Deconstructing le gender contraddizioni

contradictionOh, finalmente anche le grandi menti prendono posizione nei confronti della fuffa. Che l’ideologia gender sia una fuffa inventata da chi teme di perdere potere, e da questi ben orchestrata lo si sa ed è stato ben dimostrato, e ci siamo divertiti anche noi spesso a farlo capire. Però è bene ricordare che ci sono giovani e valenti studiosi impegnati nel lodevole tentativo di farla esistere comunque, perché è uno spauracchio che serve alla loro, questa sì, ideologia: quella della “vita”, quella cattolica, quella della natura, insomma quella intollerante, per capirci. Questa intolleranza, per ammantarsi del ruolo di difesa eroica, quando non di vittima che resiste, deve demonizzare il suo avversario, e tratteggiarlo in maniera insieme netta ma opaca, forte ma vaga, con pochi princìpi ma tutti sbagliati. L’ideologia gender in sé non viene mai definita, non vengono citati articoli o libri, e ci mancherebbe: non esiste. Vengono solo ben nominate le sue supposte teorie, i suoi fantasiosi assunti – peccato che nessuno li abbia stabiliti se non quelli che se la sono inventata. Cioè i suoi detrattori, come questo genio qui.

Le tre contraddizioni dell’ideologia gender [oh, finalmente uno preciso: sono tre le contraddizioni di una teoria che non esiste, né più né meno]

L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti [no, i fanatici incompetenti sono quelli come te che pensano che esista: quelli che dicono che non esiste davvero, ma che è un’invenzione di fanatici incompetenti, sono fior di studiosi e studiose]. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie [le prassi totalitarie sono vietate dalle legge, e infatti non c’è stato nessun caso di persone arrestate perché predicherebbero l’ideologia gender, dato che non esiste], che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero [non è vero, a me e a tanti basta che stai zitto e che accetti o di non capirci niente o di essere in malafede. Non credo che tu sia matto, ma ipocrita – o venduto. Scegli pure tu, in piena autonomia]. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso [che eroe], risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi [chi l’ha detto? Mai letto in nessun testo seriamente femminista o queer, nessuno nega le differenze tra i sessi – e notate come il nostro campione d’ignoranza inconsapevole o di calcolata ipocrisia passi dalla parola “sesso” alla parola “genere” come se fossero sinonimi – e senza dire che rapporto c’è tra loro]. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione [lo sono storicamente proprio per i femminismi più diversi, che le studiano come il pensiero generalmente maschilista non s’è mai sognato di fare], diverrebbero potenziali alibi per trattamenti iniqui [quali? Non si sa. Come le prassi totalitarie più sopra, un nome minaccioso e altisonante che non vuole dire niente].

Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi [EH? Ma stai fuori? L’abolizione dei sessi? Questa è la loro pagina in inglese, e con Google potrete trovare molto materiale. Non c’è nessuna abolizione di niente in quella scuola, a parte dei pregiudizi tipo i tuoi] coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti [non sono ritenuti sessisti, sono solo dei pronomi. Semplicemente, connotano qualcosa che dovrebbe essere consapevolmente scelto, cioè il genere e non il sesso. L’abolizione dei sessi è una frase senza senso, vorrebbe dire che lì evirano i bambini o cose del genere] – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali [no, quelle scelte linguistiche servono a preservarli per una scelta consapevole, e per non inquadrare i/le bambini/e in ruoli stereotipati che non hanno scelto. E’ un tentativo di insegnare una libertà, per consegnare loro un migliore senso si sé, per non dargliene uno preconfezionato dai luoghi comuni sociali]. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi [NON E’ VERO, è per questo che si chiamano STUDI DI GENERE (GENDER STUDIES), dato che sono approcci diversi e non ideologie rigide; basterebbe leggersi la bibliografia citata da Wikipedia per capirlo], da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere [ma de che], laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne [e invece sì, alla faccia tua, basterebbe leggere]; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé [mescolando in allegria cose mal capite e mal riportate della teoria queer].

Al di là di comprensibili perplessità [se esponi le cose a cacchio in questo modo, e certo che ci sono, le perplessità], questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti [il problema che non vuoi accettare è che non è una logica definitoria, ma una libertà da scoprire. Se non la vuoi sono problemi tuoi, non cercare di argomentare le contraddizioni altrui invece dei tuoi limiti di comprensione]. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione [ma se è questa la situazione alla quale i gender studies vogliono rispondere!]? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione [ma CHI la pretende questa imposizione, chi? Ce lo dici?], si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso [solo per i cervelli come il tuo che non possono o non vogliono accettare che genere e sesso non sono la stessa cosa] ma si pensiona anche quello d’identità [EH? E che c’entra adesso l’identità?]. Parlare di identità di genere [cosa che non hai argomentato, che salta fuori adesso come se niente fosse] rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica [bei paroloni, ma per ora s’è solo vista la portata ossimorica della tua ignoranza, che pretende di formulare agli studi di genere domande sbagliate, formulate con lessici inesatti e sostenute da convinzioni erronee. Di ossimorica c’è solo la tua pretesa di averci capito qualcosa].

Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità [formulato male, ma almeno s’è vagamente capito]. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile [notate come cambiano i termini a seconda della convenienza: adesso sono spariti sesso e genere, adesso ci sono il maschile e il femminile: che sono, spiriti? Concetti? Idee platoniche? Eau de toilette?] – sostiene la prospettiva gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente [mai detto da nessuna gender theory, ovviamente], bensì a causa di una data cultura [no, non è affatto così. Gli studi di genere – è importante dire che sono molti e non solo la prospettiva – studiano i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, non la natura dei sessi – quello lo fa la biologia, forse]. D’accordo, ma se le cose stanno così [e invece non stanno così], se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti [no, non è così banale, devi definire bene l’ambiente, se no finiamo a parlare di scie chimiche], com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? [Certo, è lo stesso metodo per cui la voglia di stuprare la mette la minigonna, vero? Sempre il solito giochetto di scambiare gli effetti con le cause, vero? Anche di queste frittate abbiamo già parlato.] Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender [non so, io ho la vaga idea che se evito di dire ai bambini che potranno fare tutto nella vita ma alle bambine che possono solo fare le infermiere, le maestre, le mamme, certa merda non rientrerà dalla finestra]? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne [non è quello che si ripromettono i gender studies, chi te lo ha detto? E soprattutto, che cacchio vuol dire garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Che è, ‘na scuola zen?]? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata [e quando facciamo meno gli ipocriti ed evitiamo di porre tutte le questione come “o bianco o nero”, per non ammettere di non aver capito tutte le altre sfumature di colore? Costa l’umiltà, eh?].

L’ultima, vertiginosa [in sottofondo, mi raccomando, l’ossessionante musica di Bernard Hermann] contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole [e che vuoi farci, per la telepatia di massa la RAI ci nega i permessi. Rendetevi conto di che critica sta facendo questo tizio]. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti [le famiglie? Organizzando insegnamenti? Ma che roba ti cali? Ma dove hai mai letto che gli studi di genere prospettano un futuro di famiglie indottrinanti? Quello è il cattolicesimo, casomai] che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna [di nuovo, ‘sta panzana non si trova in nessun testo che si occupa di questioni di genere]. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa [attenzione, stiamo assistendo al rivoltamento di frittata #2: adesso i gender studies sono quelli che vanno contro la libertà educativa, certo, come no, lo dicono sempre], andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957) [ma sì, tiriamo fuori la citazione e facciamo vedere che un nome grosso lo sappiamo], nel suo Psicologia di massa del fascismo [sappiamo pure er titolo, tiè], scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica» [una bella citazione «che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani» (cit.), tanto per unire confusamente gender studies e fascismo, inventandosi un legame inesistente, tanto per fare paura]. Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere [e te credo, se se la fanno spiegare da te], ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender [complimenti per la sintassi, è lo specchio della chiarezza d’idee che l’ha prodotta].

Non so dire se le contraddizioni dell’ideologia gender sono tre, perché non esiste. Ma quelle dell’ignoranza e della malafede, uh!, non si contano.

Depilarsi le gambe non è femminista (ma puoi comunque essere femminista e depilarti)

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Ho pubblicato questo disegno (di Natalya Lobanova) sulla mia pagina facebook ieri, e le reazioni sono state molto varie. Alcune persone l’hanno apprezzata. Molte l’hanno condivisa. Ma altre l’hanno trovata insultante e giudicante, e l’hanno considerata una critica rivolta alle donne che si depilano. Si sono sentite offese dalla parola “mutilare”, la quale, sebbene attenuata da quel “leggermente”, sembrava loro comunque troppo forte. Come ogni volta che qualcosa scatena una accesa discussione, mi ha incuriosito molto la reazione delle persone e le loro motivazioni. In verità a me quest’immagine piace molto, e mi ha sorpreso l’offesa che  ha causato ad alcune persone. Ritengo che parlare delle cose assurde che facciamo per sentirci belle sia molto importante, anche se a volte ci fa sentire a disagio.

Per essere chiara, una volta per tutte: io mi depilo le gambe. Mi depilo anche le ascelle, la zona bikini, e la bizzarra scia di peluria scura che parte dall’ombelico e arriva ai peli pubici. A otto anni mi sono fatta bucare le orecchie perché morivo dalla voglia di indossare orecchini veri. Mi trucco quasi sempre prima di uscire di casa. E sappiatelo, mi piace fare tutte queste cose, perchè mi fanno sentire carina e più a mio agio nella mia pelle. Ma sono anche consapevole di essere cresciuta in una cultura che mi ha insegnato, dal primo giorno, ad associare a queste piccole modifiche arbitrarie a cui mi sottopongo il concetto di bellezza.

Ho sentito diverse persone affermare che il femminismo è basato sulla libertà di scelta, e che pertanto l’idea di fondo è che le donne dovrebbero essere messe in condizione di scegliere per le proprie vite. Per la cronaca, sono completamente d’accordo con quest’idea. Ma penso comunque che sia importante parlare del fatto che le scelte non avvengono a caso, e che alcune scelte non sono femministe. Depilarsi, ad esempio, non è un gesto particolarmente femminista. E non sto dicendo che non ci si possa depilare le gambe ed essere comunque femminista, ma penso che sia comunque importante poter parlar di aspetti come questo senza saltare immediatamente alla conclusione “bè, ma il femminismo riguarda la scelta, io la mia scelta l’ho fatta, e questo è quanto”.

Prima di tutto, non sono per niente sicura che la maggior parte delle donne sentano davvero di avere una scelta quando si parla di depilazione. Voglio dire: certo, tecnicamente, possono scegliere cosa fare dei propri corpi, ma è abbastanza difficile sentirsi libere e non influenzate nelle proprie scelte quando le opzioni si riducono a: 1) depilarsi e godere dell’approvazione generale 2) non depilarsi e diventare il bersaglio di scherzi idioti, insulti e persino molestie a causa di questa scelta. E’ decisamente difficile definire questa una “scelta” quando la società approva senza riserve una delle opzioni e punisce sistematicamente l’altra. Dobbiamo essere consapevoli di giocare con dadi truccati.

La verità è che mi adeguo a standard di bellezza patriarcali ogni giorno. Indosso vestitini graziosi e mi spalmo robe appiccicose in faccia per “evidenziare i miei tratti” e rendere il colore della mia pelle “più uniforme”. Indosso scarpe con i tacchi perché mi fanno sembrare più alta e le mie gambe appaiono più snelle. Infilo sottili barrette di metallo attraverso buchi creati nei lobi delle mie orecchie perché penso che mettermi orecchini mi renda più gradevole. Rimuovo con cura dal mio corpo ogni pelo potenzialmente visibile quando indosso solo l’intimo.  Ed è tutto accettabile, e non mi rende meno femminista ma allo stesso tempo queste sono tutte scelte anti-femministe. Perché sono scelte che non avvengono a caso. Non avvengono perché un giorno mi sono svegliata e ho pensato “mmmh, ho davvero voglia di prendere un rasoio e depilare tutte le parti più sensibili del mio corpo e sopportare l’irritazione da rasoio nei prossimi giorni, mi pare una roba proprio divertente!” Non avvengono perché mi sono trovata a sperimentare vari colori sulle mie labbra, e ho deciso che rosso e rosa erano i miei colori preferiti. Avvengono perchè sono cresciuta in una cultura tossica che mi ha insegnato che per essere bella devo modificare il mio corpo, e ogni volta che mi adeguo a quell’idea di bellezza, sto rinforzando e avallando quella cultura tossica. Ogni volta che indosso i tacchi e una bella minigonna, sto rendendo le cose molto più dure per tutte le donne che vorrebbero lasciarsi alle spalle questo fottuto ideale nel quale siamo costrette. E anche se non vorrei, devo essere consapevole della mia responsabilità.

E’ uno schifo che le donne debbano modificare il proprio aspetto per essere considerate belle, o persino solamente accettabili. Abbiamo i peli – durante la pubertà ci crescono naturalmente. Ce li abbiamo tutt@. Dunque perché devono essere qualcosa di disgustoso?  Perché in generale l’intimo e i costumi da bagno sui manichini sono normali, ma questi di American Apparel sono considerati spassosamente osceni?

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Voglio dire, questo è letteralmente il mio aspetto quando non mi depilo. Forse sono ancora più pelosa di così. Questo è l’aspetto del mio corpo. Perché è così disgustoso per così tante persone?

Noi tutte facciamo delle scelte circa il nostro aspetto, e nessuna di queste scelte ci faranno requisire la tessera di femministe dalla polizia femminista. Ma a volte queste scelte rafforzano lo status quo e contribuiscono quindi alla difficoltà che altre donne sperimentano quando il loro aspetto non si adegua alle rigide norme dettate dalla società. E questo non significa che non dovremmo mai indossare vestiti o trucco o gioielli, ma piuttosto che dobbiamo parlare del perché facciamo queste cose. E abbiamo bisogno di smetterla di fingere che questo e quello sia una scelta femminista, perché il femminismo è libertà di scelta e se io sono femminista, allora tutto quello che faccio è automaticamente femminista. No. Non è così che funziona. Indossa vestitini se ti va. Indossa belle scarpe e orecchini e rossetto rosso brillante. Depila tutti i peli del tuo corpo, se questo è ciò che ti fa stare bene. Ma per favore, ammetti che non fai nessuna di queste cose perché casualmente ti piace farle. Per favore, ammetti che la tua scelta è stata fortemente influenzata dalla fottuta cultura misogina in cui viviamo. Accetta il fatto che a volte le tue scelte sono anti-femministe, non perché sei una cattiva femminista, ma perché questo è il mondo in cui viviamo oggi. E una volta che hai fatto tutto questo, cerca di trovare un modo per cambiare le cose, di modo che le ragazze giovani non debbano più essere convinte che i loro corpi non vanno bene così come sono.

Perché non mi interessa il discorso femminista di Emma Watson

(Articolo originale di Mia McKenzie qui, traduzione di feminoska)

L’attrice Emma Watson, nota per la saga di Harry Potter, è una delle nuove Ambasciatrici di buona volontà di UN Women, e sabato scorso ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite per lanciare la campagna HeForShe, che mira a mobilitare gli uomini per cancellare in qualche modo la disuguaglianza di genere (la campagna non sembra suggerire nello specifico agli uomini azione definite di nessun tipo). La campagna chiede agli uomini di rendere la parità di genere un proprio problema, e Watson ha esteso “un invito formale” a tutti gli uomini di esserne parte. Molti dei più noti siti femministi (bianchi) sono in fermento, uniti nell’affermare che si sia trattato di un discorso impressionante e davvero di livello superiore, o cose del genere. Sì, alcune parti del discorso sono state notevoli. Watson ha spiegato il percorso che l’ha portata al femminismo, ad esempio l’aver vissuto l’esperienza di venire sessualizzata a 14 anni dai media. Il discorso è davvero degno di nota nei primi minuti.

http://www.youtube.com/watch?v=Hyg_QIYKv_g

Poi, intorno al sesto minuto, diventa… un pò meno notevole.
Mi definirei una fan di Emma Watson. Mi piace. Mi è sempre piaciuta. Sono una fan di Harry Potter (nonostante i suoi aspetti problematici in merito alla disuguaglianza di genere), e l’ho apprezzata molto anche in altre interpretazioni. E mi piace ancora. Sono anche sicura che abbia ottime intenzioni per quanto riguarda il suo impegno femminista, e lo stesso vale per l’impegno profuso alle Nazioni Unite. Fantastico. Eccellente. Non è questo il problema. Il problema è che il messaggio contenuto nel discorso di Watson è problematico in molti aspetti.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Watson afferma:
“Come possiamo influenzare il cambiamento nel mondo quando solo la metà di esso è invitato o si sente accolto a partecipare alla discussione? Uomini – vorrei cogliere quest’occasione per estendervi un invito formale. L’uguaglianza di genere è anche un vostro problema.”
In questo passaggio sembra suggerire che la ragione per cui gli uomini non sono coinvolti nella lotta per l’uguaglianza di genere è che le donne semplicemente non li hanno invitati e, a dirla tutta, sono state poco accoglienti. Le donne non hanno fatto pervenire agli uomini un invito formale, e per questo motivo gli uomini non vi hanno aderito. Non è perché, invece, gli uomini beneficiano enormemente (socialmente, economicamente, politicamente, ecc. infinitamente) della disuguaglianza di genere e quindi si sentono meno incentivati a sostenerne lo smantellamento. Non è a causa della prevalenza della misoginia in tutto il mondo. E’ solo che nessuno lo ha chiesto! Oh, mio Dio, come mai nessuna di noi ha pensato di chiederlo?!

E’ assurdo suggerire una cosa del genere. Le donne hanno cercato di portare gli uomini ad interessarsi dell’oppressione delle donne da… sempre. Ma agli uomini non è mai interessato molto combattere questa lotta, perché chiede loro di rinunciare al proprio potere e tutti gli indizi suggeriscono che non sia proprio una delle cose che preferiscono fare. “Condividi un link sulla parità di genere? Certo! Contaci! Rinunci al potere in modo concreto? No, non proprio.” Watson ha continuato:
“Ho visto uomini resi fragili e insicuri da un’idea distorta di ciò che costituirebbe il successo maschile. Nemmeno gli uomini beneficiano dei vantaggi dell’uguaglianza. Non parliamo spesso degli uomini e del loro essere imprigionati dagli stereotipi di genere, ma io mi rendo conto che lo sono e che quando sono liberi, le cose cambiano per le donne come conseguenza naturale.”
Anche questo messaggio è viziato e sbagliato. Raccontare agli uomini che dovrebbero preoccuparsi della disuguaglianza di genere per via di quanto nuoce loro, mette al centro del discorso gli uomini e il loro benessere in un movimento costruito dalle donne per la nostra sopravvivenza, in un mondo che ci degrada e ci disumanizza quotidianamente. Questo concetto è problematico per la stessa ragione per cui lo è dire ai bianchi che dovrebbero porre fine al razzismo perché il razzismo “nuoce a tutti in quanto società, perciò sradicarlo aiuterà tutti”.

In primo luogo perché, anche se fosse vero, non fa nulla per creare solidarietà. Non ho mai incontrato una persona bianca che abbia deciso di sobbarcarsi un impegno anti-razzista per via degli effetti negativi del razzismo sui bianchi. Letteralmente, mai. E non credo di aver mai incontrato un uomo che sostenga realmente gli ideali femministi per via dei benefici che ne deriverebbero agli uomini. Se avessi conosciuto persone simili, non mi sarebbero affatto piaciute. Domanderei loro perché la spesso brutale oppressione delle persone di colore e delle donne, e in particolare delle donne di colore, non sia stata sufficiente a destare il loro interesse, mentre l’epifania causata loro dai modi in cui uomini e/o bianchi sono in qualche modo colpiti in certa misura da questi costrutti, perché “è qualcosa di cui la società e anche gli uomini dovrebbero essere in grado di piangere” li ha fatti saltare così prontamente a bordo. In secondo luogo, perché ignora quanti uomini beneficino della disuguaglianza di genere. (E’ proprio così, Emma!)

Mi permetto di offrire giusto un paio di statistiche da questo lato della barricata: 1 donna americana su 5 ha denunciato di aver subito uno stupro nel corso della sua vita. Per gli uomini americani, la proporzione è di 1 a 71.
Le donne bianche americane (cis-gender) guadagnano il 78% di quello che guadagnano i loro colleghi maschi bianchi. Le donne nere americane (cis-gender) guadagnano l’89% di ciò che i loro colleghi maschi neri guadagnano e il 64% dei loro colleghi maschi bianchi. Le donne ispaniche (cis-gender) guadagnano l’89% di ciò che i loro colleghi maschi ispanici guadagnano e il 53% dei loro colleghi maschi bianchi. Solo il 4,8% degli amministratori delegati sulla lista stilata da Fortune 500 sono donne.

Naturalmente, il divario retributivo di genere esiste in tutto il mondo, compreso il Regno Unito. E così lo stupro.

Dire che gli uomini non beneficiano dei vantaggi dell’uguaglianza crea una falsa narrazione secondo la quale siamo tutt@ colpit@ allo stesso modo e con la stessa gravità dai mali della disuguaglianza di genere, e che nessuno ne ricava alcun beneficio, il che semplicemente non è vero. Emma Watson sessualizzata dai media a 14 anni non equivale ai suoi amici maschi che vivono in maniera non sempre agevole l’espressione dei propri sentimenti. E’ una falsa equivalenza. I modi in cui la disuguaglianza di genere nuoce agli uomini e ai ragazzi sono molto, molto diversi dai modi in cui nuoce alle donne e le ragazze. Ovvero, la disuguaglianza di genere opprime e abusa donne e ragazze in quasi ogni aspetto della propria vita.

Inoltre, le persone con il maggior privilegio vengono in questo modo costantemente riportate al centro delle conversazioni sull’oppressione e questa cosa deve finire. Questo è il motivo per cui “il diritto al matrimonio” è il tema principale delle più note e influenti realtà LGBTQ, piuttosto che le problematiche dei giovani queer senzatetto o anziani in difficoltà, o l’invisibilizzazione e la cancellazione dei queer e delle persone trans di colore. Il volto del movimento per il “diritto al matrimonio” è per lo più bianco, maschio e benestante. Le persone con i maggiori privilegi restano al centro della discussione, mentre le persone maggiormente oppresse sono un corollario, nella migliore delle ipotesi. De-centralizzare le donne nelle discussioni sulla disuguaglianza di genere non è una buona strategia. Watson ha anche detto: “Voglio che gli uomini si prendano questa responsabilità. Così che le loro figlie, sorelle e madri possano vivere libere dal pregiudizio”.
Il messaggio implicito, qui, è che le donne meritino equità ed eguaglianza a causa delle nostre relazioni con gli uomini. Continuare a rinforzare l’idea che gli uomini dovrebbero rispettare le donne e la lotta per l’uguaglianza delle donne perché madri / sorelle / figlie / qualunque altra cosa, perpetua l’idea che le donne non meritino già queste cose in quanto esseri umani (quando si estenderà il discorso anche ai non umani? N.d.T.). Essa incoraggia gli uomini a pensare alle donne sempre e solo in relazione a sé stessi, come se la nostra pseudo-umanità fosse solo un corollario alla vera umanità degli uomini. La verità è che le donne sono persone intere e complete, a prescindere dal nostro status nella vita degli uomini. Questo è ciò che gli uomini dovrebbero sentirsi dire, ancora ed ancora. Questo è ciò che tutti dovrebbero sentire, ogni giorno.

Credo che uno degli aspetti a cui Watson si èavvicinata, ma a cui non è propriamente arrivata, è l’idea che la femminilità, sia essa espressa da donne o uomini (o persone Genderqueer, credo, ma chissà perché queste ultime non esistono in questo discorso alle Nazioni Unite o nella campagna “HeForShe”), è quella che ha la peggio nel mondo. La femminilità è vista come debolezza e viene odiata e maltrattata. Questo è un concetto valido e molto, molto importante, ma in realtà Watson non ha detto nulla di tutto ciò, non sembra avere fatto una solida analisi di questo aspetto ancora, ed è sensato supporre che lo stesso messaggio distorto arriverà alla maggior parte delle persone che ascoltano il suo discorso.

Quindi, possiamo per favore smettere di cercare di rendere Emma Watson la nuova icona femminista dell’universo? A quel punto non è ancora arrivata. Sta ancora imparando, credo, proprio come Beyoncé, che, tra l’altro, raramente ottiene anche solo il beneficio del dubbio dalle femministe bianche, per non dire osannata come “Regina femminista di qualsiasi cosa”, quando le sue esternazioni femministe sono meno che perfette. (Immaginate se Beyoncé si fosse alzata alle Nazioni Unite e avesse tenuto un discorso incentrato sugli uomini nella lotta per la parità di genere. I bianchi cieli femministi più influenti avrebbero fatto piovere fuoco infernale su tutt@ noi. Beh, su alcun@ di noi, in ogni caso).

Mi auguro che, nell’evolversi del proprio femminismo, Emma Watson cancelli questi primi sfortunati approcci. Ma, francamente, dovrà dimostrare molto di più per essere considerata la “femminista che cambia le regole del gioco”, come è stata definita. Dov’è la sua analisi della giustizia razziale e della necessità di quest’ultima nel porre fine alla disuguaglianza di genere? Che cosa ne sa lei della misogynoir (misoginia nei confronti delle donne di colore)? Fino a che punto comprende che le donne bianche benestanti come lei sono spesso coloro che opprimono donne di colore e/o donne povere nel mondo? Dov’e la sua comprensione del transfemminismo? Può spiegare alle Nazioni Unite, o a chiunque altro, perché la violenza contro le donne trans deve essere al centro del nostro lavoro contro la misoginia? Sa e può spiegare che la discriminazione a favore di persone non disabili è interconnessa non solo con la disuguaglianza di genere, ma con ogni forma di oppressione esistente? E, soprattutto, comprende che in quanto donna bianca le viene concesso di accedere ed essere presa sul serio dal femminismo tradizionale, in modi che una donna di colore non potrebbe mai e perché, allora, è necessario per lei di farsi da parte e fare spazio alle donne di colore per essere ascoltate, se la disuguaglianza di genere è da eradicare definitivamente? Perché qualsiasi vera “femminista che cambia le regole del gioco” dovrebbe farlo.

Io personalmente sono convinta che sarebbe davvero incredibile se la donna un tempo conosciuta come Hermione si rivelasse una femminista davvero tosta e rivoluzionaria. Per me, un tale cambiamento richiederebbe un approccio ed un analisi davvero tosta e rivoluzionaria, cose che Watson ancora non padroneggia.

 

Deconstructing l’istinto naturale

19bisCapita raramente che un commento a un post sia particolarmente interessante, perché in genere chi vuole argomentare bene in risposta a qualcuno sceglie di farlo o sul proprio blog o su un social network; i commenti intelligenti sono sempre più rari, ma quelli lunghi, argomentati e completamente idioti sono ancora più rari. Quindi quando ne capita uno, va immortalato.

Premessa: non importa se l’anonimo commentatore è un troll in vena di fini ragionamenti. Importa – ecco perché ce lo rileggiamo – che questi siano i ragionamenti di una maggioranza di bei maschioni. Quindi non sarà inutile dargli una spolveratina, e fregarsene se poi l’autore legge, risponde, ricommenta, e così via.
Spero che tutti voi conosciate già il blog
Ci riprovo, che vi consiglio di frequentare spesso e volentieri. Sotto questo post – che necessariamente dovete leggere prima di continuare – è apparso un commento notevole, che sarà un piacere rileggere insieme a voi.

Lola, non te la prendere per il mio modo provocatorio di affrontare la questione. [E’ sempre carino cominciare così, è la versione retorica di “io non sono razzista ma” – predispone alla gioia, proprio]. Premesso che non so nemmeno come ci sono capitato qui [figurati noi, ma grazie lo stesso]: in genere mi occupo di discussioni di tutt’altro tipo [attenzione: ha premesso lui che non se ne occupa di certe cose, eh, ricordiamocene], sono stato catturato [il linguaggio già denuncia l’atteggiamento giusto: lui se ne andava per fatti suoi nel web ed è stato catturato. Sempre per continuare a predisporre Lola alla gioia] dalla tua tesi sulla necessità di educare i maschi [lo avete letto il post, vero? Ce l’avete trovata questa tesi sulla necessità di educare i maschi? Io no, e manco Lola, ma lui, che in genere si occupa di discussioni di tutt’altro tipo, sì]. Dove per “educare” sembra che tu voglia intendere “addestrare”, o “ammaestrare” [sembra solo a chi non sa leggere o a chi ha dei pregiudizi grossi come la galassia, ma vabbè], secondo una concezione pseudofemminista di concepire i rapporti tra i sessi [ma non era uno che si occupava di discussioni di tutt’altro tipo? Se già è in grado di riconoscere ciò che sarebbe pseudofemminista, allora ne sa. Che giocherellone].

Una concezione che fondamentalmente si regge sulla negazione, o sulla diminuzione, di una verità fondamentale [attenti, arriva la verità fondamentale! Pronti?]: noi umani siamo animali [e fin qui c’ero arrivato pure io], siamo organismi soggetti all’imperativo naturale della riproduzione [e che sarebbe un imperativo naturale? Non c’è su Wikipedia, mannaggia, e adesso come facciamo? Pure quel filosofo, come se chiamava, Kant, non poteva metterci questo, tra gli altri imperativi?], come tutti i viventi. L’istinto riproduttivo è talmente primitivo e fondamentale che ci accomuna ai lombrichi e con altri viventi ancora meno evoluti di loro [condividiamo anche lo stesso pianeta e siamo entrambi soggetti alla forza di gravità – e potrei continuare all’infinito a trovare comunanze a cacchio con i lombrichi: rimane il fatto che non hai detto cosa sarebbe un imperativo naturale. Perché se fosse l’istinto riproduttivo, diciamo che tra l’avercelo – sempre tutto da dimostrare – e il come usarlo, qualche differenza tra i vari animali io la vedo. Per esempio, se fosse tanto imperativo, a che scopo i diversi, complicati e spesso fallibilissimi “rituali di corteggiamento”? (Grazie Volpe.) Oppure perché scegliere il partner invece di riprodursi con qualunque esemplare femminile fertile? Tipo, che ne so: tua madre, tua sorella… no, quelle l’imperativo naturale le dichiara off limits, almeno per te. Lo hai detto alle sorelle dei tuoi amici? Provaci, magari in presenza dei fratelli, vedi se sono d’accordo anche loro co’ st’imperativo naturale].

Guarda che carini…

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/f/f6/Mating_earthworms.jpg/1024px-Mating_earthworms.jpg [illustrazione a uso e consumo, evidentemente, di chi vi trova somiglianze nell’imperativo naturale.]

Questo per dire che il richiamo sessuale in sé non è per nulla educato, anzi: è maleducatissimo e, a volte, anche violento [attenzione, adesso parla del richiamo sessuale, non più dell’imperativo naturale. E questo che sarà? Ce lo spiegherà? Proseguiamo fiduciosi, dopo aver assistito a “come ti spiego lo stupro con cause naturali”. E’ proprio una gioia leggerlo]. Gli individui di alcune specie (qualche volta anche gli umani lo fanno) mettono a repentaglio la loro stessa vita per seguire questo istinto [ah, qualche volta, quindi non sempre e non tutti, e non di tutte le specie. Ma non era imperativo, non era violento? E come mai qualcuno se ne sottrae? E scusa, ma individui di tutti i sessi o solo di uno? Così, per sapere].

Certo, noi umani siamo evoluti [ah, ecco]: abbiamo imbozzolato questo istinto selvaggio in una serie di condizionamenti che ci consentono di vivere in società anche molto complesse [come? Quando? Il nostro etologo non ce lo dice, continua a fidarsi dell’evidenza di ciò che dice. Che non è evidente per niente: per esempio, perché ci sarebbero questi condizionamenti? Paragonandolo all’istinto di nutrirsi – oh, mi pare fondamentale e imperativo pure questo – com’è che invece non è poi tanto selvaggio e non fa incazzare la sorella del tuo amico? E poi, quale sarebbe il motivo di avere società anche molto complesse? L’imperativo naturale è scopare, mica costruire automobili]. Ma bisogna fare attenzione, perché a volte la necessità di dominare l’istinto con norme e condizionamenti di vario genere può spingersi fino alla sua negazione, e allora saltano fuori le nevrosi e talvolta le psicosi [ma perché c’è questa necessità, se c’è l’istinto? Intanto avete assistito anche a “lo psicologo dilettante”, gioco in voga da quando il pòro Freud pensò di pubblicare le sue cose e farle leggere a tutti. Da quel giorno, tutti pensano di poterle capire al volo]. E la negazione può diventare violenza brutale [di chi? Io mi nego le cose e poi divento brutale? Verso chi? Com’è che divento brutale verso l’altro sesso e non contro il mio, visto che i condizionamenti me li sono negati da solo? Oh, l’ha detto lui eh].

L’istinto lo si può e lo si deve controllare [e allora che istinto è? Perché chiamarlo così? Chiamarlo bisogno no?], ma negarlo è ipocrita e controproducente [io trovo ipocrita parlare a vanvera di cose che non si sanno e non si capiscono, e pure usare apposta un termine per avallare senza ragionamenti né prove i propri deliri. Se quello sessuale fosse stato chiamato un bisogno e non un istinto sarebbe un errore lo stesso, ma intanto tutta la costruzione pippologica sulla violenza e sull’imperativo crollerebbe].

Per dire: puoi essere certa che il tuo ragazzo, o marito, guarderà il culo o le tette di qualunque bonazza gli passi a tiro [comportamento dovuto all’istinto imperativo? E perché – tanto per fare la prima obiezione facile – se è tipico della nostra specie tante altre culture non danno alcuna importanza allo sguardo, a ciò che si vede? E ancora: perché, se c’è un istinto, in anni diversi, in luoghi diversi, tra gruppi diversi le caratteristiche tipiche della bonazza cambiano?]. Senza darlo a vedere, ovviamente: per non offenderti, perché il sesso è una cosa e l’amore è un’altra cosa [e adesso chi lo dice a Venditti?], ma lo farà [lui ne è certo, perché tutti i maschi di tutte le specie sono uguali: hanno l’imperativo naturale, no?].

E lo stesso farai anche tu, in modo diverso, meno esplicito, più complesso: perché sei femmina, e la missione biologica delle femmine è più complessa [CALMA, fermi tutti, facciamo ordine. Allora: c’è l’istinto naturale, il richiamo sessuale e adesso la missione biologica. CHE CACCHIO SONO? DOVE LE HAI PESCATE QUESTE SCEMENZE? Un link, un cognome… niente, tutta scienza infusa]. Ad iniziare [qui due parole sulla d eufonica] dalla scelta del maschio più adatto per finire al parto e alla cura della prole [traiamone le conseguenze: se una donna vuole vivere per cavoli suoi e senza avere figli, tradisce la sua missione biologica. E le suore? No, dico: E LE SUORE?].

I maschi hanno una missione biologica molto più semplice [ma guarda un po’, che culo]: possedere e inseminare quante più femmine possibile [deve averlo digitato usando il glande, a giudicare dal pacato climax retorico]. E anche nelle specie monogamiche come la nostra [ecco, qui basta Wikipedia per svelare la scemenza: la nostra non è affatto una specie monogamica, è solo un’opzione culturale di alcuni gruppi sociali] permane questo istinto primitivo alla promiscuità [ah, ecco, c’è un altro istinto: quello alla promiscuità. Ma sono due o è sempre quello di prima, meglio definito? Boh]. Anche nelle donne, eh? [oh, meno male, me stavo a preoccupa’.]

Dunque non ha senso proporre una educazione dei maschi [Lola non l’ha fatto, dovrebbe bastare saper leggere], e anche delle femmine [questo ancora meno], a partire dalla negazione di una realtà istintiva primaria [definizione del tutto personale: non c’è uno straccio di prova scientifica che lo sia, anzi che ne esista una] come l’attrazione sessuale [NO! Ma come l’attrazione? Ma hai parlato finora di riproduzione, promiscuità, sesso, violenza, e adesso te ne esci con una cosa moscia come l’attrazione?]: è ipocrita, nevrotizzante, controproducente [se gli effetti sono scrivere ‘ste cose, comincio a crederti].

Ha invece senso farlo a partire dal riconoscimento pieno della natura profonda di maschi e femmine [con buona pace degli altri generi – a proposito, ma come fanno a esistere tutti quei generi se c’è un istinto primitivo?], perché solo in questo modo uomini e donne possono rispettarsi per ciò che sono [belve inevitabilmente assetate di sesso i primi, e creature vòlte al parto e alla cura della prole le seconde. Però, complimenti per la scienza infusa].

Il pistolotto mi è uscito un po’ lungo [grazie anche per aver evitato il doppio senso]. E prima che parta la strigliata farò bene ad allontanarmi [tranquillo, Lola pensa solo al al parto e alla cura della prole, è il suo istinto, non hai nulla da temere]. Ciao. [Ciaone proprio.]

Igiene del decostruttore #2

DeconHarry2

«Mai mi sarebbe venuto in mente di scrivere una cosa del genere senza la compagnia continua di tutto il collettivo Femminismo a Sud, del quale, come capita in certe storie d’amore un po’ melense, mi sembra di far parte da sempre. Il fatto che oltre all’amore ci sia anche la politica non fa che rendere il collettivo folle abbastanza da, per esempio, mettere in giro roba come questa. Dàje così».

Così scrivevo qualche anno fa, e la sostanza non è cambiata. È cambiato il collettivo, ma non sono passati né il coinvolgimento personale né voglia di fare politica in questo paese pare che bastino per sembrare già un pericolo sociale. Bene. Dàje così.

Vi ripropongo quindi quello stesso testo, un po’ modificato grazie alle critiche di molti, e un po’ aggiornato. Ho visto che in questi anni la parola deconstructing ha fatto un po’ di strada – bene – e tanti altri si sono divertiti in questa attività – meglio ancora.

Cos’è il deconstructing?

Ho chiamato in questo modo, rifacendomi al titolo di un vecchio film di Woody Allen (Deconstructing Harry, 1997) una mia serie di post pubblicati sul blog di Femminismo a Sud e poi su Intersezioni, nei quali ho praticato un lavoro di critica, destrutturazione, ribaltamento di un testo atto a svelarne contenuti e intenzioni nascoste, provocatorie, o semplicemente politicamente sgradevoli; oltre a errori, omissioni, riferimenti sbagliati, pregiudizi. E’ anche successo che qualcuno, io no eh, ha osato accostare questa pratica – forse, con le dovute riserve – al significato del termine “decostruzione” com’è nato tra le parole di Jacques Derrida, ma tutto sommato la storia della sua origine, o dei suoi possibili accostamenti nobili, non conta poi molto. Tipicamente è stato oggetto di questi miei divertimenti analitici la presenza di pregiudizi sessisti più o meno occulti in alcuni testi, ma è anche capitato di trovare fascismi, patriarchismi, e altre meraviglie di questo genere; è uno sfizio che può funzionare bene per qualunque altro tipo d’indagine testuale.

Perché è tanto divertente?

Il divertimento consiste non tanto nel dileggiare l’autore del testo che si è scelto di decostruire – questo non è lo scopo e non è neanche un’attività politicamente rilevante – quanto il suo linguaggio. Mostrando “l’altro lato” delle parole scelte (le intenzioni di chi scrive, le costruzioni del suo linguaggio), o anche la struttura tipografica nella quale il testo si presenta, è inevitabile svelare quei meccanismi di consenso che, una volta esibiti, fanno risultare ridicolo il loro funzionamento e la loro pretesa di ragione. Spegnendo la forza – a volte la violenza – che anima quei testi, ci si accorge che molto della loro potenza suggestiva o della loro capacità di convincere risiedeva in realtà in giochi retorici privi di qualsiasi consistenza razionale, o per lo meno reale.

Dice Treccani che l’ipocrisia è“simulazione di virtù, di devozione religiosa, e in genere di buoni sentimenti, di buone qualità e disposizioni, per guadagnarsi la simpatia o i favori di una o più persone, ingannandole”. Tantissima informazione giornalistica fa un uso spregiudicato di un un linguaggio ipocrita, simulando qualunque qualità pur di avere più lettori, attirare sponsor o clic, far parlare di sé e/o della propria testata. Smascherarlo distrugge queste possibilità ingannatorie e allena a non farsi più ingannare, in futuro.

E tutto questo fa ridere, ovviamente. Almeno all’inizio.

Di quale testo parliamo?

I testi che meglio si prestano alla decostruzione – almeno per come finora l’ho attuata io – sono quelli che tipicamente occupano una pagina web: articoli di giornale online, post di blog, interviste riportate in rete, brevi saggi o recensioni. Il perché sarà chiaro più avanti, ma è importante premettere che nessun testo può essere immune dall’essere decostruito: anche immagini e video potrebbero tranquillamente essere decostruiti, l’importante è trovare una tecnica che ne smonti l’impianto retorico, che permetta cioè di interrompere – per criticarla – la logica che ne tiene insieme le parti (sui video ha realizzato un ottimo lavoro Lorella Zanardo). Quindi la prima e unica caratteristica che deve avere un testo per essere decostruito è l’essere divisibile in parti: parole o frasi per il linguaggio, zone o elementi per le immagini, scene, sequenze, gesti per i video.

L’importante è che queste parti nelle quali si divide il testo sul quale fare deconstructing abbiano un senso autonomamente dal resto. Nel caso di alcune poesie, o di un breve lancio d’agenzia, o di un paragrafo che espone i dati di una tabelle, conviene lasciare il testo unito e mostrarne i lati oscuri come un tutto, nella sua interezza. Questo perché il deconstructing non deve funzionare come una messa in questione della singola parola, una ricerca di un “lessico” migliore, bensì lo svelamento di un’intenzione di forzare il consenso del lettore.

Unità di senso, premesse e conclusioni

La divisione in parti è necessaria, credo, per individuare le intenzioni alla base del testo. Cioè per comprendere cosa “tiene insieme” tutte le parti del testo, qual è il suo scopo dichiarato – e anche quello occulto, se è possibile accorgersene leggendolo. In questo modo è facile stilare una breve lista – meglio appuntarsela da qualche parte – delle premesse e delle conclusioni inerenti al testo da decostruire. Non è detto che siano tutte immediatamente chiare entrambe: il lavoro di decostruzione serve anche a far emergere questioni non esplicite o non immediatamente avvertibili, ed è quindi da intendere non tanto come una mera analisi per avverare tesi contestatorie già pronte, ma una ricerca di quei mezzi coercitivi e/o logicamente scorretti (siano essi argomentativi o formali) che possono inquinare la comunicazione, principalmente quella politica. Quasi sempre è possibile individuare dei momenti precisi, nella costruzione argomentativa del testo: la ricerca di fonti a sostegno delle proprie idee, la messa in questione delle opinioni opposte, l’esposizione dei loro difetti o contraddizioni, la deduzione delle proprie posizioni come logica, ovvia, naturale, giusta.

Perché decostruire?

Decostruire è una pratica politica di libertà – almeno così la intendo io. E’ un gioco non solo per affinare l’intuito in lettura e comprensione, ma per condividere i propri dubbi e le proprie perplessità, per diffondere un atteggiamento critico verso ogni messaggio strutturato, per smascherare gli strumenti di oppressione mediatica in genere. Decostruire non è interpretare, nel senso di “dare una propria versione di qualcosa”: è una critica, cioè un’azione volta a demolire una catena monolitica di espressioni e significati inserendovi un’altra voce, così che il monologo possa farsi, in un certo senso, dialogo e che in questo dialogo si possa svelare quello che nel monologo rimaneva non detto, nascosto, camuffato. La decostruzione, quindi, non serve tanto a opporsi, a dire “il contrario” del testo decostruito: è utile piuttosto per quello che svela, che mostra mentre esercita una critica sulle parole, sulle frasi, sulla forma tipografica del testo originario. Così che quel testo che era stato pensato e scritto solo per essere letto, viene portato a “parlare” esso stesso di ciò che invece ha taciuto, aggiungendovi una voce critica.

Decostruire si fa con tutto il corpo

Per questi motivi ci tengo a sottolineare che la decostruzione non è tanto guidata da una lucida scansione delle ragioni, delle implicazioni logiche, delle conseguenze di certe assunzioni, quanto dalla sensibilità nei confronti del linguaggio. E’ un lavoro che nasce da un senso, non da una conoscenza, ed è guidato dal “fastidio” di aver sentito in azione nel testo da decostruire una violenza, una prepotenza che va smantellata, scardinata, mostrata nel suo ipocrita tentativo di creare una soggezione inesistente nei fatti. Finché questo fastidio è ancora avvertibile, la decostruzione non è finita. E questo fastidio si manifesta spesso con dolori, pruriti, giramenti di genitali e rodimenti di culo.

Deconstructing contro cosa

L’attività di decostruzione è una lotta contro i poteri della logica e della grammatica in azione in un testo. Il potere delle espressioni, per esempio, è spesso racchiuso in convenzioni, luoghi comuni, stereotipi che assumono come veritiero uno stato di cose frutto di pregiudizi e impressioni del tutto immotivate e non dimostrate. Il potere del lessico sta nella scelta della parola più coercitiva e meno liberatoria per guidare il lettore al concetto che interessa l’autore, le sue intenzioni spasso non dichiarate. Il potere della struttura testuale racchiude in paragrafi separati piccoli nuclei di senso che in realtà non sono affatto autonomi e ben fondati; infatti spesso quei paragrafi “chiedono” surrettiziamente al lettore di essere confermati per il loro essere semplicemente staccati dal resto. Il potere dell’abitudine passiva della lettura, al quale spesso si appella un discorso zoppicante e poco fondato, presume in chi legge fiducia totale nel testo scritto in sé.

Questi poteri vanno identificati, ne va compreso il raggio d’azione e vanno resi inoffensivi. Allora tutti i sensi possibili del testo – e le sue mancanze – potranno emergere senza difficoltà.

Deconstructing con che cosa

Non è necessaria alcuna preparazione per decostruire un testo, servono solo fantasia, determinazione, e le parole. Decostruire è fare i conti con il lessico e con la sintassi: c’è da sconfiggere l’ambiguità delle parole altrui e da lavorare sulla chiarezza delle proprie.

Le parole tendono ad amalgamarsi, a contaminarsi, e bisogna resistere all’adeguazione delle parole tra loro, nella tentazione di rendere ogni discorso liscio, pulito, senza intoppi. Se vogliamo dire così, decostruire è mettere bastoni tra le ruote, inceppare dei meccanismi, ostacolare il procedere delle frasi così com’erano progettate inizialmente. Provate a volgere le negazioni come fossero ammissioni: anche trasformare banalmente un “non credo che non” in un “io credo che” potrebbe sconvolgere l’ordine precostituito dall’autore. Oppure potreste ottenere effetti insperati dal trasformare le frasi ipotetiche/condizionali, rovesciandole: un “se A allora B” suona molto diverso da un “c’è B dove c’è A”, pure se le due formulazioni sembrano logicamente equivalenti. Ancora più interessante è giocare con i sinonimi: per esempio sostituire i verbi. Usare dei loro sinonimi, per poi rileggere le frasi, può far sorgere delle ipotesi di lettura che forse l’autore voleva occultare, quando ha scelto quella parola e non il sinonimo che avete messo alla prova.

Deconstructing da dove

Decostruire è, inevitabilmente, indagare le condizioni di possibilità di un testo, cioè ricostruire anche la sua storia, ciò che lo ha preceduto e che ha generato, nell’autore, la necessità di scriverlo. Quindi si tratta anche di domandare alle parole da dove vengono, quale necessità ha spinto qualcuno a usarle in quell’ordine, e non in un altro, per esprimere quel senso e non un altro. Le parole hanno una storia, nessuno le inventa lì per lì tanto per essere compreso o per esprimersi, perciò le scelte lessicali denunciano un passato, un’impronta originaria che l’autore sceglie perché la preferisce ad altre per i suoi scopi. E’ il caso, prendendo ad esempio i testi che ho decostruito, dell’uso del linguaggio militare da parte di commentatori politici. Se un autore scrive che tra i generi c’è “battaglia” e non “scontro” o “opposizione”, non è la stessa cosa. Per esempio, in una “battaglia” può esserci facilmente un “eroe”, il “sacrificio” e un “onore”, mentre a una “opposizione” sarebbe più difficile accostare quelle tre parole. Ecco che un testo viene caratterizzato da determinate scelte che colorano il discorso con aloni, presenze, atmosfere che non sono elementi da trascurare ma entrano a far parte della lettura, s’insinuano con i loro sensi multipli negli spazi bianchi tra le parole. Quindi vanno decostruite anch’esse, in qualche modo. Per questo usare l’ironia può essere, oltre che divertente, funzionale: l’ironia permette di evitare il condizionamento dovuto a elementi non puramente testuali, spazzando via le “arie”, gli odori e i sapori che determinate scelte lessicali introducono nel discorso.

Deconstructing chi

Decostruire è mettere se stessi in gioco, inevitabilmente, perché il lettore non è neutrale, mentre legge. Forse lo si vorrebbe così, ma ciò non è possibile, perché leggere è anche comprendere – o tentare di comprendere – e questo comporta distendere tutte le proprie convinzioni e conoscenze personali per entrare in ciò che il testo dice. Decostruire è quindi anche far emergere le sollecitazioni che il testo promuove in noi (nella memoria, nel corpo, nei sensi, nella cultura che abbiamo interiorizzato) e metterle alla prova facendole scontare con le parole scritte. Il risultato dovrebbero essere domande, interrogativi, questioni che il testo ha sollevato ma al quale non risponde o preferisce non rispondere, e c’è da chiedersi il perché.

Non è necessario però spostare il fuoco del lavoro decostruttivo dal testo al suo autore. Si dovrebbe sempre cercare di “rimanere sul pezzo”, perché si decostruiscono i testi ma non le persone. Per quanto chi le ha scritte possa avere un carattere spregevole o malevoli intenzioni, sono le parole lo strumento usato per veicolare violenza, costrizione, falsità o ipocrisie; sono loro a dover essere disinnescate. Dopo questo lavoro di decostruzione, l’autore non conterà assolutamente più niente.

Deconstructing come

Certo un PC è più comodo da usare, ma anche sulla carta si può fare un deconstructing. Il primo lavoro da fare è una accurata frammentazione dei paragrafi originali, spezzando tutte le frasi al punto (o dove la punteggiatura suggerisce di farlo) e scrivendole distanziate di una riga – su carta si possono usare evidenziatori a colori alternati, per esempio.

In questo modo le frasi posso essere lette in maniera “assoluta”, sciolte dal discorso precedente o successivo, e si possono riconoscere più facilmente le loro inconsistenze o incoerenze. Provate, oltre ai giochi lessicali già descritti, a immaginare di pronunciarle a una persona che non sta leggendo tutto il testo: hanno ancora un senso? Di cosa avrebbero bisogno per essere comprensibili? E nel resto del discorso sono presenti questi altri elementi? Tutte le espressioni sono chiare, sono definite? Questo lavoro permette di passare a una fase successiva, cioè individuare i legami nel testo tra le parti significanti. Ci sono sicuramente concetti che vengono premessi per definirne altri, oppure concessioni fatte per poter poi confutare una opinione. E’ bene segnare con evidenza questi legami, perché sono quelli che tengono insieme i vari argomenti e rendono il testo un “tutto” unito – e potrebbero essere, in realtà, del tutto arbitrari. Nel caso di una intervista, per esempio, l’ordine delle domande potrebbe essere stato scelto per meglio agevolare l’intervistato a dire ciò che gli fa piacere, e per evitare di dire cose a lui scomode; in un articolo di cronaca, alcuni fatti apparentemente slegati con la notizia principale potrebbero essere inseriti, all’inizio o alla fine, per mostrare come la notizia faccia parte di un insieme di circostanze che invece sono solamente create da chi ha scritto.

Una piccola accortezza ulteriore, che probabilmente porta a scoprire insospettati intrecci di senso, è il conteggio delle parole, ossia contare quante volte una parola viene ripetuta, anche nei suoi sinonimi. Può essere utile a rintracciare l’intenzione dell’autore di usarla come “veicolo” di un concetto non chiaro, oppure per rafforzare nel lettore l’idea che quella parola o espressione siano chiare e definite – ma nel testo la definizione non c’è.

Non è mai inutile raccomandare di distinguere, in ogni tipo di testo, “i fatti dalle opinioni”. Spesso opinioni personali dell’autore sono spacciate per evidenze, ovvietà, caratteristiche di ciò che viene descritto – ma non è così. E’ sempre necessario avere la mente pronta a cogliere atteggiamenti giudicanti, moralistici o comunque privi del giusto distacco necessario a una esposizione obiettiva, appunto, sia dei fatti che delle opinioni.

Sarà facile che emergano, nel lavoro di decostruzione, altri sensi possibili per il testo e anche altri attori coinvolti. Se ci sono, ad esempio, formule linguistiche che richiamano alla mente le espressioni tipiche di una persona che non è l’autore, si deve chiedere conto di questa “presenza”; oppure potrebbero esserci altri significati possibili, altri sensi per una frase o un’espressione, la cui ambiguitàè fonte di fraintendimento oppure di ricercata vaghezza.

La domanda che dovrebbe sempre alimentare il lavoro di decostruzione è: che cosa manca? Che cosa non mi fa sentire a mio agio quando leggo questo testo? E perché non c’è?

Link 

Qui di seguito la lista dei link ai “deconstructing” pubblicati finora da me, dal meno recente al più attuale – sono link anche quelli non colorati, cliccate con fiducia e buone risate, spero 🙂

Deconstructing SNOQ (SNOQ a pezzi) – 21/11/2011

Deconstructing “Liste. E femministe” – 22/12/2011

Deconstructing “Casapound spiazza tutti” – 13/2/2012

Storie di un padre NON separato #6 (parte prima: Deconstructing Giacomo) – 19/3/2012

Deconstructing “Che cos’è il patto di genere” – 19/2/2012

Deconstructing Clio Napolitano – “Morti rosa” – 2/5/2012

Deconstructing “Il recensore misogino” – Come non si fa una recensione – 25/6/2012

Cosa vogliono le donne? (deconstructing Gramellini) – 30/6/2012

Deconstructing “Pussy Riot, le giovani punk a processo” – 1/8/2012

Deconstructing Elasti – 14/9/2012

Deconstructing allievo e maestro – 21/9/2012

Il genocidio dei padri, ma siamo sicuri che esista? (Deconstructing Mazzola) – 25/10/2012

Io sono Tempesta (Deconstructing Mazzola bis) – 4/11/2012

La politica di Fonzie (Deconstructing la beta-solidarietà) – 7/11/2012

Decontructing SNOQ #2 – lo spot – 24/12/2012

Deconstructing ANSA – 8/1/2013

Deconstructing “i casalinghi” – 7/2/2013

Deconstructing l’ottomarzomaschio – 14/3/2013

Deconstructing le vergini violate – 10/04/2013

Deconstructing la vanvera – 10/04/2013

Deconstructing le poesie? – 19/04/2013

Deconstructing la censura –  19/04/2013
Deconstructing Don Riccardo – 02/05/2013

Deconstructing il moralismo – 13/05/2013

Deconstructing lo scienziato – 05/06/2013

Deconstructing il progetto di Dio – 05/06/2013

Deconstructing il direttore – 10/06/2013

Deconstructing le avances – 24/06/2013

Deconstructing l’amor cortese, i cavalieri, i parolieri, i giocolieri, gli uomini di ieri  – 08/07/2013

Deconstructing l’ignoranza (o Dell’anti-omofobia) – 30/07/2013

Deconstructing la cronaca stretta – 16/09/2013

Deconstructing “la tua opinione” – 02/10/2013

Deconstructing l’impressione – 16/10/2013

Deconstructing lo yin e lo yang – 21/10/2013

Deconstructing il sogno e l’incubo – 24/10/2013

Deconstructing l’ideologia totalitaria – 05/11/2013

Deconstructing la redazione – 25/11/2013

Deconstructing il Queer Bilderberg – 02/12/2013

Deconstructing “il sesso con sentimento” – 16/12/2013

Deconstructing la costanza (di Miriano) – 13/01/2014

Deconstructing il collaborazionismo sessista – 28/01/2014

Basta il pensiero (deconstructing il Metodo Scanzi) – 10/02/2014

Deconstructing quello (il giornalista) che ci prova – 18/02/2014

Deconstructing la zappa sui piedi – 25/02/2014

Deconstructing il genio della lobby rosa – 31/03/2014

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra – 08/04/2014

Deconstructing una certa idea di maschio etero – 28/04/2014

Deconstructing la frittata – 11/06/2014

Letture per l’estate (Deconstructing il ridicolo sessismo linguistico) – 30/07/2014

 

Daniza, cronaca di una morte annunciata

daniza01…E alla fine ce l’hanno fatta. Come ogni volta.

Daniza, la mamma orsa che a Ferragosto aveva osato ferire un umano per difendere i propri cuccioli, è stata uccisa dalla dose di anestetico impiegato per catturarla. I cuccioli separati, uno catturato e da adesso ‘monitorato’, l’altro chissà dove, solo, indifeso, disperso.

A nulla sono valsi gli appelli, perché  in un mondo intriso di specismo fino al midollo, quando un animale non umano osa reagire, o ferire (ancorché non gravemente, come in questo caso) un umano, esiste una sola, fascistissima risposta: la morte, o nel ‘migliore’ dei casi, il confino a vita in gabbie anguste.

Questo è lo specismo, la prima, più pesante e pervasiva forma di discriminazione di chi è percepito come irrimediabilmente altro. Lo specismo che ci viene insegnato da quando siamo in fasce, e che diventa efficace  modello su cui plasmare altre discriminazioni, come quelle intraspecifiche quali sessismo e razzismo. Lo specismo che non concede attenuanti, né pietà alcuna e non guarda in faccia a madri, piccoli, legami familiari e affettivi – da tanta parte dell’umanità dichiarati sacri ed intoccabili valori (quanta ipocrisia, quanta ingiustizia!)

Questo è quello contro cui combattiamo e ci ribelliamo: eppure mentre noi, sempre in poch*,  sempre con fatica – anche nell’ambito dell’attivismo militante – ragioniamo di come il concetto di umanità sia da mettere pesantemente in discussione, mentre pensatori visionari immaginano di rinnovare la meraviglia nel mondo reintroducendo i selvatici, quello che realmente succede è che gli animali non umani hanno due possibilità di esistenza: o schiavi – se domestici – a cui sottrarre la vita, torturabili, spendibili, sacrificabili a miliardi, numeri senza volto; o fuggiaschi, apolidi, clandestini braccati, fantasmi sempre sotto assedio, in territori spogliati delle risorse necessarie a garantirne il sostentamento, perché comunque, quel poco che c’è, devono spartirlo con l’umano padrone del globo terracqueo.

Gli animali non umani dovrebbero divenire tutti peluches: morbidosi, senza esigenze, senza corpo, anima, volontà e desideri.

Avete ucciso una madre che ha protetto i suoi cuccioli da un altro animale potenzialmente pericoloso, avete lasciato due orfani disperati e sperduti, e parlate ancora di tutela, protezione, reintroduzione? Come si possono reintrodurre orsi, o lupi, se a questi ultimi non vengono dedicati spazi adeguati per vivere, se al primo allevatore che piange i suoi poveri capi (che avrebbe poi macellato lui stesso nel giro di poco tempo)… tutti pronti con le armi in pugno? Se gli animali reintrodotti si trovano poi, loro malgrado, nel selvaggio west, perchè lo specismo, l’ignoranza e la grettezza  – anche di chi sarebbe in teoria incaricato di tutelarli – è senza fondo?

Restare uman*? E perchè, a quale scopo? Riconoscersi animali – quello che siamo! – è l’unica strada percorribile per molt* di noi. E io spero di vedere sempre più animali umani alzare la testa e ribellarsi, e trovare la forza di smascherare la verità dell’umano: l’orrore che siamo diventati.

L’orrore… l’orrore. 

 

Elegido a vivir

rompeunalanza

Versione italiana più in basso.

Elegido,
llevo muchos días pensando siempre en ti, y a todos los toros que han
venido antes de ti: siempre con la esperanza de que algo inesperado y
sorprendente ocurra, de que no se sacrifique tu vida. Elegido, no puedo
ni siquiera imaginar el miedo y el dolor, pero algo sé con seguridad:
cada vez que un Toro de la Vega muere, muere también la posibilidad de
un mundo diferente y, como especie, nos condenamos a presenciar y
experimentar nuevos horrores incansables.
No puedo explicar, nunca he sido capaz de explicar, por qué es tan fácil
para la humanidad infligir dolor y sufrimiento en vez de la bondad,
incluso por parte de aquellos que se llaman a sí mismos devotos y se
revuelcan en las ilusiones del paraíso, con las manos juntas para rezar
por su vida y la de sus seres queridos, justo después de la celebración
dispensan con ambas manos el infierno aquí en la tierra, a otras
personas y otros animales, desamparados y gentiles como tú.
Hoy, a pocos días de un destino que parece evidente en tu nombre, quiero
esperar que pase algo: lo que espero y sueño es que todas las personas
que quieren ir a Madrid para protestar, irrumpan en Tordesillas, el
lugar donde te espera el masacre, y se interpongan entre ti y la
multitud sedienta de sangre, para demostrar con los hechos, no con las
palabras, que esta no es la forma en la que queremos vivir, la que
queremos ser.
Tienen que venir por ti, porque la política no levantará un solo dedo
para salvarte: a la política no le importa de la gente, y mucho menos de
un pobre toro!
Lo que nos salva somos nosotros, con nuestras acciones de todos los
días, y las personas que están a nuestro alrededor, cuando toman el
coraje y desafiando el miedo y la fatiga, todos juntos, unidos, luchando
por algo tan importante como … tu vida.
Ninguna otra persona lo hará: como es posible que muchos se organizan
para verte morir, pero tan pocos para que tu vivas?
Y decir que de los miles que vertieron los últimos años en Madrid,
serían suficiente la mitad para darte otra oportunidad!
Elegido, yo no quiero seguir llorando sobre tu destino: mientras hay
vida hay esperanza. Y tú estás vivo, como nunca antes, y la esperanza
está viva con ti: la esperanza de un cambio real, la esperanza de la
acción directa, el valor de la vida en contra de la cobardía de los
asesinos sedientos de sangre.
Tu gran cuerpo, enorme, pero impotente, tiene que ser protegido, y esto
no se puede hacer a miles de kilómetros de distancia.
Y ahora que el sol todavía te acaricia la piel, que hoy todavía sientes
el olor de la hierba y que no estas consciente de lo que te espera
dentro de poco, pienso en ti con dolor y rabia, y espero de todo corazón
que tu nombre sea un presagio de algo inesperado, estás Elegido para
seguir viviendo!
Esto sólo ocurrirá si el río de gente vaya a verter en Tordesillas, como
si tu fueras un hijo, un amigo: como el símbolo que de toda forma eres,
la lucha entre lo peor y lo mejor de nosotros, lo que llevamos siempre
con nosotros. Coraje, Elegido!

Elegido,
da molti giorni ormai non faccio che pensare a te, e a tutti i tori che
prima di te sono venuti: sempre augurandomi che qualcosa di imprevisto
ed incredibile succeda, che la tua vita non venga sacrificata. Elegido,
non riesco nemmeno ad immaginare la paura e il dolore, ma una cosa so di
per certo: ogni volta che un Toro de la Vega muore, muore la possibilità
di un mondo diverso e, come specie, ci condanniamo a testimoniare e a
vivere nuovi, incessanti orrori.
Non so spiegarmi, non ho mai saputo spiegarmi, perché sia così più
facile per l’umanità infliggere dolore e sofferenza invece di
gentilezza: anche quelli che si definiscono devoti e si cullano in
illusioni di paradisi, con le mani giunte a pregare per la propria vita
e i propri cari, appena finita la celebrazione dispensano a piene mani
l’inferno qui sulla terra, ad altre persone e agli altri animali,
animali miti e indifesi come te.
Oggi, a pochi giorni da un destino che sembra evidente anche nel tuo
nome, io voglio sperare che qualcosa accada: quello che spero e che
sogno, è che tutte le persone che intendono andare a Madrid a
protestare, si riversino in Tordesillas, il luogo dove ti attende il
massacro, per mettersi tra te e la folla sanguinaria, per dimostrare con
i fatti, non con le parole, che non è questo il modo in cui vogliamo
vivere, chi vogliamo essere.
Devono venire da te, perché la politica non muoverà un dito per
salvarti: la politica non si cura nemmeno delle persone, figurarsi un
povero toro!
Quello che ci salva siamo noi, nelle azioni quotidiane, e le persone che
stanno intorno a noi, quando prendono il coraggio a piene mani e
sfidando la paura e la fatica, tutte insieme, unite, lottano per
qualcosa di così importante come… la tua vita.
Nessun altro lo farà: possibile che tanti si organizzino per vederti
morire, ma così pochi per farti vivere?
E dire che delle migliaia che si sono riversate gli scorsi anni a
Madrid, basterebbero anche solo la metà per darti una possibilità!
Elegido, non voglio ancora piangere il tuo destino: finché c’è vita c’è
speranza. E tu sei vivo, come non mai, e la speranza è viva con te: la
speranza di un cambiamento reale, la speranza dell’azione diretta, del
coraggio della vita contro la viltà di assassini sanguinari.
Il tuo grande corpo, enorme ma indifeso, ha bisogno di essere
protezione: e questo non si può fare a migliaia di chilometri di distanza.
E oggi che ancora il sole ti sfiora la pelle, oggi che ancora senti il
profumo dell’erba e che sei ignaro di ciò che a breve ti attende, io
penso a te con dolore e rabbia, e spero con tutto il mio cuore che il
tuo nome sia presagio di qualcosa di inatteso, che tu sia Elegido a
continuare a vivere!
Questo potrà solo accadere se quel fiume di persone si riverserà a
Tordesillas, come se tu fossi un figlio, un amico: come il simbolo che
tuo malgrado sei, della lotta tra la parte peggiore e la migliore di
noi, che ci portiamo dentro da sempre. Coraggio, Elegido!

Elefanti nella stanza: la discussione politica su suicidio e disagio psichico che non c’è (ma dovrebbe esserci)

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Ci sono diverse immagini di questi giorni: io che piango a dirotto per ore abbracciato da uno dei miei partner, io che sono nella mia stanza, in un angolino del mio letto raggomitolato e con le mani nei capelli, mentre fisso il vuoto con gli occhi spalancati, con mio padre che si sveglia e notandomi visibilmente stravolto mi fa una camomilla e chiacchieriamo un po’, poi ci sono io che chiamo il mio partner e la sua ragazza perché mi sento uno schifo e non me la sento di uscire e glielo rendo noto, per poi piangere ancora altre ore afflitto dal senso di colpa di questo cambio di programma, io che privo il mio corpo fisico di ulteriore acqua per spendere lacrime ulteriori per tutte le mie paure che usualmente mi porto in giro senza dar loro voce, io che riverso angoscia in una decina di conversazioni diverse su whatsapp con ogni amicizia e con ogni persona che fa parte della mia rete sentimentale, io che sono attraversato dal pensiero di ammazzarmi e scoppio a piangere (di nuovo) perché anche questa è una delle cose che mi spaventano. I miei genitori mi suggeriscono l’idea che forse ho diminuito le gocce di ansiolitico troppo in fretta, e mi trovo mio malgrado a dar loro ragione, perciò le ho prese di nuovo, e stavolta diminuirò con molta più lentezza. Insomma, dopo le montagne russe mi godo per la prima volta uno status di mediocre normalità, dove per normalità si intende assenza di ansie particolarmente opprimenti ed esagerate.

Leggo che è morto un compagno, e posso sentire un malessere crescermi dentro ogni volta che incontro un necrologio virtuale per lui. Non perché non dovrebbe esserci a priori, ci mancherebbe. Il disagio è suscitato dal fatto che in particolare si tratta di un suicidio. Parlare, pensare e soprattutto sentire il suicidio mi mette a disagio in una maniera che non è così facile verbalizzare – sì, mette a disagio me, lo stesso tizio che prova a criticare, analizzare, mettere in discussione qualsiasi cosa. E qualcosa mi dice che questo ha a che fare con l’opera di rimozione e negazione collettiva che si fa nei confronti di queste tematiche. Di morte non si parla, perché moriamo tutti e vogliamo che sia più tardi possibile, se la morte ce la vogliamo procurare da soli è ancora più tabù, e di ansia nemmeno, perché l’ansia ci pervade e riconoscerla significa ammettere l’esistenza di un problema (un problema non immediatamente rimovibile, quindi l’ansia aumenta).

Mi arriva una sensazione fortissima di inevitabilità; il malessere, che è un cattivissimo consigliere e uno stronzo bugiardo, mi suggerisce che quello è il fato di tutti noi. Mi fa un male cane. Davvero tutto questo è inevitabile? Davvero l’unica via alla sopportazione passa per l’integrazione nel sistema affogando nelle miserie proprie e in quelle altrui, ove percepite e non ovattate da un mondo che disimpara l’empatia? Molti compagni e compagne concepiscono il suicidio come fosse un atto estremo di libertà, quando tutto soffoca; l’unica uscita antincendio in un mondo dato alle fiamme. Non lo è, o meglio lo è nella psiche di chi  è investit* dai suoi demoni, cosa che mi rende comprensibile il gesto; vorrei tanto però che smettessimo di dare un’aura di romanticismo sovversivo a un gesto che rappresenta soltanto la tragedia di ciò che ci circonda e la voglia, anch’essa piuttosto comprensibile, di sfuggirvi. Mi arriva quindi addosso tutta la nostra debolezza; non solo quella individuale, la cui espressione non abbiamo ancora imparato a legittimare e che è quindi strizzata in una serie di gesti estremi e incontrollabili, ma quella collettiva, che mi fa paura.

Ho paura, perché questo significa che come movimento che dovrebbe sbriciolare lo stato di cose presenti non abbiamo una rete di solidarietà reale che faccia fronte davvero agli stati peggiori delle nostre menti, così ipersensibili allo schifo del presente.  Non c’è, cazzo, non c’è, dovremmo essere unit* e forti dell’essere solidali, ma non accade e sento in cuor mio la responsabilità di queste morti. Forse dovremmo incominciare a sentirla tutte e tutti, questa responsabilità. Forse sarebbe il caso che tutti la finissero di dire resisti, devi avere le palle/ovaie, non essere codard*, non preoccuparti/deprimerti troppo, e altre frasette di circostanza che non danno alcuna forza ma spingono verso il baratro. Finisce qui. La forza ci deriva dall’esistenza di reti, ascolto, supporto, mutualismo. Quando ci siamo preoccupat* di scrivere un’analisi politica su questo? Quando? Persino il movimento antipsichiatrico, che per definizione è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza del trauma e del dolore, non trova molto spazio per la narrazione di questi ultimi. Anzi. Ciò che ci è rimasto è soltanto la critica borghese e individualista verso chi cerca di gestire i propri malesseri tramite psicofarmaci (a volte l’erboristeria non basta), ma non andiamo a urlare per ottenere psicologi gratuiti per tutt*, mentre cerchiamo di sradicare le fonti di ciò che ci fa male. Siamo vulnerabili ed è ora di ammetterlo, con azioni concrete. L’abbiamo fatta mai un assemblea per parlare di attacchi di panico, di disordini alimentari, di depressione clinica? È ora. Ci portiamo il maalox per spruzzarlo negli occhi irritati dai lacrimogeni, ma le irritazioni che sfuggono alla vista non sono meno dannose. Il disagio psichico è reale, e il femminismo ci offre uno spunto importante e fondamentale in seno al movimento femminista stesso ma anche per la costruzione di qualsiasi altra cosa di sensato del mondo: il personale è politico. Quindi, lo psicologico è politico.

L’ansia generalizzata che ho è la stessa che mi impedisce di andare a un corteo senza sentirmi un senso di fortissima preoccupazione e costrizione al petto quando passo di fronte ai celerini. Eppure, sono convinto che quest’ansia, che contiene anche ansia di cambiamenti (economici ed esistenziali) che non arrivano e che mi pizzica, valga almeno un sampietrino. E tanta autocoscienza.

 

Grazie a chi “difende la vita”

Marion Peck
Marion Peck

Voglio dire grazie a tutte quelle persone che “difendono la vita”.
Grazie agli obiettori e ai non obiettori che ‘hanno capito tutto’, farmacisti/e, medici/he, infermieri/e, grazie alle sentinelle in piedi, sedute e stese, grazie a chi prega per i “non nati”, grazie a chi gestisce centri per “il dono della vita”,  i quali diffondono volantini con immagini (false) di feti abortiti o che si succhiano il dito e depliant sulla “sindrome post aborto”. Grazie per i monumenti cimiteriali e no, dedicati all’essere “madre di un figlio morto”. Grazie ai preti e alle suore, laiche e consacrate. Grazie ai politici e alle politiche che usano i “temi etici” come moneta di scambio. Grazie a tutti quelli che nel web non mancano mai di esprimere il loro parere contrario all’aborto delle altre – chiunque sia quell’altra – anche se non hanno un utero… semplicemente rispondendo con un “contrario”, in un sondaggio su facebook. E se gli fai notare che opinione per sé è diverso da giudizio o imposizione sull’altr@, ti danno della fascista.
Grazie, perché abbiamo bisogno della vostra caparbietà e costanza. Senza di voi rischieremmo di dimenticare che, in quanto donne, la dobbiamo pagare cara e amara sempre, e non contiamo niente, siamo solo merce di scambio, animale umano da fatica o compagnia – fino a quando culo e zizza restano sodi – e da riproduzione: martiri della maternità da ricordare con cinque minuti di silenzio, poi si va al mare a vivere la propria vita.
Grazie. Senza di voi certi risultati non riusciremmo nemmeno a immaginarli.

Pizzo per abortire in ospedale, arrestati anestesista e l’unico ginecologo non obiettore

“Se vuoi fare subito, due o tre giorni, devi pagare questo. Se invece vuoi andare all’altro ospedale, non paghi niente, ma c’è molto da aspettare”. Le intercettazioni ambientali ed il video, che attesta anche un passaggio di denaro non lasciano spazio alle interpretazioni. I tempi d’attesa, indefiniti, sono stati lo spauracchio per numerose donne che hanno deciso di sottoporsi ad intervento di interruzione volontaria di gravidanza in ospedale (quindi una prestazione a carico del servizio sanitario nazionale), ma dietro pagamento, pur di  accorciare i tempi. Cento euro come tariffa standard per un aborto in tempi rapidi – qualche giorno dopo la richiesta –  altrimenti bisognava attendere, non si sa quanto, rischiando di superare il limite dei 90 giorni, termine oltre il quale non si può praticare l’intervento. E’ quanto scoperto dai carabinieri di Cerignola all’interno dell’ospedale “Tatarella” del centro ofantino, dove due medici sono stati arrestati (ai domiciliari) e dovranno rispondere del reato continuato di concussione in concorso.

Secondo l’accusa, i due – Osvaldo Battarino e Giuseppe Belpiede, di 56 e 62 anni, il primo dirigente medico responsabile del servizio di interruzioni volontarie delle gravidanze del presidio ospedaliero ed il secondo quale direttore dell’unità di anestesia e rianimazione della medesima struttura – avrebbero chiesto alle donne che si presentavano per compiere l’interruzione volontaria della gravidanza, di versare loro somme di denaro in contanti (100 euro che i due indagati dividevano tra loro), subordinando a questo pagamento l’effettuazione tempestiva dell’aborto, il cui costo è però a carico del servizio sanitario nazionale.

L’indagine è partita alla fine del 2013 quando un uomo ha denunciato ai carabinieri di Cerignola che Battarino (unico medico in servizio presso l’unità di ginecologia ed ostetricia di Cerignola a non aver sollevato obiezione di coscienza all’esecuzione degli aborti) aveva preteso il versamento di 100 euro in contanti per effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza alla figlia. “Il denunciante – spiegano nero su bianco i carabinieri – precisava che nonostante avesse rappresentato al Battarino di fruire dell’esenzione dal pagamento del ticket per la prestazione sanitaria, il professionista aveva preteso la somma richiesta da ripartire in parti uguali con l’anestesista spiegando che, in difetto, non avrebbe eseguito l’intervento prima del compimento del novantesimo giorno di gravidanza”.

Le indagini hanno quindi accertato che quello denunciato non era un caso singolo, ma che sussisteva un vero e proprio sistema che subordinava la celere interruzione di gravidanza al pagamento di somme di denaro. Così i due professionisti, sfruttando il fatto di essere gli unici medici dell’ospedale di Cerignola a non essere obiettori di coscienza, effettuavano gli aborti a pagamento, durante il normale orario di servizio, nei locali e mediante le attrezzature appartenenti alla struttura ospedaliera pubblica di Cerignola.

Dalle intercettazioni, inoltre, si evince che Battarino dava ai colleghi la disponibilità ad intervenire celermente, anche il giorno successivo alla telefonata, sempre che pagassero la somma richiesta: “se tu vuoi io la posso fare pure domani mattina. Se lei sa che praticamente io le faccio il certificato e la visita di Belpiede sono cinquanta e cinquanta, non c’è problema, può venire domani mattina”. Il Battarino riceveva, quindi, la paziente nel suo studio e si faceva consegnare il denaro da dividere con l’anestesista per effettuare l’intervento. L’indagine ha fatto luce su venti casi riscontrati, tutti inseriti in un sistema di malaffare che andava avanti da molto tempo, come dichiarato dallo stesso Battarino in una conversazione intercettata dai militari dove il professionista spiega al suo interlocutore il funzionamento del meccanismo: “Io faccio 500 interruzioni all’anno, da 25 anni. 500 all’anno, hai capito?”.

Facebook e la sua millantata apertura alle diversità

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Molti sapranno  già delle nuove opzioni di personalizzazione del sesso recentemente introdotte su ogni profilo. C’è già stata qualche critica, ma nulla di distante dalla noia brutale dei soliti noti che si lamentano perpetuamente  delle lettere che vengono, di tanto in tanto, aggiunte all’acronimo LGBT. Giustamente,  preferirebbero che la sigla rimanesse sempre GGGG. Ironia a parte, cosa stiamo festeggiando esattamente?

Ricapitoliamo. Un’azienda californiana fattura molti, moltissimi soldi. Questi introiti gli derivano principalmente dalla vendita di spazi pubblicitari situati sul sito stesso e scelti oculatamente in base alle caratteristiche rivelate dell’utente, come età, sesso, luogo di nascita e di residenza, interessi, hobbies, film, musica preferita e molto altro ancora. Considerando che ogni utente di tale piattaforma è letteralmente la gallina dalle uova d’oro di Zuckerberg, ne conveniamo che l’azienda trae ogni vantaggio possibile dal far sentire a proprio agio i propri dipendenti, ignari o consapevoli. Con tutto questo fiume di denaro, delle possibilità di autodescrizione un po’ meno in bianco e nero non sono poi possibilità così fantasmagoricamente progressiste. Con un po’ di milioni in meno,  si darebbe un certo apporto positivo a questioni “irrilevanti” come la possibilità per le persone trans di accedere alle prestazioni sanitarie che necessitano, arginare la disoccupazione dilagante con relativa assenza di reddito,  fornire servizi per persone trans senzatetto (le quali sono escluse dai già insufficienti servizi esistenti, in quanto spesso divisi per genere). Ma il profitto viene prima delle persone: è il capitalismo, baby.

Qualcuno mi spieghi, poi, l’assurdità per cui posso inserire ogni ipotesi identitaria che mi attraversi anche soltanto per sbaglio l’anticamera del cervello, ma non posso esprimere la mia eventuale attrazione nei confronti di chi la incarna, visto che nella casella delle attrazioni il binarismo di genere rimane: si possono spuntare solo uomini e donne. Oppure perché a realtà come Intersexioni  è impedito di pubblicare alcunché poiché segnalato come sito pericoloso in quanto segnalato come spam, ma veri capolavori di pattume ideologico come Sentinelle in Piedi e Manif Pour Tous sono più che graditi.

Non posso quindi fare a meno di sentirmi preso in giro da chi, in tutta serietà, plaude questo gesto di discutibile inclusione. Si chiama fidelizzazione del cliente (che poi è un dipendente). È marketing allo stato puro, e politicamente parlando, pinkwashing. Possiamo scegliere ben cinquantasei identità di genere diverse, oggi, ma chiediamoci quante di queste possano essere liberamente espresse al di fuori di un campo vuoto da riempire nel nostro diario, perché quando usciamo dal digitale, non possiamo cambiare le impostazioni di privacy della violenza altrui. Purtroppo.