade la mia vita e mi sottopone senza pietà ad un giudizio costante. Si insinua nella mia persona, nella mia storia, nei miei ricordi, nella mia affettività e sessualità, e in parte persino nella mia autopercezione. Mi obbliga a comprovare il mio genere in continuazione: di fronte a psicologi e psichiatri, i quali possono decidere tranquillamente di lasciarmi in pasto al mostro-disforia se non dimostro di essere esattamente il piccolo macho eterosessuale che loro pretendono io sia, se non fornisco loro narrazioni preconfezionate o addirittura negarmi aprioristicamente la possibilità di farlo nel caso in cui non mi identificassi all’interno del binarismo di genere. Di fronte a tribunali che mi obbligano a operarmi per ottenere dei documenti che non dicano il contrario di quello che dice la mia faccia. Di fronte a una cultura nella quale sono assente, sottorappresentato o male rappresentato, dove l’articolo di giornale medio quando parla di transessualità e transgenderismo solitamente lo fa notificandoci l’ennesima morte dell’ennesima sex worker trans, spesso migrante, morta per le mani di qualche cliente che non aveva intenzione di pagare, o per chissà cos’altro; in ogni caso, impossibilitata a fare altro vista la discriminazione attuata nei confronti delle persone trans che cercano un impiego.
È perfino nei nostri discorsi, dove produce innanzitutto la retorica del nascere-nel-corpo-sbagliato, figlia di una logica medicalizzatrice a tutti i costi. Se nasci sbagliato, ovviamente non hai alcun interesse a palesarti come errore di fronte a chiunque, e la possibilità di rivendicare la tua condizione come qualcosa di legittimo si scioglie come neve al sole. In quanto trans, non credo che il mio corpo sia sbagliato: credo che sia una parte di me che è in-divenire e in aperto conflitto con il mio desiderio.
Quando siamo trans eterosessuali, credono che lo siamo per non vivere in maniera più semplice, per non vivere da omosessuali; quando siamo trans omosessuali, annaspiamo in solitudine tra gay e lesbiche che ci tengono a farci presente costantemente che loro un uomo con la vulva o una donna con un pene mai li prenderebbero in considerazione; e quando siamo trans bisessuali, siamo outsider estremi, connubio di ben due stranezze.
Ogni occasione è buona per mettere in dubbio ogni aspetto della nostra vita.
Inoltre come persone trans, pretendiamo la possibilità di transizionare per stare meglio con noi stesse qui ed ora. È certamente giusto. Ma cosa farsene di testosterone ed estrogeni se quotidianamente vengono a mancare la dignità e il diritto ad un’esistenza che non sia soltanto lotta per la sopravvivenza? Francamente non ho alcun interesse nel somigliare il più possibile ad una persona cisgender. In quanto trans non posso e non voglio essere cis, e trovo che questo sia non qualcosa da correggere ma un punto dal quale partire da sè, nel senso che il movimento femminista fornisce a questa espressione.
Credo che la nostra esperienza come persone trans, da un punto di vista che non sia cisnormativo ed eterosessista, possa fornire un interessante bagaglio umano, politico e culturale e un punto di vista politico ed iconoclasta rispetto alle questioni di genere, e non soltanto quelle. Nel più totale silenzio della cosiddetta comunità arcobaleno, che sembra adoperarsi nella rincorsa all’assimilazione gettando sotto un treno tutte quelle soggettività che attentano alla sua autorappresentazione come soggetto politico inoffensivo per gli etero bianchi di classe media, e in sintesi per lo stato e il capitalismo con le biopolitiche che marchia a fuoco sui nostri corpi. Rappresentiamo un urlo di rabbia, rottura radicale con l’esistente: ai margini, frocie tra le frocie.
Ci viene proposto un mondo zuccheroso e magico, i cui ingredienti principali sono un’accettazione che è soltato una forma più fine di disprezzo e una tolleranza non troppo diversa da quella che si ha nei confronti di una zanzara prima di schiacciarla. Un mondo dove tra la mutilazione delle persone intersex, le problematiche delle persone transessuali e transgender, l’invisibilità bisessuale nonché quella asessuale, e l’alto tasso di suicidi delle persone LGBTQIA+ la priorità generale sembra essere il matrimonio e la famiglia. Per essere felici, contenti… e miserabili.
Ora più che mai è indispensabile alzare la nostra voce ed affermare le nostre priorità, senza compromessi, proprio noi che fin’ora abbiamo accettato di buon grado. È tutto ciò possibile? Non so. Ma indubbiamente è indispensabile.
Certamente un’ottima diagnosi, ricalcata sugli stilemi femministi della differenza di genere, ma non vedo nessuna proposta concreta. Il muro della proposta è molto difficile da valicare. L’affermazione della tripolarità di genere rimane sullo sfondo nelle sue modalità pratico-sociali, e ben si comprende, date le difficoltà prodotte dalla quadrupla intolleranza di cui è vittima la transgenderità: intolleranza etero, omo, gay e lesbica, uomo, donna. Per questo essere di assoluta frontiera, che non può che essere statisticamente poco diffuso, la contrattualità sociale è bassissima e finisce per costruirsi attraverso una tolleranza “forzata” per legge ma non psico-socialmente, cosa gravissima. In buona sostanza, questo gruppo antropologico può solo incontrare gli strumenti di minoranza e anche i limiti di espressione della minoranza. Il riconoscimento uno ad uno, parità assoluta, non può avvenire che dentro la cittadinanza, la quale deve essere piena e assoluta. Per il resto incontra gli stessi problemi di qualsiasi minoranza, ad esempio gli allergici a qualsiasi sostanza o i portatori di handicap. L’handicap deve essere trasformato in chiave positiva. La persona transgender è una persona di notevole apporto alla società umana grazie alla sua transvisione del vivere in società. E purtroppo, molte persone transsessuali vivono una condizione di sottopersona, che azzera le richezze psico-sociali di cui sono portatrici.